CELLARIO (Cellaria), Francesco
Nato a Lacchiarella, in provincia di Milano, intorno al 1520, era figlio di un vinicellarius di nome Galeazzo. Entrato nell'Ordine francescano dei minori osservanti, tra i quali venne chiamato frate Giacomo, fu ordinato sacerdote e dopo il 1550 lo troviamo presente nel convento di Pavia. Nel 1557 venne inquisito dal S. Uffizio pavese come sospetto di eresia. Il primo maggio, "salutatibus impositis poenitentiis", rinunciò formalmente alle proprie opinioni in materia di fede e fu dimesso senza altre conseguenze. Ma, qualche mese dopo, venne di nuovo denunciato allo stesso tribunale come detentore di "libri proibiti", seguace di dottrine eterodosse ultramontane, propagandista della Riforma protestante per mezzo della predicazione. Incarcerato e tradotto davanti al giudici, confessò apertamente di aver fondato i suoi sermoni evangelici sulla teologia di B. Ochino, M. Butzer e G. Calvino.
Mentre la causa era istruita il C., conscio che come "ricaduto" sarebbe stato gravemente condannato, si sottrasse al giudizio inquisitoriale con la fuga. Il tribunale emise la sentenza, che condannava il contumace come "haereticus impoenitens ficte conversus ac relapsus", il 2 genn. 1558 chiedendo l'intervento del braccio secolare per far applicare la pena inflitta. Il C., rifugiatosi in territorio grigione e ottenuto l'asilo religioso, aderì ufficialmente alla confessione di fede riformata e successivamente venne nominato ministro di culto della chiesa evangelica di Morbegno, dove si stabilì prendendo per moglie Antonia e vivendo "in summa angustia". Nel quadro delle tensioni emerse tra i gruppi degli eretici italiani su posizioni radicali e le Chiese riformate svizzere egli prese inizialmente una posizione non allineata con le direttive tigurine e firmò la dichiarazione dei "cinque parroci" che presero le difese di Michelangelo Florio di fronte all'attacco di Heinrich Bullinger (1561).
Nel febbraio e nell'aprile del 1568 si aprirono a Mantova due grandi inchieste, coordinate dal cardinale Carlo Borromeo per conto del S. Uffizio romano dell'Inquisizione, al fine di reprimere un gruppo ereticale di laici protetti dagli ambienti governativi dei Gonzaga e di ricostruire l'entità della partecipazione dei monaci benedettini della Congregazione cassinese alle idee eterodosse. Secondo testimonianze di parte cattolica il C., dopo il suo esilio in Svizzera, aveva continuato a mantenere legami con l'Italia e in particolare con Mantova, "ubi magno cum illius civitatis periculo perfidiae suae virus effundebat" (Laderchi). Anzi, sembra che "statis diebus" vi si recasse in incognito, come confermerebbe anche una notizia dell'ambasciatore toscano a Milano contenuta in un rapporto diplomatico al granduca. È probabile dunque che nel corso delle indagini svolte dal Borromeo sia risultato il nome del C. come propagandista riformato e che a livello della massima gerarchia ecclesiastica romana sia maturata la decisione di trovare il modo di arrestarlo. Secondo fonti di origine protestante la decisione del S. Uffizio fu invece dettata dall'esigenza politica di venire a conoscenza delle iniziative riformate di penetrazione religiosa in territorio grigione e sarebbe quindi da inserire nell'ambito della organizzazione della resistenza cattolica nelle Tre Leghe e all'interno della questione valtellinese (De Porta).
Pio V dette personalmente ordine al padre Pietro Antonio Casanova di predisporre, insieme con i domenicani di Morbegno, dove aveva sede un convento dell'Ordine che si trovava al centro della rete spionistica cattolica, le modalità della cattura del Cellario. L'occasione di mettere in pratica un "nuovo genere di violenza inaudito tra le nazioni civilizzate" (Maccrie) si presentò quando il pastore fu costretto a transitare "vicino" al confine lombardo.
