VISCONTI, Francesco Bernardino
– Nacque nel 1458 da Sagramoro (morto nel 1472, discendente in linea diretta, ma non legittima da Bernabò signore di Milano) e da Clementina (ma Antonia in alcuni atti notarili; morta nel 1471) di Giacomo Secco di Caravaggio, condomino della Calciana e a lungo governatore ducale della Gera d’Adda, affiancato dai figli e dal genero, a sua volta condomino e poi (1470) feudatario di Brignano e signore di Pagazzano e Castel Rozzone, tutti pro indiviso con il fratello Pietro Francesco Visconti (v. la voce in questo Dizionario), in quella stessa provincia.
Francesco Bernardino ereditava status, come membro dell’estesa e privilegiata agnazione viscontea, e, dai genitori, parentele nell’ambito dell’aristocrazia territoriale lombarda, notevoli ricchezze (forse 3000 ducati di reddito annuo nel 1472), cariche (le stesse – comandi militari e Consiglio segreto e poi di castello – del padre e dello zio paterno), ruoli cerimoniali e di rappresentanza e un patrimonio signorile e poi feudale non vastissimo ma ricco delle potenzialità politiche e militari offerte dal comando sugli uomini e dal controllo delle fortificazioni in una zona ai confini con Venezia di evidente importanza strategica. Qui non a caso fu prevalentemente impiegato, «armorum ductor», «strenuo [...] et militari praefecto» (1489), «militarium ordinum ductor» (Archivio di Stato di Milano, Registri Ducali, 48, c. 257, 1494), subentrato al padre e allo zio come governatore di lance spezzate, tra le quali molti membri di parentele nobili milanesi (Covini, 1998, pp. 88, 93, anno 1489). Oltre che nell’esercito subentrò allo zio anche nel Consiglio di castello, fu conservatore ducale nel 1497 e occasionalmente ebbe incarichi di governo periferico e di rappresentanza diplomatica.
Commissario delle scarse forze ducali a Fornovo (1495), sotto il comando di Giovanni Francesco Sanseverino d’Aragona conte di Caiazzo; dal 1498 in Gera d’Adda e nel Cremonese, con cento uomini d’arme e ancora subordinato a Sanseverino, sovrintese alle fortificazioni, presidiò terre e castelli e reclutò uomini in Gera d’Adda, che capitolò rapidamente, subito dopo la caduta di Alessandria. Dopo alcuni precedenti modesti incarichi diplomatici (Mantova 1486, Venezia 1487) nel febbraio del 1495 fu a Venezia per la conclusione della Lega italica, nel settembre a Vercelli per avviare i negoziati per la pace che Ludovico il Moro tenne a concludere personalmente; nel 1495 e poi nel 1497 fu a Genova, prima per la temporanea cessione, poi per la restituzione del Castelletto. Nel 1486 e nel 1487 era stato a Pavia come viceduca con amplissimi poteri (Magenta, 1893) e poi come commissario; tra 1495 e 1499 intervenne nel governo di città e terre di confine in cui veniva inviato per ispezionare soldati o fortificazioni (Tortona, Alessandria, Novara, Cremona, Soncino).
Non era il modesto curriculum di aristocratico privo di specifiche competenze tecnico-professionali, che lo vedeva secondo ai parenti Sforza (Sanseverini inclusi) in campo militare e ai favoriti e deputati del denaro in materia di governo, a giustificare la (peraltro interessata) definizione di «primo homo dello stato» di cui lo gratificò l’oratore mantovano (Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, 9 maggio 1499); piuttosto dovette essere il suo status, ereditato e non (o solo in parte), dipendente dalla benevolenza del Moro, che in effetti non fu certo largo di patronage nei suoi confronti.
