BORROMEO (Boromeo, Borromei), Francesco
Nato probabilmente a Padova verso la fine del sec. XV, il B. ci è noto per una raccolta manoscritta delle sue opere poetiche esistente alla Biblioteca Nazionale di Firenze, il cod. Palatino CCXLVII. Rari gli accenni autobiografici che lo scrittore introduce nei propri versi: da un mediocre sonetto in cui esalta Carlo Ruini - che insegnò in Padova dal 1501 al 1511 - come sommo lettore di leggi e invita gli appassionati di diritto a venire tutti "ne l'auditorio del Ruino", deduciamo che dovette nascere prima degli inizi del Cinquecento; che fosse padovano lo lascia intuire egli stesso nelle prime pagine di una sua composizione bucolica, in cui immagina di abbandonare "l'Antenorea citade, fondata ne le rupose rippe de la corente Brenta" per dirigersi "verso la Tramontana".
Da altri passi, in cui il B. afferma di discendere da una nobile famiglia, ormai decaduta, di origine toscana, che tra l'altro aveva posseduto il feudo di "Latisana", si deduce che il poeta dovette appartenere a uno di quei rami padovani della famiglia Borromeo di San Miniato, che ebbero come capostipite un Antonio Buonromeo che si stabilì a Padova e comprò nel 1443 dai Veneziani il feudo della Tisana, o di Latisana, nel Friuli. Quel poco che sappiamo del poeta non permette tuttavia di identificarlo con nessuno dei membri omonimi della sua famiglia. Infatti, viventi nella prima metà del Cinquecento, troviamo unicamente un Pierfrancesco, messo fuori causa dalla data del matrimonio di suo padre Alessandro, avvenuto nel 1524; un Francesco di Girolamo e un Francesco figlio del giurista Antonio Maria: ma della loro vita tempestosa di fuorusciti e di combattenti, a fianco degli Imperiali, contro Venezia, non è dato trovare alcuna traccia nella flebile musa del poeta, il quale inoltre dovette prolungare la propria vita ben al di là di quel primo quarto del sec. XVI in cui presumibilmente morirono i suoi omonimi.
L'unico scritto edito che si conosca del B. è, infatti, un sonetto indirizzato a Diomede Borghesi, e da questo pubblicato, con la relativa risposta, tra le proprie Rime (l. II, par. VI, p. 12v), edite a Padova nel 1567: dato che il Borghesi abbandonò Siena, sua patria, intorno al 1564, e solo posteriormente cominciò a intrecciare rapporti di amicizia con l'ambiente letterario padovano, sembra assai probabile che conoscesse il B. non prima del 1566-67 e che questi quindi fosse ancora vivo quando il senese pubblicò le Rime.
Il cod. Palat. CCXLVII - che probabilmente è il medesimo manoscritto segnalato, con qualche inesattezza, dal Cicogna come appartenuto a Giulio Tomitano e da questo ceduto alle reiterate istanze di Gaetano Poggiali - contiene una lunga composizione bucolica in prose e versi alternati, alla maniera dell'Arcadia del Sannazzaro, seguita da cinquantuno sonetti e da diciotto capitoli: opere tutte, come anche il citato sonetto indirizzato al Borghesi, d'interesse quasi puramente documentario. L'ispirazione del B. è pressoché unicamente amorosa, il grande modello è dichiaratamente il Petrarca: ma tutta la sua produzione poetica - in cui si possono cogliere echi e reminiscenze anche di Dante, del Boccaccio, del Tebaldeo, del Sannazzaro - non riesce ad essere che una delle tante testimonianze del processo di dissoluzione che gli schemi petrarcheschi avevano cominciato a subire fin dal Quattrocento. L'espressione dei sentimenti è eccessivamente languida e lamentosa, lo stile rozzo duro e involuto, l'uso delle forme metriche malsicuro: sì che i suoi scritti, mediocri anche sul piano formale, sembrano comporre l'immagine di un dilettante senza impegno, spinto alla poesia più da una moda che da una reale vocazione d'artista.
Bibl.: G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 3, Brescia 1762, p. 1804; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, III, Venezia 1830, p. 360; F. Palermo, I mss. palatini di Firenze, I, Firenze 1853, pp. 432 s.; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, I, s. v. Borromeo di San Miniato, tavv. I-III.