Nei primi giorni di giugno del 1568 si tenne a Zuz, nell'Engadina superiore, un sinodo dei ministri evangelici della Rezia. Il C. vi rappresentò la comunità di Morbegno. Durante il viaggio di ritorno si fermò qualche giorno a Chiavenna per concludere degli affari di carattere privato. Il 5 giugno, in prossimità, di Mezzola, fu sequestrato da un gruppo di otto sicari cattolici assoldati dal Casanova. Trasferito con una barca a Como, fu avviato verso Milano e consegnato nelle mani dell'inquisitore che aveva già ricevuto l'ordine di farlo proseguire per Roma tramite Ottavio Farnese duca di Piacenza. Il sequestro di persona, effettuato in territorio confederale da stranieri per conto di uno Stato italiano, pose gravi problemi di diritto internazionale alle autorità retiche, le quali erano impreparate politicamente ad affrontarle anche per le contraddizioni confessionali esistenti all'interno della classe dirigente e per la mancata solidarietà delle altre potenze.
Il primo gesto compiuto dai signori grigioni fu quello di Giovanni Planta, governatore provinciale della Valtellina a Sondrio, il quale protestò formalmente presso le autorità locali comasche esigendo la restituzione del prigioniero. Contemporaneamente i protestanti - convinti che senza un'adeguata azione di forza nei confronti dei religiosi regolari stanziati nel loro territorio fosse impossibile risolvere positivamente il caso - cominciarono a organizzare manifestazioni popolari anticattoliche di pressione che si trasformavano facilmente in pericolose ritorsioni antilombarde.
Convocatosi a Coira il Senato retico per le prime consultazioni, fu adottata una linea di intransigente difesa del principio giurisdizionale evitando tuttavia di dare esiti militari all'azione politica intrapresa. L'indicazione era quella di ricercare gli autori materiali del sequestro di persona tra i frati domenicani e di predisporre una punizione esemplare dei responsabili. Venne ordinato al commissario di Chiavenna e al podestà di Piur di procedere all'arresto di due frati sospettati di aver preso parte al rapimento e di tenerli a disposizione del governo. Ma essi riuscirono ad eludere il giudizio sottraendosi con la fuga alla libertà provvisoria concessa attraverso il pagamento di una cauzione e il vadimonio. Sul capo del Casanova venne posta una taglia.
Mentre l'ambasciatore lombardo presso le Tre Leghe, Giovanni Anguissola, assicurava la propria disponibilità a collaborare per dirimere il conflitto, manifestando l'opinione che il C. dovesse essere restituito, furono inviati a Milano tre delegati per parlare con il governatore e con l'arcivescovo.
Il governatore Gabriel de la Cueva duca di Albuquerque garantì la sua estraneità alla vicenda. Se non aveva possibilità di interferire nelle autonome decisioni dell'inquisitore e personalmente riteneva che il pontefice avesse pieno diritto a sequestrare e giudicare gli apostati in qualsiasi parte del mondo, si offrì di intervenire direttamente presso Pio V. Il Borromeo si pose su una posizione analoga e informò il cardinale Scipione Rebiba prospettando la complicazione internazionale che ne sarebbe seguita, ma esaltandosi nello stesso tempo per la possibilità che si apriva di conoscere dall'interno la situazione nei Grigioni (gran parte di queste speranze vennero a cadere quando il progettato confronto tra il C. e una spia del governatore di Milano in Valtellina non poté aver luogo per la morte di quest'ultimo).
L'operato dei tre delegati retici fu sottoposto a dure critiche da parte della gerarchia ecclesiastica riformata e dell'intera opinione pubblica protestante dei Grigioni, che insinuarono il dubbio di alto tradimento per il modo come era stata condotta e subita la trattativa coi Milanesi. Era accaduto infatti che uno dei membri dell'ambasceria, Battista von Salis di Soglio, aveva in quel tempo (10 giugno 1568) ricevuto un'investitura cavalleresca pontificia.
Dalla riunione delle Comunità tenutasi a Coira il 20 luglio uscì, la decisione di agire come ritorsione contro i cattolici presenti nel paese e si presero alcune misure concrete soprattutto in Valtellina e Valchiavenna. Ma l'attuazione dei provvedimenti si scontrò con la resistenza dei delegati cattolici i quali ribadirono il principio del vescovo di Coira sul diritto della gerarchia ecclesiastica romana a giudicare chiunque le fosse stato sottoposto in virtù del voto di obbedienza pronunciato.