Unica concessione di peso era stata (ma a gratificazione di suo zio Pietro Francesco) la commenda del monastero di S. Celso che si stimava «valere meglio che ducati 2000» (Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca, 1450-1500, XII, a cura di G. Battioni, 2002, p. 585) per il fratello Leonardo, che se ne valse per beneficare i propri parenti (e anche cortigiani come Marchesino Stanga): il cognato Renato Trivulzio e Francesco Bernardino stesso (1489, livello di beni a Caiello con Premezzo, vicino a Gallarate, consolidato con il diretto dominio nel 1496). Su di lui riverberava anche il valore politico e clientelare della devozione e della schola, aperta a tutti i ceti e a tutti i quartieri cittadini, legate alla contigua chiesa di S. Maria dei Miracoli (Rossetti, 2013, p. 122), rafforzato nel 1485 da un nuovo miracolo e anche dalle riforme con cui Leonardo nel 1490 sottopose gli scolari al governo insindacabile di diciotto deputati fabbriceri «gentilhomini» da lui scelti e controllati, benché presto (1493) esautorato dal Moro (Riegel, 1998, pp. 331-336).
Per Visconti lo Sforza si limitò a non impedire l’allivellazione di Caiello e a confermare l’investitura di Brignano (1470-96) e nel 1498 gli infeudò Gamalero, nell’Alessandrino; autorizzò acquisti di feudi da privati (San Giorgio Lomellina, 1494-98; Sezzadio, nell’Alessandrino, completato solo nel 1504); ben poco rispetto, per esempio, alla contea di Busto Arsizio (1488) per un Visconti fidato cortigiano e diplomatico di professione, Galeazzo di Somma. Soltanto quando fu costretto a lasciare Milano, nella pioggia di doni con cui tentò di rafforzare con il privato interesse la fedeltà giurata, il Moro concesse a Francesco Bernardino, oltre alla altamente simbolica Sforzesca presso Vigevano (B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, 1978, p. 1623), anche la Valle di Lugano (Arcangeli, 2003, p. 15 nota), entrambe perdute all’arrivo dei francesi.
Francesco Bernardino era un Visconti, agnazione antica, estesa e privilegiata, ricca di castelli e signorie nelle Vicecomitum regiones (Del Tredici, 2013): con loro, sulla panca più vicina ai duchi, i suoi usavano sedere nelle grandi cerimonie (Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca, 1450-1500, VI, a cura di M.N. Covini, 2001, p. 207); era però anche diretto discendente di un signore di Milano, come ricordava ai concittadini il suo palazzo in parrocchia di S. Giovanni in Conca, nel sito già del grande e sontuoso palazzo di Bernabò; un feudatario imparentato con alcuni dei maggiori feudatari dello Stato, ma ben presente a Milano, nel Consiglio segreto, e anche con committenza e patronage religioso e assistenziale in linea con le tradizioni viscontee (Rossetti, 2013, p. 37). Di personaggi come lui, grandi de per se e non palesemente legati alla corte, aveva bisogno lo stesso Moro, che li inseriva in commissioni di garanzia (Covini, 2007; Leverotti, 1983, p. 595; Archivio di Stato di Milano, Registri Panigarola 12, 22 dicembre 1497); da Francesco Bernardino, che non fu tra i favoriti che alla morte di Gian Galeazzo Sforza lo promossero duca a scapito del legittimo erede, incassò senza apparenti reazioni omissioni e critiche anche assai pesanti al suo regime, evitando però di impiegarlo in missioni delicate, come i contatti con Carlo VIII nel 1493-94.
Visconti non compare spesso nelle cronache quattrocentesche. Resta da capire come si giostrò nella serie di cambiamenti al vertice che seguì la caduta di Cicco Simonetta; durante la malattia del Moro (1487) forse si accostò ai ghibellini più radicali (Pellegrini, 2002), il che stride con la sua successiva reputazione di moderato; né è chiaro se i frequenti rimescolamenti dei gruppi di potere incrinassero il blocco politico-familiare costruito negli anni della reggenza dallo zio Pietro Francesco e da alcuni eminenti colleghi del Consiglio di castello, promuovendo alleanze matrimoniali tra Visconti di Brignano e Saliceto, Gian Giacomo Trivulzio e Pallavicino Pallavicini di Busseto: famiglie milanesi che si venivano caratterizzando in senso feudale e signori feudalizzati di piccoli Stati, accomunate anche dall’influenza sulle rispettive fazioni a Milano, a Parma, a Cremona.
