BATTAGLIA (Battagia), Francesco
Nacque a Venezia verso la metà del sec. XVIII. Poco sappiamo, ed è dato significativo delle modeste condizioni della famiglia, della sua prima giovinezza, dei suoi studi e delle sue prime iniziative politiche; un dato di qualche interesse è la sua comprovata partecipazione alla massoneria veneziana. Delle sue esperienze abbiamo una debole traccia in certe sue più tarde affermazioni, espresse in Senato nel 1790 durante un dibattito in materia economica che lo vedeva acceso e attivo protagonista, là dove rivendicava i suoi vent'anni di studio e di meditazione sui problemi del commercio e dell'industria. Della sua particolare attenzione ai dibattiti economici è prova evidente, del resto, tutta la sua attività politica appunto fra il 1770 e il 1790 in diverse cariche dell'amministrazione economica della Repubblica, e come protagonista in Senato di vivaci polemiche sui grossi problemi commerciali che lo Stato veneto si trovava di fronte in quegli ultimi decenni della sua travagliata decadenza politica ed economica.
Dalle Annotazioni che il patrizio Francesco Calbo tenne delle sedute senatoriali tra il 1785 e il 1795 il B. ci appare nel ruolo di caloroso difensore di una maggiore libertà economica e di nemico acceso dei numerosi monopoli e privative, che la consuetudine legislativa veneta da tempo aveva imposto alla vita del paese. Più volte eletto nel Collegio dei Savi, cui era demandata la direzione politica generale della Serenissima, il B. sostanziò questa sua condotta in campo economico con un più generale e meditato atteggiamento politico, che lo condusse presto a diventare membro autorevole in Senato del gruppo dei patrizi inclini ad una politica nuova e più aperta alle moderne esigenze fattesi presenti anche nella stanca vita politica della Serenissima; in queste ambizioni di un rinnovamento interno, proprie del gruppo di "novatori" cui il B. faceva capo, va inquadrata appunto tutta la serie nutrita e tenace di attacchi portata da lui alla politica economica della Repubblica: tali le accuse rivolte dal B. in pieno Senato il 20 sett. 1787 al magistrato dei Cinque Savi alla mercanzia per le sovvenzioni troppo generose a talune industrie dello Stato, con grave discapito pratico e penose conseguenze politiche generali sull'esausto erario della Repubblica e sulle linee direttive dei nuovi programmi di riforma economica cui tanto si tendeva da più parti; e così ancora nel marzo del 1790 la sua protesta contro una legislazione particolarmente oppressiva e angusta nei riguardi di alcune arti, e le sue affermazioni sulla necessità che le industrie siano "legislate dai compratori, vale a dire dalla buona qualità delle manifatture e dalla mediocrità dei prezzi": nelle quali condensava appunto, a suo dire, quella ventennale esperienza e meditazione sui temi economici cui si ègià fatto riferimento.
Ma la sua azione politica, e quella stessa, più tenace e più informata, in campo economico, soffrivano del generale deterioramento rivelato dalla classe dirigente veneziana alle soglie della sua rovina definitiva. Al B. e agli altri patrizi del gruppo più inquieto ed attivo, più che la bontà di talune idee o la chiarezza di talune diagnosi sulla crisi della Serenissima, mancava una chiara coscienza politica del ruolo che avrebbero dovuto assumere e una sia pur pallida formulazione dei veri problemi della politica veneziana del '700, primi e fondamentali quelli dell'assetto costituzionale e dei rapporti con la Terraferma.
Della debolezza intima e insuperabile di quest'estrema velleità d'azione politica del patriziato veneziano destino volle che proprio il B. finisse per diventare il simbolo e il protagonista.
