BURLAMACCHI, Francesco
Nacque in Lucca il 14 settembre 1498, da Michele di Pietro Burlamacchi e da Caterina Balbani, ambedue di famiglie lucchesi assai cospicue per antichità, nobiltà e ricchezza. Il padre, mercante, fu spesso ambasciatore, spesso gonfaloniere di giustizia. Lo zio Filippo era stato fra i più caldi seguaci e partigiani di fra Girolamo Savonarola e, fattosi domenicano col nome di fra Pacifico, attendeva ora a dettarne la vita e difenderne i principî e la memoria. Dal padre e dallo zio, Francesco fu educato in modo rispondente alle tradizioni familiari. Praticò l'arte della seta. A ventisette anni sposò la nobildonna Caterina Trenta di Federico ed ebbe da lei otto figliuoli, dei quali il maggiore, Michele, fattosi poi seguace dell'Ochino e del Vermigli, riparò in Ginevra nel 1566, trapiantando colà quel ramo dei B. (v. burlamaqui, Jean Jacques). Appena raggiunta l'età prescritta, fu nominato anziano: nel 1528 e altre volte in seguito. Nel 1529, con Girolamo Portico, andò commissario straordinario a Filiberto d'Orange, allo scopo di stornare dal territorio lucchese la minaccia delle milizie imperiali, marcianti all'assedio di Firenze. Fu gonfaloniere nel 1533 e di nuovo nel 1546. Lo troviamo pure due volte commissario delle milizie del piano e di quelle di montagna; commissario per le scuole, nel 1538: ambasciatore, amministratore, soldato, partecipe insomma di tutti gli uffici civili e politici della sua città. Nondimeno, il nome e la fama del B. vanno legati soprattutto alla sua patriottica concezione politica, al piano preparato per effettuarla e alla morte nobilissima.
Cresciuto in regime di libertà comunale, aveva coltivato buoni studî e sapeva della Toscana ricca e potente sotto l'antica Confederazione etrusca; conosceva gli eroi di Plutarco; non ignorava né la cacciata di Uguccione da Pisa e da Lucca, né l'esperimento di Cola di Rienzo, né il duplice attentato del Porcari, né la congiura del Montano. Vive e presenti nella memoria, poi, erano le figure del Boscoli e di Lorenzino. Tutto questo ci dà ragione del come germogliassero nell'animo buono del B., non già l'ambiziosa rivalità e la follia omicida di molti fra i precedenti cospiratori, ma l'ardimentoso disinteressato proposito di "mettere in libertà tutta Toschana et farne una unione", dove tutti potessero "securamente et però allegramente" e cristianamente vivere. Il tiranno da spodestare era Cosimo de' Medici, signore assoluto, non pure di Firenze, ma di quasi tutte le città di Toscana; insidiatore della libertà nelle due sole repubbliche superstiti di Siena e di Lucca. Abbattendo la tirannide medicea, mirava il B. ad assicurare l'indipendenza della sua patria lucchese e a ridonare la libertà ai popoli dell'Etruria insofferente.
Il disegno del B., stando a quello che egli stesso dice nei costituti del suo processo e nella sua "dichiarazione" autografa alla signoria di Lucca, era ordinato così: avrebbe procurato di farsi eleggere come uno dei tre commissarî preposti alle ordinanze di montagna; col permesso della signoria e sotto colore di passarli in rassegna, avrebbe radunato intorno a sé un duemila e cento combattenti; con abili maneggi li avrebbe condotti all'assalto di Pisa, facile a prendersi; avrebbe lanciato agli oppressi il grido di libertà e mosso con essi contro Firenze. La quale non avrebbe retto all'assalto delle sue ordinanze, dei Pisani e forse dei Senesi, anche perché, dentro, i molti amici della libertà e gli scontenti della tirannia medicea, avrebbero aiutato. Presa Firenze, cacciati i Medici e assegnata a Cosimo una entrata di quindici o ventimila ducati d'oro nel vicereame di Napoli, riordinato il viver libero, le altre città della Toscana si sarebbero messe al seguito e la ideata confederazione si sarebbe facilmente costituita. Questo già divisava il B. nel 1541, quando, sedendo egli fra gli anziani, propose e fece trionfare in consiglio il partito di istituire le Ordinanze di montagna. Seguitò a rimuginare siffatti propositi. Nel 1544, preso consiglio da Cesare Benedini, suo famigliare, andò in cerca di complici danarosi e di grido; e li trovò nei fratelli Pietro e Leone Strozzi, banchieri e uomini d'arme, nemici mortali ai Medici, figli di quel Filippo, che, scannatosi nelle prigioni di Cosimo, aveva invocato morente un vendicatore. Per i negoziati, fu scelto Sebastiano Carletti, calzolaio lucchese, il quale, in "assai dimestichezza" col B., aveva lungamente militato sulle galere di Leone Strozzi, Priore di Capua. Nel novembre 1544, forse a Parigi, s'impegnava il Priore di dare trentamila scudi e il concorso della sua spada. Solo che, obbligato a fare l'impresa d'Inghilterra, costrinse a differire l'esecuzione per ben diciassette mesi. Nell'aprile 1546, in un abboccamento notturno a Venezia, il Priore e il B. presero tutti gli accordi. A mezzo il maggio, a Lucca era disposta ogni cosa e il momento pareva propizio per agire; ma gli Strozzi non erano pronti, e bisognò temporeggiare ancora fino a settembre. Questa nuova dilazione rovinò l'impresa e perdé il B. Giacché un Andrea Pissini, che era al corrente di tutto, per vendicarsi di certa sentenza pronunciata dal B., allora gonfaloniere, contro di lui, corse a Firenze e svelò ogni cosa al duca. Il gonfaloniere B., informato di ciò, preparò la fuga; ma, in seguito ad altra denunzia, fu fatto arrestare dalla signoria lucchese, sottoposto a processo e a tortura. Cosimo de' Medici reclamò il diritto di giudicarlo lui in Firenze; la signoria si rifiutò; ma, per allontanare da sé ogni sospetto, sollecitò l'intervento di Carlo V nel processo. Un commissario imperiale, Niccolò Belloni, piombò dalla Lombardia a Lucca; rifece il processo; rinnovò i tormenti e la tortura. Non riuscì ad ottenere rivelazioni di nuove circostanze e nomi di nuovi complici, all'infuori dei già compromessi o in salvo. Ma, tornato a Milano, pronunciò sentenza capitale. Il B., condotto pur esso là, vi resta prigioniero nel castello fino al 14 settembre 1548; quando, fallito un tentativo di fuga e riuscite vane per la passiva resistenza di Cosimo tutte le suppliche e tutte le più autorevoli intercessioni di grazia presso Carlo V, ebbe mozzo il capo.