Già i matrimoni del padre e dello zio (imparentati il primo con i Secco e per loro tramite con i Sanvitale di Parma e con Gaspare Vimercati conte di Valenza; il secondo con i bresciani Martinengo e poi con i Barbavara conti di Valsesia) avevano rafforzato la fisionomia signorile-feudale della famiglia. Intorno al 1478 furono stipulate almeno due importanti alleanze matrimoniali: Visconti-Trivulzio (matrimoni delle sorelle Caterina e Luchina rispettivamente con un cugino, Gaspare, nel 1478, e un fratello, Renato, di Gian Giacomo; entrambi erano cugini di Antonio vescovo di Como) e Pallavicini di Busseto-Trivulzio, mediante promessa di matrimonio tra due figli ancora impuberi. A chiudere il cerchio seguì l’alleanza Visconti-Pallavicini, con il matrimonio, anteriore al 1483, di Francesco Bernardino con Maddalena, figlia di Pallavicino (governatore del giovane duca Gian Galeazzo Maria, feudatario di un piccolo Stato tra Piacenza, Cremona e Parma, e capo di fazione ghibellina nelle ultime due città).
Anche limitandosi alla famiglia ristretta della moglie (Fieschi per parte di madre), Visconti diventava, o sarebbe diventato in prosieguo, cognato, oltre che di Gerolamo futuro vescovo di Novara, di altri cinque fratelli e di almeno tre sorelle maritate, e dei loro rispettivi coniugi (Sforza, Pusterla, Appiani d’Aragona, Fogliani, Torelli, Bevilacqua e, tramite gli sponsali e matrimoni successivi di Antonio Maria, Trivulzio, Borromeo, Marliani). Si aggiunsero poi, intorno al 1491, altri milanesi: un Visconti di Somma (via Trivulzio: Arcangeli, 2003, p. 30), e Giovanni Francesco Marliani e Luigi Gallarati (cugino di Pietro) mediante due sorelle di Francesco Bernardino.
Molti di questi legami avrebbero avuto un peso decisivo nei rapporti di Visconti con il governo francese e potrebbero averlo avuto anche nelle posizioni da lui assunte negli ultimi mesi di governo ludoviciano. Forse, «intrinsico era amico di misier Zuam Jacomo [Trivulzio]» e non del duca (M. Sanudo, I Diarii, II, a cura di G. Berchet, 1879, col. 1033, 8 agosto 1499, relazione Lippomano); ma pare che un’esplicita accusa di tradimento venisse formulata solo anni dopo, dal cremonese Domenico Bordigallo, e certo non compare nei cronisti milanesi coevi. Ci si potrebbe aspettare (ma le fonti sono oscure e non fanno nomi) che Visconti fosse tra i sostenitori dell’accordo con Luigi XII affossato da Antonio Landriani o nella lista dei potenziali traditori consegnata al Moro il 18 agosto. Certo nel 1499 oppose al duca parecchi rifiuti (di cavalcare, di andare a Milano, di entrare in una commissione per la tassazione dei feudatari) e ne criticò apertamente la politica, accusando in Consiglio favoriti e deputati del denaro di aver causato la rovina dello Stato, fino a minacciare di morte Bergonzio Botta. Insieme a Battista Visconti di Somma e a due Trivulzio comunicò al Moro la decisione del «consejo de Milan» di non resistere e accettare i francesi, con ineccepibili argomenti giuridici (l’incapacità del duca di difendere lo Stato; ibid., col. 1219, 2 settembre 1499). Tutto ciò non impedì al Moro in fuga da Milano di includerlo tra i quattro incaricati di formare il governo provvisorio, tutti di antiche famiglie milanesi, guelfi e ghibellini sì, secondo la consuetudine in simili casi, ma anche filosforzeschi radicali (un Landriani e un Castiglioni, ecclesiastici) e notabili critici (e imparentati tra loro: Visconti e Trivulzio). Partito il duca, il governo provvisorio, una nuova Repubblica di Sant’Ambrogio che resse Milano, con l’assenso di Gian Giacomo Trivulzio, fino all’entrata di Luigi XII, fu (almeno per i nomi noti) un affare di cognati, della rete di parentele costituitasi alla fine degli anni Settanta, con le aggiunte cui si è accennato: «la caxa Boromea Triulza e Visconte licet siano contrarie tra lhoro si sono fate amiche, ma non hano lassà in li consulti la caxa Pusterla et la Landriana con li seguazi intrarvi» (ibid., col. 1210, 2 settembre). Assenti i non milanesi Pallavicini, che insieme a loro si ritrovarono in maggioranza nei ranghi dei milites e degli ecclesiastici del Senato istituito da Luigi XII (11 novembre 1499).