Ciò che il patriziato veneziano non aveva intuito, l'effetto disastroso che il passaggio dei soldati francesi avrebbe avuto nell'animo esacerbato e insofferente di gran parte della Terraferma veneta, fu improvvisamente chiaro al B. nei giorni tra il 3 e il 5 giugno del 1796. Martellato dalle proteste dei sudditi per i continui disordini provocati dalle soldatesche napoleoniche, il Senato veneziano decideva d'inviare al Bonaparte due suoi membri, il B. e Niccolò Erizzo I, entrambi allora savi del Consiglio, per convincere il generale degli "ingenui sentimenti di reale amicizia ed osservanza che si professano alla Repubblica Francese" e per trattare i problemi della neutralità della Serenissima. La visione diretta delle condizioni della Terraferma e il primo incontro con Bonaparte al quartier generale di Roverbella ebbero sul B. l'effetto immediato di fargli presentire chiaramente quali sarebbero stati gli esiti definitivi di quelle vicende militari e politiche sul suolo della vecchia Repubblica di San Marco, e gli aprirono immediatamente gli occhi sull'avvenire. Ce ne convince il lungo dispaccio inviato al Senato, nella sua ammirata arrendevolezza verso i "molti talenti" del generale e la palese falsità nel convincere i magistrati veneziani d'aver saputo "render dissipato quell'oscuro orizzonte, che pareva minacciare la... tranquillità" della Repubblica, laddove la missione sua e dell'Erizzo s'era ridotta ad un dannoso gesto d'impotenza, primo d'una lunga serie che porterà alla rovina dello Stato veneto.
È vero, del resto, che il B. non aveva scelto soltanto allora la strada d'una politica di completa acquiescenza alla volontà della Francia. Suo era stato in Senato un accorato discorso, col quale aveva convinto i colleghi ad accettare l'imposizione francese di cacciare il conte di Lilla (il futuro Luigi XVIII) dal suo rifugio di Verona: in quella seduta dell'aprile del 1796 il B. aveva avuto vittoria sul parere avverso di Francesco Pesaro per soli tre voti. Ma il timore e l'incertezza erano entrate così nell'animo di molti, e il loro cammino doveva essere sempre più rapido e disastroso. Sentimenti che non mancavano neppure nel cuore del B.: la sua speranza, che emergerà presto dalla condotta sua negli avvenimenti cruciali del 1797, era quella di una democratizzazione dello Stato veneto, in libertà e autonomia, da ottenersi dalla Francia in ricompensa d'una adesione tacita ma piena alla sua azione militare.
Fu così che il B. divenne, e fu battezzato per tale in Senato, "uomo fatto secondo il cuore di Bonaparte". A differenza dell'Erizzo, egli non tornò a Venezia dopo il colloquio del giugno 1796 col Bonaparte, ma fu designato a ricoprire la carica, di fondamentale importanza in quel momento, di provveditore generale straordinario in Terraferma, al posto del debole ed incerto Niccolò Foscarini. Stabilitosi a Brescia, iniziò, in un'opera politica di enormi difficoltà, una tattica imbelle e disastrosa, che, se gli procurò la stima e la non disinteressata amicizia del Bonaparte per allora e per l'avvenire, condusse al disgregamento dell'intera Terraferma veneta.
Non è a dire che abbiano particolare peso le accuse di tradimento che sempre più sovente giungevano alle orecchie degli inquisitori di Stato: il B. credeva di agire nell'unico modo possibile e di fare il bene della Repubblica; ma è certo che da quell'ottobre del 1796, in cui il Senato gli affidò la suprema decisione in materia di difesa e tutela della Terraferma, questa poteva considerarsi ceduta alla volontà e alla discrezione del Bonaparte e delle armate francesi. Bastano, se occorressero altre prove oltre i nudi avvenimenti che seguirono, i dissidi continui con lo zelante capitano e vice-podestà di Brescia Alvise Mocenigo, con l'altro rappresentante veneto a Bergamo, Alessandro Ottolini, e il richiamo ufficiale che furono costretti a rivolgergli già il 20 ott. 1796 gli inquisitori di Stato, ammonendolo ad usare con discrezione i suoi poteri e a non far troppo parco uso della "prudenza e maturità sua" e del "cittadino suo zelo".
