BORGONGINI DUCA, Francesco
Nato a Roma il 26 febbr. 1884 da Giovanni e da Rosa Scalzi, fu avviato alla carnera ecclesiastica, compiendo presso il Pontificio seminario romano gli studi di sacra teologia e di diritto canonico. Venne ordinato sacerdote a Roma il 22 dic. 1906 e nel 1907 divenne officiale della Sacra Penitenzieria apostolica; nell'anno seguente fu destinato come minutante alla Sacra Congregazione di Propaganda Fide. Contemporaneamente insegnò sia nell'Ateneo del Pontificio seminario romano sia nel collegio di Propaganda Fide, tenendo corsi di Sacra Scrittura, teologia fondamentale, propedeutica alla teologia, teologia dogmatica. Nel 1917 divenne segretario della Penitenzieria; ciò non gli impedì tuttavia di dedicarsi anche all'attività pastorale con il delicato incarico di direttore spirituale del Pontificio seminario minore presso il Vaticano.
In un periodo in cui gli studi ecclesiastici erano percorsi dalla ventata dell'inquietudine modernista, il B. nei suoi lavori scientifici come nella sua attività didattica si mantenne sempre nel solco della più sicura e consolidata tradizione cattolica. Risale a questi anni, infatti, la sua dura polemica col Buonaiuti intorno alla genesi della dottrina agostiniana del peccato originale: polemica che sembrava prender le mosse da dati filologici marginali, ma che investiva, in realtà, fondamentali questioni di metodo e che finiva col coinvolgere le basi ultime della ecclesiologia.
La tradizionale dottrina cattolica assevera, infatti, che per effetto del peccato di Adamo si è trasmessa nei suoi discendenti non solo la pena relativa, ma pure la relativa colpa. La tesi contraria, che esclude la trasmissione della colpa, è stata ripetutamente respinta dalla Chiesa e formalmente condannata nel concilio di Trento. Il Buonaiuti, in due scritti susseguitisi a breve scadenza (La genesi della dottrina agostiniana intorno al peccato originale, Roma 1916; S. Agostino, Roma 1917), aveva cercato di dimostrare che la tesi della trasmissione della colpa era estranea al pensiero della Chiesa primitiva, al punto che lo stesso Agostino l'aveva esclusa fino al 397: e che soltanto e partire da tale data, dopo la morte di Ambrogio, Agostino, sollecitato dalla lettura di un singolare scrittore, l'Ambrosiastro, aveva aderito alla soluzione più pessimistica, ma più consona alle sue inclinazioni manichee, provocando anche la modifica dell'atteggiamento ufficiale della Chiesa. Erano evidenti, sullo sfondo, le implicazioni ecclesiologiche della tesi del Buonaiuti.
Il B. riteneva, di conseguenza, necessario replicare con un saggio apposito (Il profilo di s. Agostino e la genesi della dottrina agostiniana intorno al peccato originale, Roma 1919) nel quale faceva rilevare: che non esiste alcuna prova del declino dell'influenza di Ambrogio su Agostino a partire dal 397 e che, al contrario, proprio a partire da tale data si moltiplicano nelle opere agostiniane le citazioni di Ambrogio; che Agostino mostra di conoscere l'opera dell'Ambrosiastro solo in un passo relativo al testo paolino Rom. 5, 12. e, al più, in un altro passo; e inoltre che la tesi per cui nell'opera di Ambrogio (In ps. XLVIII Enarratio)sitroverebbe una dottrina diversa da quella enunciata da Agostino in tema di trasmissione della colpa, deriva da una manipolazione per riduzione dell'originario testo di Ambrogio. Questo opuscolo determinava una risposta francamente polemica del Buonaiuti (Sant'Ambrogio o l'Ambrosiastro, Roma 1919), cui seguiva, pronta e secca, la controreplica del B. (Al chiar.mo prof. E. Buonaiuti, per la sincerità, Monza 1919). Il B. insisteva sul punto che la citazione del Buonaiuti non trovava riscontro nel testo dell'edizione del Ballerini delle opere di Ambrogio (Milano 1876) cuipure il Buonaiuti dichiarava di essersi riferito. Ma, sullo sfondo, si intravedevano ben altre ragioni di dissenso. Per un verso, infatti, la tesi del Buonaiuti metteva in discussione il dogma del peccato originale, che è il nucleo centrale di tutta la teologia cattolica ed è la premessa logica dell'idea stessa della morte redentrice del Cristo; e per un altro verso essa creava, in relazione a una questione fondamentale, una frattura fra primitiva tradizione cristiana e dogma proposto dalla Chiesa che è, almeno a prima vista, incompatibile con l'ecclesiologia postridentina, che può essere accolta solo ove si accettino certe revisioni sollecitate dal pensiero modernista.