Della formazione del governo provvisorio Visconti diede una versione concordante con un dispaccio degli oratori fiorentini del 1° settembre, ma radicalmente diversa da quella di Bernardino Corio, del proprio parente Giacomo Secco e di altri (cooptazione quasi esclusivamente di senatori ghibellini da parte dei quattro nominati dal duca). Secondo lui era stata «elezione» da parte di alcuni cittadini, confermata in un’assemblea; quindi un’investitura ‘dal basso’, non solo più legittimante di quella di un principe che la controparte considerava usurpatore e tiranno, ma soprattutto prefigurante l’autogoverno repubblicano auspicato nei capitoli formulati in quegli stessi giorni, con cui si riconosceva al re soltanto la sovranità, un censo prestabilito, l’obbligo di difesa e la politica estera. Nella risorta Repubblica gli atti, muniti del sigillo di Sant’Ambrogio, venivano sottoscritti anonimamente dai «Gubernatores status». Soltanto «per non vi esser messer Zuam Jacomo» a Visconti capitò di sottoscriversi «vice re» ( ibid., col. 1301, 14 settembre 1499). Certo egli si impegnò a fondo per ostacolare il passaggio di Cremona ai veneziani imposto dai trattati franco-veneti. Tuttavia fu lui che, a nome dei gubernatores e con il già ricordato quasi parente Antonio Trivulzio vescovo di Como, si adoperò per la capitolazione del castello di Milano, rendendo così più piena la vittoria dei francesi, più difficile la riconquista da parte del Moro e degradando da dedizione volontaria e pattizia a dedizione per vim la trattativa della città con il re. Francesco Bernardino e i suoi cognati dovettero accontentarsi di un regime che privilegiava l’aristocrazia territoriale lombarda, che però doveva competere con i nobili capitani francesi nel patronage regio e nel governo. Il patto con Trivulzio e Pallavicini, cui si erano aggiunti i Borromeo, soffrì della sproporzione tra il destino di Gian Giacomo, luogotenente regio e marchese di Vigevano, e quello dei cognati; ma Visconti, unico dei non molti aristocratici ghibellini considerati filofrancesi dimostratosi capace di controllare e placare le folle milanesi (1499, 1500), ebbe comunque una posizione di rilievo nella Milano francese: al secondo posto tra i milanesi nel corteo d’entrata del re, cui, come il già ricordato vescovo di Como, offrì un sontuoso convito, senatore miles, consigliere del luogotenente regio Trivulzio e comandante di cinquanta lance nella sua compagnia, oggetto di un cospicuo patronage regio con numerose concessioni che ne confermavano lo status di feudatario milanese, indebolito per il passaggio della Gera d’Adda a Venezia, e gli davano gli strumenti per governare il territorio in favore del re. Con l’infeudazione del borgo di Gallarate, cui seguì nel 1501 la vendita dell’ufficio di capitano del Seprio (Documents pour l’histoire de la domination française dans le Milanais (1499-1513), a cura di L.G. Pélissier, 1891, p. 30), Visconti era potenzialmente in grado di controllare (come si sarebbe visto nel 1503) uno snodo importantissimo nelle relazioni militari ed economiche con i Cantoni elvetici; e si installava quasi da superiore tra le signorie sepriesi dei Visconti di rami non bernaboviani.
Oltre alle concessioni dell’autunno del 1499 ancora vigenti alla sua morte (Castellazzo, confinante con Gamalero e Sezzadio, e Bosco presso la città di Alessandria, nonché Gallarate) e tralasciando i numerosi possessi allodiali, dovettero esserci acquisizioni temporanee, come le pievi di Isola e di Lenno (lago e vescovato di Como) da Visconti donate a Trivulzio il 26 novembre 1499 (Adami, 1927). Il 5 settembre 1499 Francesco Bernardino con il cugino Alfonso aveva chiesto a Venezia l’aderenza per i beni in Gera d’Adda, che però gli vennero assegnati soltanto il 21 gennaio 1500, a istanza di Trivulzio (M. Sanudo, I Diarii, III, a cura di R. Fulin, 1880, col. 88), poi confiscati (febbraio 1500) e infine restituiti a istanza francese.