Diversi i giudizî intorno al B. Esaltato, folle, poco meno che pazzo lo dissero i Lucchesi (Civitali, Tucci, Beverini, Tommasi, Buccella), per allontanare dalla repubblica ogni ombra di connivenza col suo gonfaloniere. Fantastico, farneticante, nemico ai papi, alla religione, ai governi, lo immaginarono i Fiorentini (Adriani, Ammirato, Galluzzi), obbligati a difendere ed esaltare il principato mediceo. Eccedettero nelle esaltazioni molti moderni (Mazzarosa, Sismondi, Botta, Leo, Ricotti, Cantù, Balbo, Guerrazzi), che finirono per trasformarlo in un utopista, quasicché avesse voluto abbattere il potere temporale dei papi, riformare moralmente e unificare dottrinalmente la Chiesa cristiana, ripristinare l'autorità imperiale in Roma, pacificare Carlo V coi luterani. L'Eynard ne fece quasi un apostolo della Riforma protestante; durante il Risorgimento, lo denigrarono i federalisti repubblicani, lo celebrarono primo martire dell'indipendenza gli unitarî repubblicani e monarchici; e, come a "primo martire dell'unità italiana" gli consacrarono lapidi e monumenti (14 settembre 1863) i liberati concittadini lucchesi. In realtà, il B. non fu nulla di tutto questo. Cattolico e buon credente, desiderò forse la riforma morale della Chiesa; fu uomo di grande ardimento, di sano intelletto, di animo generoso, di disinteressato altruismo. Maturò da sé un disegno che, pur non uscendo dai confini della Toscana, andava oltre il pensiero del suo tempo; ma non ebbe chiara e ordinata la mente per l'esecuzione. Scoperto, sopportò tormenti e torture, piuttosto che tradire i complici e compromettere la Repubblica. Amò la sua terra lucchese e volle salvarne l'indipendenza. Amò la libertà e si propose di ridonarla alle città della Toscana. Egli era ancora il cittadino del medievale stato di citta; ma in lui già era qualche aspirazione presaga.
Bibl.: Oltre agli autori citati più sopra, v. pure F. Benedetti, Vita di Burlamacchi, morto nel 1546 (leggi 1548), in Vite di illustri italiani (dall'autografo corretto e supplito da S. L. G. E. Audin), Lione 1843, pp. 265-274; P. Beverini, La congiura del Gonfaloniere di Lucca Burlamacchi, trad. di P. Giordani, Piacenza 1845; R. Bonari, F. Burlamacchi, Saggio di critica storica, Napoli 1874; G. Cavanna, F. Burlamacchi, Discorso storico, in Rivista delle biblioteche, XXII, nn. 7-9, Firenze 1911; G. degli Alberti, Il concetto politico di F. B., Lucca 1912; Ch. Eynard, Lucques et les Burlamacchi, Souvenirs de la Réforme en Italie, Parigi 1848; F. D. Guerrazzi, Vita di F. B., voll. 2, Milano 1868; D. Marzi, La principessa di Molfetta moglie di don Ferrando Gonzaga, governatore di Milano e la condanna di F. B., Firenze 1918; E. Masi, I Burlamacchi e di alcuni documenti intorno a Renata d'Este, Bologna 1876; C. Minutoli, F. B., Storia lucchese del sec. XVI, Lucca 1844, e nuova ed., Lucca 1863; Reumont, F. B., in Beiträge zur ital. Gescht., II.
Documenti: C. Minutoli, in Arch. stor. ital., X: L. del Prete, in Giornale stor. degli arch. toscani, IV, ott.-dic. 1860; G. Sforza, Un doc. sconosciuto sulla congiura di F. B., in Arch. stor. ital., s. 5ª, V (1890), pp. 279-281.