Ma la paura e la debolezza che regnavano a Venezia permisero al B. l'immunità completa nella sua azione politica: si finì per vedere in lui l'uomo della salvezza, colui che per i rapporti personali col Bonaparte poteva avere l'ultima parola sul destino della Repubblica: ed ebbe fiducia e aiuto in una condotta politica che ad altri patrizi e in altri tempi avrebbe procurato conseguenze fatali. Impassibile il B. e ammutolito il Senato, caddero così uno dopo l'altro i capisaldi della Terraferma veneta. Ai primi di marzo si ribellava Bergamo, il 18 marzo era la volta della stessa Brescia, di Salò, dei paesi vicini. Costretto a fuggire alla volta di Verona, dopo un breve arresto subito a Brescia, il B. continua a perseguire la sua politica di cosciente arrendevolezza: "Questi abitanti mi assicurano continuamente del loro attaccamento al governo veneto; ma troppo è funesto l'esempio, e violente le circostanze" scrive al Senato pochi giorni prima della ribellione di Brescia. "Io vi ho conosciuto in un tempo in cui prevedeva poco ciò che dovesse accadere - scriverà nel luglio del 1797 il Bonaparte - e vi ho fin d'allora veduto, nemico della tirannia, desiderare la vera libertà della vostra patria": e sarà uno degli attestati decisivi per il ruolo politico del B. nella municipalità veneziana.
Il 20 marzo 1797, in un consiglio speciale riunito a Verona per la difesa della città, il B. interviene con tutto il peso della sua carica a perorare la rinuncia ad ogni speranza, "disposto ad abbandonar ogni cosa", come lo descrive una cronaca contemporanea di Benedetto Del Bene. Impressionati dalla sua disastrosa politica di non intervento, i membri del Maggior Consiglio lo richiamano a Venezia, togliendogli la carica di provveditore per dargli quella molto meno importante di avogador di Comun: ma la decisione, presa il 24 marzo 1797, tardò sino al 1º aprile ad avere esecuzione per l'interessata amicizia dei Savi nei riguardi del Battaglia. Il quale partì da Verona appena in tempo per evitare i tragici giorni delle famose Pasque, salutato senza dolore da tutti, ché, come riferiva un confidente agli inquisitori, "quello che consola il popolo, è che ànno levato il Straordinario Battaglia, che in Verona tutti lo giocava di sospetto, e in Brescia ho sentito da tutte le persone dir mille ingiurie contro il medesimo non volendo difender tal piaza mentre poteva difenderla e castigar li ribelli". Solo, il B. sentiva la difficoltà del momento, e per un attimo l'incertezza della sorte gli fece trovare parole di significativa e rivelatrice perplessità: "In questo viaggio pure mi accompagnerà un dolore vivissimo nel considerare che le mie assidue cure e la purità delle mie intenzioni abbiano avuto un esito così disgraziato da non perderne l'amara impressione per tutta la vita mia". Nemici politici o incoscienza di filo-francesi fecero firmare col suo nome il famoso falso proclama diffuso a Verona il 17 apr. 1797 incitante i Veronesi alla rivolta contro i Francesi: documento della poco onesta attività politica della parte democratica in quell'episodio, che suggellava sanguinosamente la rovina definitiva del dominio della Serenissima.