Il B. avrebbe continuato a interessarsi fino alla fine della sua vita agli studi di storia ecclesiastica (ricordiamo, per tutti, il saggio della maturità su Le LXX Settimane di Daniele e le date messianiche, Padova 1951); ma le sue cure preminenti divenivano ben presto quelle connesse all'attività di governo della Chiesa.
Il 28 giugno 1921 il B. venne chiamato a far parte della Segreteria di stato con la carica di prosegretario, prima, e di segretario, poi (14 ott. 1922), della Sacra Congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari. Nell'espletamento delle funzioni connesse a questo ufficio egli partecipò alle trattative per la conciliazione tra Chiesa e Stato in Italia, che dovevano sfociare l'11 febbr. 1929 nella stipulazione dei patti del Laterano. In un primo tempo tale partecipazione rivestì carattere ufficioso; a partire dal 1928 divenne ufficiale, stante la facoltà, concessa da Pio XI al cardinale Gasparri, di subdelegare le proprie attribuzioni. L'apporto del B. si rivelò prezioso, seppure non fosse sempre appariscente a causa della preminenza delle personalità dell'avv. F. Pacelli e del card. Gasparri.
Dopo la conciliazione il B. venne nominato nunzio apostolico in Italia, col titolo di arcivescovo di Eraclea, e la sua attività si ispirò costantemente al criterio di salvaguardare la ricostituita armonia dei rapporti fra Chiesa e Stato.
Questa sua volontà si manifestò in maniera particolarmente evidente, seppure talvolta discutibile, in occasione dei due grandi conflitti insorti tra Chiesa e fascismo in ordine all'interpretazione dei patti lateranensi: quello del 1931, relativo all'Azione cattolica, e quello del 1938, relativo alla legislazione razziale e alle sue ripercussioni sulla materia matrimoniale, regolata dall'art. 34 del concordato. In particolare nel 1938 il B. si adoperò per evitare che la Chiesa giungesse a una aperta rottura col regime, elevando una formale protesta per il vulnus che la legislazione razziale arrecava al concordato, in forza del quale tutti i matrimoni canonici, anche se misti, dovevano produrre con la trascrizione effetti civili. Egli suggerì, infatti, che se una protesta si fosse resa necessaria, i suoi termini dovessero essere preventivamente concordati col governo italiano. La S. Sede, peraltro, pure evitando una rottura formale, non esitò a elevare, a più riprese, una ferma protesta attraverso apposite note ufficiali, discostandosi nettamente dalle sue indicazioni.
Caduto il fascismo, il B. dovette affrontare i difficili problemi di un'Italia travagliata dalla crisi del dopoguerra: e ancora una volta si adoperò per la difesa di ciò che egli riteneva essere massimo bene per la Chiesa e per l'Italia: la pace religiosa, della quale i patti del Laterano costituivano, nel suo pensiero, imprescindibile garanzia. Della conservazione integrale dei patti egli fu solerte difensore sia in linea generale sia in singole e particolari questioni, come quella, destinata a suscitare molte riserve di uomini di cultura democratica, relativa all'esclusione dall'insegnamento di Ernesto Buonaiuti in forza dell'art. 5 del concordato.
Creato cardinale da Pio XII col titolo di S. Maria della Vallicella nel concistoro del 1953, morì a Roma il 4 ott. 1954.
Bibl.: Sulla figura del B. non esistono opere specifiche. Per cenni e riferimenti alla sua attività si vedano: C. A. Biggini, Storia inedita della conciliazione, Milano 1942, passim; L.Salvatorelli-G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino 1957, pp. 435, 449, 475, 942; F. Paceni, Diario della conciliazione, a cura di M. Maccarone, Roma 1959, passim; A. Martini, Studi sulla questione romana e la conciliazione, Roma 1963, passim; F.Margiotta Broglio, Italia e S. Sede dalla grande guerra alla conciliazione, Bari 1966, ad Indicem; R.De Felice, Mussolini il fascista, II, Torino 1968, p. 436.