In questo modo si venne aprendo il dibattito sulla questione, della "libertà retica", sancita dal 1544, essendovi anche molti signori di confessione riformata a ritenere valido il principio di estradizione per i sudditi dei vari Stati italiani che avevano ottenuto asilo "religionis causa". Si trattava evidentemente non solo del riflesso della esigenza di non giungere a una prova militare con i Lombardi, ma anche di ritagliarsi un margine di manovra nei confronti degli italiani che non intendessero sottostare alle direttive dell'ortodossia riformata svizzera.
Il confronto tra le due posizioni avvenne soprattutto durante i "comitia" di Ilanz nel gennaio del 1569. È vero che il massimo organo collegiale decretò inammissibile, per un paese pluriconfessionale fondato sul Toleranzedict del 1557, la vicenda che aveva portato al sequestro del C. e i riformati ottennero più potere nelle zone miste di prevalenza cattolica. Ma lo scontro a livello internazionale era finito con la vittoria dell'autorità pontificia, che aveva imposto nella pratica politica il principio della propria giurisdizione spirituale. L'accettazione dello status quo, nonostante le contrarie dichiarazioni verbali, veniva sancita con il "risarcimento" a spese dei responsabili. La moglie e i figli del C. ottennero la concessione di un sussidio annuo di 30 fiorini del Reno che, per disposizione governativa, dovevano essere prelevati dalle rendite del convento di S. Maria di Dona presso Chiavenna, del collegio domenicano di Morbegno, del santuario della Beata Vergine di Tirano (allo scadere del primo dodicennio la pensione venne confermata per la stessa durata il 14 genn. 1581).
Il fatto è che le autorità politiche delle Tre Leghe non avevano alcuna intenzione di arrivare a una prova di forza con l'esercito spagnolo in Lombardia, riproponendo un'azione come quella del 1556 che, con la minaccia dello sfratto dei frati dal territorio e l'incameramento dei beni ecclesiastici cattolici, aveva portato alla restituzione delle persone e delle merci di due commercianti italiani (i fratelli Alessandro e Francesco Bellinghetti) i quali avevano ottenuto l'asilo religioso dai Grigioni ed erano stati arrestati dall'Inquisizione milanese. Le stesse velleità dei ministri riformati, che chiedevano un intervento atto a salvaguardare i diritti civili e religiosi retici, vennero fin dall'inizio frustrate dalle opinioni espresse dai dirigenti protestanti svizzeri, soprattutto dal Bullinger che si era assestato su una posizione di estrema moderazione per il timore che la vicenda provocasse un intervento armato spagnolo in territorio confederale. Estremamente indicativa, da questo punto di vista, è la corrispondenza del Bullinger con Tobias Egli, capo della chiesa di Coira.
Pio V, ormai rassicurato che le complicazioni internazionali provocate si erano risolte in una "umiliazione" dei protestanti retici e in una "esaltazione" della S. Sede, volle prendere contromisure anche nei confronti della decisione statale grigiona di condannare in contumacia il Casanova come responsabile materiale dell'azione ed emanò una truculenta costituzione sulla assoluta "libertà" degli inquisitori nell'esercizio delle loro funzioni (1° apr. 1569), mentre faceva preparare la condanna a morte del Cellario. Secondo testimonianze di cronisti cattolici il C. durante il processo romano denunciò fratelli di fede che operavano a Mantova e in altre città italiane.
Fondandosi su questa notizia il Lanzoni identifica il C. con quel Francesco di Eboli che, mandato prigioniero da Milano a Roma, passando per Faenza "disse quella essere la loro cara città" e di fronte al tribunale dell'Inquisizione scoperse "infiniti faentini". L'identificazione viene accolta anche dal Maselli che, su questa base, insiste sui legami tra i vari gruppi protestanti italiani anche territorialmente disgiunti. Si tratta tuttavia di una ipotesi fondata su elementi troppo labili, cioè solo sul fatto che il C. fu giustiziato insieme con Camillo Ragnoli di Faenza.
