CAFFARO, Francesco
Nacque a Messina intorno al 1650 da Tommaso, che ricoprì notevoli cariche pubbliche, in una famiglia favorevole alla Francia (suo fratello Marcantonio, nel 1674-76, contribuì a organizzare la rivolta antispagnola).
Entrato tra i chierici teatini il 20 giugno del 1666, dopo la sconfitta dei Francesi nel 1678 (pare anche che il re Luigi XIV nel 1677 avesse appoggiato invano la sua candidatura all'arcivescovado di Messina), il C. dovette lasciare la Sicilia e andare in Francia dove fu accolto a Sainte-Anne-la-Royale, casa teatina di Parigi. Lì ebbe una parte importante nella vita del convento: fu scrutatore dal 1679 al 1681, poi vicario dal dicembre 1681 al luglio 1683, infine superiore dal luglio 1683 al giugno 1686. Nel 1686 la provincia di Francia lo mandò a Roma al capitolo generale dell'Ordine, e di questo viaggio egli ci ha lasciato un Journal de voyage du P. Caffaro en Italie et Allemagne, année 1686 (conservato manoscritto nella Bibl. naz. di Parigi, Nouv. acq. fr.1901), interessante per le notazioni sui costumi e i mezzi di trasporto del tempo.
Il C. fu toccato dalla celebrità, suo malgrado, nel 1694, quando E. Boursault pubblicò a Parigi le sue Pièces de théâtre, precedute da una Lettre d'un théologien illustre par sa qualité et son mérite consulté par l'auteur pour savoir si la Comédie peut être permise ou doit être défendue.Subito gli ambienti letterari ed ecclesiastici ne identificarono Fautore nel C., perché il figlio del Boursault, Chrysostome (1666-1733), era anche lui teatino a Sainte-Anne.
All'apparire di quella lettera si scatenò una grossa polemica. Le ragioni addotte dal C. in difesa della liceità morale del teatro, a dire il vero, non erano nuove: già parecchi scrittori, in particolare gli attori-scrittori della commedia dell'arte all'inizio del sec. XVII, Giambattista Andreini e Beltrame, avevano difeso con simili argomentazioni la commedia. Ma in Francia in quel periodo aveva acquistato una notevole influenza, in campo religioso, il giansenismo che, partendo da rigidi principi morali, condannava decisamente il teatro in ogni sua manifestazione. Perciò l'opinione pubblica non era pronta ad accettare facilmente le idee del Caffaro. Questi opponeva all'opinione dei Padri della Chiesa quella degli scolastici, soprattutto di s. Tommaso d'Aquino, il quale ammette, secondo il C., che "l'homme fatigué par des actions sérieuses a besoin d'un agréable repos qu'il ne trouve que dans les jeux" (p. 7; cfr. s. Tommaso, Summa theol., IIa IIae, q. 168, a. 2). Partendo da questa premessa, il C. passa a dimostrare l'innocenza morale delle rappresentazioni teatrali. I Padri le condannarono perché nell'antichità erano rozze e indecenti; ma adesso le commedie non lo sono più. Il C., che non frequenta gli spettacoli, ricava la prova che essi non sono dannosi dalla lettura dei testi teatrali e soprattutto dalle confessioni, le quali gli dimostrano che non fanno un cattivo effetto sulle anime dei fedeli. Anzi dei prelati assistono agli spettacoli della corte: "Tous les jours à la cour, les Evêques, les Cardinaux et les Nonces du Pape ne font point difficulté d'y assister; et il n'y aurait pas moins d'impudence que de folie de conclure que tous ces grands Prélats sont des impies et des libertins, puisqu'ils autorisent le crime par leur présence" (pp. 38-39). Insomma per il C. il teatro appariva come un divertimento lecito, perché rappresentava in quell'epoca "des fables avec bienséance et modestie" (p. 48).
La polemica contro questa tesi fu iniziata dal Bossuet, il quale scrisse al C. da Germigny il 9 maggio 1694, esponendo le ragioni che doveva poi sviluppare nelle sue Maximes sur la comédie (Paris 1694). La commedia non è scevra di immoralità anche quando non usa un linguaggio osceno. Il male peggiore consiste proprio nella capacità degli autori di dipingere sotto un aspetto piacevole le passioni dannose per l'anima: la passione ci appare "comme une faiblesse si artificieusement changée en vertu qu'on l'admire, qu'on l'applaudit sur tous les théâtres" (Correspondance, VI, p. 265). Sono già tanti, comunque, i pericoli nel mondo per il cristiano che è meglio non aumentarli andando a teatro. Anche il fatto che il Racine avesse smesso di scrivere per il teatro è per il Bossuet la prova della perversità della commedia. Infine egli dichiara al C. che si asterrà dal polemizzare pubblicamente con lui se farà sapere di non essere l'autore della Lettre.IlC. rispose L'11 maggio disconoscendo la paternità della Lettre, in cui riconosceva soltanto qualche idea da lui esposta undici o dodici anni prima in un trattato latino manoscritto, che sarebbe finito in mano di qualcuno, il quale ignorava che non era destinato alla pubblicazione. Egli protesta la sua ortodossia che si era manifestata a lungo nel suo insegnamento della filosofia e della teologia a Sainte-Anne. Lo stesso giorno il C. scrisse a mons. Harlay de Champvallon, arcivescovo di Parigi, una lettera dello stesso tenore (Lettre française et latine à Mgr. l'archevêque de Paris, Paris 1694).
Ma questa pronta ritrattazione non bastò ed egli fu sospeso dalle confessioni e dall'insegnamento a Sainte-Anne, ove fu sostituito da Alexis Du Bue. Frattanto la polemica continuò: oltre all'opera di Bossuet, tra il 1694 e il 1697 almeno altri sette opuscoli (gli autori erano J. Gerbais, Ch. de la Grange, L. Pégurier, P. Le Brun, H. Lelevel, P. Coustel, A. Lalouette) confutarono le idee del Caffaro. La Lettre, a sua volta, fu tradotta in inglese, insieme alle Maximes del Bossuet, nel 1698-99 ed ebbe una vasta divulgazione in Inghilterra nel '700. Dopo il 1694 la vita del C. ritornò nell'ombra. Egli riebbe - sembra - il suo posto di professore, poiché parecchi teatini francesi del '700 furono suoi discepoli, in particolare François Boyer, che fu precettore del delfino, vescovo di Mirepoix e incaricato della "Feuille des Bénéfices" dopo la morte dell'abate Fleury.
Il C. scrisse anche vari trattati di filosofia e teologia (trenta, secondo il De Tracy), rimasti inediti e oggi non più reperibili. Morì il 31 dic. 1720 a Parigi.
Fonti e Bibl.: J-B. Bossuet, Correspondance, VI, Paris 1912, pp. 257-285, 291-295; A. Vezzosi, I scrittori de' chierici regolari detti teatini, Roma 1780, I, pp. 174-175; B. De Tracy, Remarques sur l'établissement des théatins en France et sur toutes les maisons de la même congrégation, Paris s.d., p. 70; A. Beljame, Le public et les hommes de lettres en Angleterre au XVIIIe siècle, Paris 1881, pp. 244-259; G. Natali, IlSettecento, Milano 1936, p. 123; Enc. Ital., VIII, p. 257.