Ritrovata in Venezia la fiduciosa attesa e l'intimorità amicizia dei patrizi "novatori", presa coscienza della sempre più dilagante arrendevolezza e pusillanimità dei vecchi retrivi e congervatori, il B. vinse il suo attimo d'incertezza e, anziché chiudersi nel silenzio della sua apparente sfortuna politica, si diede a sostenere la parte di arbitro delle sorti della Repubblica di San Marco. Il 6 maggio 1797, come racconta un diario attribuito al patrizio Piero Donà, il B. "viene nella sala dei Pregadi con molta agitazione, inculcando che si evitino tutti i casi possibili di compromissioni; che si abbandoni ogni idea di resistenza; che si lascino venir i Francesi, se lo vogliano, e che si salvi la città, allontanandone gli Schiavoni". È il momento decisivo: nei giorni seguenti il B. con altri patrizi e con uomini, quali lo Spada, che entreranno ben presto nell'agone politico della municipalità, fa la spola tra il pavido doge Manin e l'ambasciata francese, si fa portavoce delle minacce del Villetard, incita alla resa e alla riforma spontanea dell'ordinamento costituzionale. Tra un ambizioso inconsulto quale il Villetard, e un negoziatore sopraffatto come il B. si decide praticamente la fine della Repubblica di Venezia: l'ondata di minacce dell'uno e di timori dell'altro conduce al voto del fatale 12 maggio 1797, che sanciva la caduta dell'aristocrazia veneziana dopo un millennio di storia.
La folla veneziana, che nella reazione immediata a quella stolida scelta politica aveva cercato il B. nella sua abitazione per farne giustizia e lo aveva costretto a nascondersi, si trovò poi, sempre d'accordo con la municipalità nel bollare il patrizio come infido e malsicuro. Ma l'appoggio del Bonaparte fece presto assumere al B. un ruolo di primo piano nella vita della municipalità provvisoria di Venezia: il generale non riconosceva in fondo che lui e il Dandolo come rappresentanti degli interessi veneti. Fu per sua volontà, e contro il parere di parecchi membri della municipalità democratica, che il B. si recò a Milano nel giugno del 1797 come rappresentante veneziano nel congresso che doveva discutere dell'unione dei vari territori a governo democratico con la Cisalpina. Il Dandolo, che non vedeva di buon occhio la fortuna politica e la pericolosa indipendenza d'azione del B., lo attaccava nel luglio in piena assemblea della municipalità, dicendo che a Milano il B. faceva gli interessi della vecchia oligarchia.
Non gli venne mai meno invece la fiducia del Bonaparte. E come a Milano, così anche a Passariano, dove aveva posto il quartier generale per i decisivi colloqui con gli Austriaci sulla pace, il generale altri non volle che il B. quale rappresentante e plenipotenziario veneto, facendo perno sulla sua presenza per sostenere con l'Austria la tesi della piena sovranità dello Stato veneto e il suo diritto alla discussione sulla pace.
In quei mesi decisivi, nel settembre e ottobre del 1797, la presenza del B. a Passariano e la sua sollecita corrispondenza diplomatica con la municipalità sono l'ultima patetica testimonianza della rovina politica della vecchia classe aristocratica, incapace ormai d'un ruolo qualsiasi nel gioco delle opposte potenze europee, e non ancora sostituita dalla troppo immatura classe politica rivelatasi nella rivoluzione democratica, che, nella figura del Dandolo, lancia da Passariano dispacci di un'impressionante superficialità sui floridi destini dell'indipendenza veneziana. Nella estrema rovina, almeno, si possono attribuire al B. doti d'un più disincantato e realistico giudizio politico, fino alla comprensione precisa del "dubbio linguaggio" di Napoleone, "dipendente non da lui, ma dalle circostanze, delle quali non era padrone".
Il trattato di Campoformido chiudeva in un sol tratto l'attività politica del B. e le sorti dell'indipendenza politica veneta, della quale egli era stato, per destino più che per reali meriti, ultimo ufficiale rappresentante. Rifugiatosi a Padova, il B. visse triste e ritirato, ripercorrendo in cuor suo le "meditazioni continue, vigilie, inquietudini, amarezze d'ogni genere" della sua attività lontana. Per favorire l'amico Melchiorre Cesarotti, riesumò nel 1803 alcuni suoi scritti economici, sui mezzi d'incoraggiamento delle manifatture (nati "leggendo, anzi meditando, sopra l'opera dello Smith a ragione celebratissima") e sul commercio della lana, sull'industria della seta e su quella della carta: li offriva all'interessamento d'un amico del letterato padovano "occupato nella buona riuscita della raccolta che si vuole stampare d'autori italiani che hanno scritto di politica economica", e si rifiutava di ritoccarli, "avendo il piacevole ozio in cui mi vivo da tempo non breve arruginite le mie facoltà intellettuali", motivo per cui non poté P. Custodi includerli nella sua collezione.