Le "eresie" confessate dal C. durante gli interrogatori davanti al S. Uffizio romano ed elencate summatim dal Laderchi "ex abdito archivo" si collocano nell'ambito della teologia riformata con una forte accentuazione zwingliana a proposito del simbolismo sacramentale. Quello che maggiormente interessa è rilevare il fatto della presenza di un residuo ereticale incompatibile con la sua funzione di ministro di culto riformato. Quando infatti il. C. confessa "Christum nostrum advocatum non esse" rivela di essere ancora allineato con l'insegnamento risalente all'interpretazione ochiniana del Vangelo, che aveva portato al rifiuto della teoria calviniana della mediazione: una tesi rivendicata dai gruppi più radicali che la consegneranno al sistema ideologico sociniano.
Il C. fu condannato a morte dal tribunale dell'Inquisizione romana e il braccio secolare doveva eseguire il supplizio bruciandolo vivo perché impenitente. Secondo gli atti della Confraternita di S. Giovanni Decollato, corrispondenti alla Vita del Gabuzio riportata dal Laderchi, il C. stette "ostinato" fino all'ultimo e non volle "ridursi alla santa confessione". L'intervento di un gruppo di teologi cappuccini, zoccolanti, gesuiti e soprattutto "l'aiuto dello Spirito Santo" avrebbero determinato la risoluzione dell'estrema riduzione alla Chiesa cattolica, dopo una lunga disputa "sopra la sua oppinione" (risulta anche che "non fece testamento né lassò memoria alcuna"). Il giorno 25 maggio 1569, "menato in ponte", vi "fu appiccato e poi brusciato".
La notizia della conversione venne fatta pervenire nei Grigioni e i cattolici, impegnati nella loro propaganda antiriformata, ne fecero un abile uso politico. Secondo la storiografia erudita di parte protestante il C. non rinunciò mai alla propria Chiesa, nonostante gli sforzi messi in opera dai teologi i quali erano particolarmente interessati ad estorcere una confessione "in extremis". Anzi, fu portato sul patibolo "cum sorculo" perché non parlasse al popolo e affinché non confessasse pubblicamente la propria fede. Il racconto della sua morte "esemplare" (tratto fuori dal paio ardente per carpirgli una ritrattazione, persistette nella "verità") venne affidato al martirologio protestante da evangelici che a Roma avevano assistito al supplizio del pastore di Morbegno.
Da notare che nel luglio del 1569 si rifugiò a Chiavenna un frate francescano milanese di nome Giovanni Battista Cribelli che l'Egli (Bullingers Korresp. ...cit.) dichiara essere parente del Cellario.
Fonti e Bibl.: U. Campbell, Historia Raetica, a c. di P. Plattner, Basel 1890, pp. 463-468, 552, 555, 655; Bullingers Korresp. mit den Graubündnern, a c. di T. Schiess, in Quellen zur schweizer, Gesch., XXIV, Basel 1904, pp. 299-300; XXV, ibid. 1906, ad Indicem; I. Laderchi, Annales ecclesiastici,XXIII, Romae 1733, pp. 198-200; P. D. Rosius de Porta, Historia reformationis ecclesiarumRaeticarum, I, Curiae Raetorum 1771, pp. 465-477; T. Maccrie, Istoria del progresso e dell'estinzione della Riforma in Italia nel secolo sedicesimo, Parigi 1835, pp. 337-339; C. Cantù, Gli ereticid'Italia, Torino 1866, II, p. 343; III, pp. 226, 257; G. B. Crollalanza, Storia del contado diChiavenna, Milano 1867, pp. 210-212; A. Bertolotti, Martiri del libero pensiero e vittime dellasanta inquisizione, Roma 1892, pp. 54-55; D. Orano, Liberi pensatori bruciati a Roma, Roma 1904, p. 33; F. Jecklin, Materialen zur Standes-und Landesgesch. der gem. III Bünde (Graubünden), I, Basel 1907, pp. 865-866, 871; L. v. Pastor, Storia dei papi, VIII, Roma 1924, pp. 203, 210; F. Lanzoni, La Controriforma nella città e diocesidi Faenza, Faenza 1925, pp. 223-224, 238; E. Besta, Le valli dell'Adda e della Mera nel corsodei secoli, II, Milano 1964, pp. 90, 96 s. (dove il C. viene confuso con Martin Borrhaus); E. Mazzali-G. Spini, Storia della Valtellina e della Valchiavenna, II, Sondrio 1969, pp. 27-28; D. Maselli, Per la storia relig. dello Stato di Milano durante il dominio di Filippo II, in Nuova Riv. stor., LIV (1970), pp. 350-352.