In Visconti si è visto il capo di un «terzo partito» (Pélissier, 1896-1897, II, p. 252; Bognetti, 1957; Meschini, 2006, p. 96) né guelfo né ghibellino, né sforzesco né filofrancese, che forse esistette, o forse fu semplicemente un modus operandi che garantiva spazio alla fazione ghibellina dopo la fine del quasi secolare primato milanese senza compromettere il credito nei confronti dei ghibellini e del popolo; scoppiata l’insurrezione (fine gennaio 1500), egli riuscì a impedire lo scontro armato e il linciaggio di Trivulzio e a differenza degli altri filofrancesi non subì attacchi di alcun genere, né dalla folla né dal Moro. Diversamente dai cognati Pallavicini, rimase a Milano, come l’altro cognato senatore Giovanni Francesco Marliani, fu tra i primi ad accogliere Sforza, ritrovò la propria carica di consigliere, fu uno dei sedici deputati ad affiancare il cardinal Ascanio al governo della città, ebbe incarichi militari (M. Sanudo, I Diarii, III, a cura di R. Fulin, 1880, col. 157) e si compromise sino al punto di comandare una milizia di diecimila «populari de Milano» (col. 219) invano partita in soccorso del Moro che proprio allora veniva sconfitto e imprigionato. Fuggito a Brignano e poi costituitosi, se la cavò con qualche giorno di prigionia in castello e con una sorta di confino dorato in Francia dove fu «menato» nel giugno, forse blandamente legato (col. 425), oppure già libero alla partenza, riccamente vestito e montato, con un seguito personale di dieci cavalli, come se andasse in legazione (dispaccio estense in Meschini, 2006, p. 159).
Sicuramente libero dal 13 luglio, rientrò a Milano nel marzo del 1501, mandando poi in ostaggio due figli alla corte regia; fu immediatamente reintegrato nella carica di senatore miles e nei suoi possessi feudali, forse per la protezione dei potenti parenti Pallavicini e forse per la mancanza di un contatto meno infido di lui con la vasta e preponderante area del ghibellinismo milanese; ma «senza reputazion né da francesi né da milanesi» (M. Sanudo, I Diarii, III, cit., 1880, col. 1516). Nel 1502 si adoperava a «conzar le parti» sollevate in S. Ambrogio (ibid., IV, a cura di N. Barozzi, 1880, col. 247). Nel 1503 arruolava a Milano e in Gera d’Adda fanti contro gli svizzeri e nella sua Gallarate si negoziò la pace di Arona. A pochi mesi dalla morte era giudicato «per fama [...] de più nominati e [...] il più rico [dei ghibellini] [...] ma per esser misero e molto tirano [...] odioso assai» (Documents pour l’histoire de la domination française dans le Milanais (1499-1513), cit., p. 101). La maggior parte dei ghibellini milanesi guardavano allora ad altri Visconti decisamente filosforzeschi, fuoriusciti o pesantemente colpiti per l’appoggio al Moro (Battista e Galeazzo di Somma); perfino il fratello di Francesco Bernardino, il protonotario di S. Celso Leonardo, «des premiers aucteurs» dell’insurrezione (J. d’Auton, Chroniques de Louis XII, a cura di R. de Maulde la Clavière, II, 1890, p. 336) non veniva neppure menzionato tra i principali della fazione, in cui ben pochi seguivano ancora Francesco Bernardino e i suoi parenti (Pallavicini, e alcuni Crivelli). Visconti rifluì nel privato, comprò qualche feudo (Castano in pieve di Dairago, 1503; Sezzadio, 1504) e fece testamento, fondando cappelle nella parrocchia di abitazione e nella chiesa amadeita di S. Maria della Pace, scegliendo come esecutori il governatore francese, Trivulzio e uno dei capi della propria fazione e della propria agnazione, Battista Visconti.
Morì a Milano il 19 novembre 1504 per febbre terzana, lasciando eredi i figli non ancora adulti che con molta maggior convinzione di lui si sarebbero più tardi identificati nel partito francese. Né i cronisti milanesi né Marino Sanudo (sempre attento alle notizie anche minime su Milano) annotarono la sua morte.
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