CAGNOLO, Francesco
Figlio di Paolo, lavorante setaiolo, e di Valeria Lampugnani, nacque a Milano intorno al 1528 (l'inquisitore veneziano lo riteneva quarantenne nel 1568).
Nei termini di una vicenda priva di risonanze, di una esperienza privata mai emergente dalle infime stratificazioni civili della società controriformistica, la vita errabonda e miserabile del C., la sua protesta incoerente e disperata, valgono certamente a illuminare nell'esemplificazione individuale il processo inarrestabile di dissoluzione dei ceti subaltemi cittadini a metà del sec. XVI e la loro inane rivolta contro le tensioni repressive dell'età.
Avviato al mestiere paterno sin dalla prima infanzia, appena dodicenne, nel 1540, come egli stesso riferiva all'inquisitore veneziano, "andai a star con il principe de Macedonia in Piemonte et son stato un anno in Piemonte regazzo di esso principe". Quindi si trasferì a Bologna, dove per un decennio fece il suo tirocinio di "ormesino", operaio specializzato, cioè, nella lavorazione di panni di seta pregiata, attività che proseguì poi per alcuni mesi a Napoli, presso un mastro Ferrante Giordano. Lo sforzo di sfuggire alla propria condizione, irrealizzato dalle continue peregrinazioni, lo indusse però nel 1551 ad arruolarsi nella flotta spagnola che preparava l'attacco all'isola di Gerba contro Dragut. Reduce a Messina da questa infelice spedizione, abbandonato, come tanti commilitoni, alla sua sorte dall'indifferenza delle autorità militari e civili spagnole, affamato e disperato, il C. fu soccorso dalla carità dei cappuccini, il solo episodio, narrerà poi all'inquisitore veneziano, in cui gli accadde di sperimentare la solidarietà cristiana del clero.
A Messina il C. rimase per circa un anno, riprendendo il suo lavoro di "ormesino" presso la bottega di un setaiolo milanese. Si trasferì quindi a Cosenza, entrando alle dipendenze della "viceregina" Vittoria Carafa, moglie del governatore interinale del Regno di Napoli, don Fadrique de Toledo, presso la quale prestò la propria opera di setaiolo. Dopo altre peregrinazioni, intorno al 1558, giunse a Venezia, dove trovò lavoro presso un "Fantasma, sensale al Fontego dei Thodeschi"; di qui, dopo qualche mese, si trasferì a Rovereto, lavorandovi ancora alla seta per un decennio. Nel 1566 sposò una vedova veneziana, Margarita fiola di un bergamasco morto finalmente, nel 1568 fece ritorno a Venezia, dove, forse per il tramite della moglie, trovò lavoro in una bottega di setaioli bergamaschi, nel quartiere di Cannaregio.
è a questo punto che la vicenda del C. esce dall'anonimato per interessare, sia pur brevemente, le autorità. Il 3 luglio 1568 fu presentata al S. Uffizio, da parte di alcuni suoi compagni di lavoro, una denunzia assai grave.
Si imputava al C. un linguaggio intemperante in materia di religione, che era evidentemente l'espressione di un animo esacerbato da tante peripezie, un moto di ribellione contro le infinite ingiustizie del mondo, direttamente sperimentate in decenni di sofferenze senza rimedio: quella dell'illetterato setaiolo milanese era insomma una protesta assai più patetica che allarmante. Ma la denunzia offriva al sospettoso inquisitore veneziano ampia materia di preoccupazione: il C. era accusato di avere opinioni contrarie alla concessione papale delle indulgenze, di aver protestato contro il culto dei santi, di essere ostile all'autorità di papi e cardinali, "porci grassi, et che non havevano compassion della povertà, ma spendevano le sue entrate in cani, et in cavalli"; e talune sue oscure frasi venivano senz'altro interpretate come evidenti allusioni ai testi eretici ("i libri che contengono la verità sono stati brusciati").
Subito arrestato e sottoposto a minuziosi interrogatori, il C. cercò di smentire le accuse più gravi, le implicazioni eretiche riconosciute nella sua protesta imprudente, invocando a difesa la propria semplicità, la propria inettitudine a comprendere ("che, il mondo era tanto invilupato, che non sapeva che dire"), infine la propria inferiorità di illetterato ("io non ho lettere, se ho detto qualche cosa ho detto semplicemente, et non si troverà mai, che sia lutherano"). Era una difesa consueta, nei processi di eresia; ma l'inquisitore dovette avvertire la sincerità del personaggio, dovette ben valutarne l'innocuità e rendersi conto del nucleo primitivo di sentimenti che ne dettava le invettive. Tuttavia la stessa vita errabonda del C., rivelata dagli interrogatori sapienti sin nelle più minute circostanze (ed è appunto agli atti dell'inchiesta che risalgono tutte le notizie biografiche sul C.), induceva l'inquisitore al sospetto che le intemperanze verbali dell'inquisito avessero la loro radice in contatti con gruppi di eretici sparsi nelle varie regioni attraversate dal C.: per questo motivo - per individuare cioè le fila di una eventuale rete di eretici - ed anche perché la propagazione dell'eresia si affidava assai spesso agli itinerari di vagabondi e di sradicati non di rado provenienti dal medesimo ceto del C., l'inquisitore insistette a lungo negli interrogatori, senza tuttavia ottenere ulteriori ammissioni, e d'altra parte convincendosi sempre più della sua scarsa pericolosità.
Fu per questo che la sentenza - relativamente alla rigida procedura del S. Uffizio - risultò abbastanza mite. Il C. fu riconosciuto "maledico de religiosi, temerario et scandaloso, per le quali maledicentie se ne ha reso gravemente sospetto di heresia". Il C. non ebbe difficoltà a purgarsi delle proposizioni eretiche attribuitegli - anche se egli stesso non le aveva ammesse - con l'abiura più ampia. Non sfuggì tuttavia al castigo per le sue "maledicentie": fu condannato a due anni di galea, con la riserva che se il suo fisico si fosse rivelato inadatto alle fatiche del remo la condanna sarebbe stata cambiata in un uguale periodo di carcere. Fu questo appunto il caso, ed il C. fu imprigionato nelle carceri del Consiglio dei dieci. Di qui, con la mediazione di compagni di sventura poco più letterati di lui, rivolse al magistrato, a più riprese, una supplica, perché fosse abbreviato il periodo della detenzione. Motivava la richiesta con l'estrema miseria cui, in mancanza del suo lavoro, era stata ridotta la sua famiglia. Altre pressioni nel medesimo senso furono fatte dalla moglie. E finalmente, nel settembre del 1569, la richiesta del C. fu accolta. Fu disposto che egli trascorresse il periodo restante della pena nella propria casa, così da poter lavorare e sovvenire alle necessità della famiglia, libero soltanto di uscirne per la messa domenicale nella chiesa più vicina.
Non se ne hanno altre notizie.
Bibl.: G. Cozzi, Vita avventurosa di un setaiolo eretico, in Arch. stor. lombl., LXXX(1953), pp. 244-249.