La lettera al Cesarotti, scritta da Padova il 30 giugno 1803, è l'ultima testimonianza da noi posseduta del Battaglia.
Fonti e Bibl.: La fitta corrispondenza diplomatica del B. nei momenti culminanti della disfatta politica della Repubblica veneta, conservata in originale nell'Archivio di Stato di Venezia, è stata pressoché interamente data alle stampe in varie pubblicazioni. Cfr., per quella del Provveditorato generale di Terraferma e per le trattative con la parte francese nella crisi decisiva che portò al voto del 12 maggio, C. Tentori, Raccolta cronologico-ragionata di documenti inediti che formano la storia diplomatica della rivoluzione e caduta della Repubblica di Venezia, Firenze 1800, I, pp. 105-11, 141 s., 155-59, 173, 206 s., 226, 248-50; II, pp. 3-8, 13-15, 22, 24-31, 36-40, 47, 49-51, 58, 60-62, 64, 66 s., 85 s., 104-06, 135, 215 ss.; alcuni di questi documenti sono riportati anche nella Condotta ministeriale del conte Rocco Sanfermo Carioni Pezzi e suoi relativi documenti, Londra 1798, pp. 37-41, 163-87. Testimonianze del ruolo del B. nella crisi della Serenissima, nell'attività municipale e l'intera serie dei suoi dispacci diplomatici del periodo democratico nei Verbali delle sedute della Municipalità provvisoria di Venezia. 1797, a cura di A. Alberti e R. Cessi, Bologna 1938-1940, ad Indicem. Altri documenti di quest'attività sono nella Correspondance de Napoléon Ier, publiée par ordre de l'Empereur Napoléon III, I, Paris 1858, pp. 489, 516, 538 s.; II, ibid. 1859, pp. 149-51, 156, 221 s., 281 s., 373 s., 415, 458-60; III, ibid. 1859, pp. 345-47, 349, 359.
La lettera autografa al Cesarotti e gli scritti economici sono conservati nella Bibliothèque Nationale di Parigi, Mss. italiens, 1547, ff. 60-115; altre lettere sue nella Biblioteca Civica di Bassano del Grappa, Carteggio Canoviano, 7 ss.
Testimonianze contemporanee sul B. in Memoria che può servire alla storia politica degli ultimi otto anni della Repubblica di Venezia, London 1798, pp. 163 ss., 210-12, 299, 352 ss.; B. Del Bene, Giornale di memorie (1770-1796), a cura di G. Biadego, Verona 1883, pp. 146 s.; Avvenimenti successi in Verona negli anni 1797-'98, con postille di B. Del Bene, a cura di G. Biadego, Verona 1888, alla data del 22 marzo 1797; Assemblee della Repubblica Cisalpina, I, 1, a cura di C. Montalcini ed A. Alberti, Bologna 1917, pp. 46-7; Le "Annotazioni" di Francesco Calbo alle sedute dei Consigli dei Rogadi (1785-1797), a cura di R. Cessi, Bologna 1942, ad Indicem.
Cfr. inoltre: E. Bevilacqua, Le Pasque veronesi, Verona 1897, pp. 47-50, 57, 81-83, 86 s.; H. Hüffer, Der Frieden von Campoformio, Urkunden und Aktenstücke zur Geschichte der Beziehungen zwischen Österreich und Frankreich in denJahren 1795-1797, Wien 1907, passim; U.Da Como, La repubblica bresciana, Brescia 1926, passim; R. Cessi, Campoformio, Padova s. d., passim; R. Bratti, La fine della Serenissima, Milano s. d., passim; A. Frugoni, Breve storia della repubblica bresciana (1797), Brescia 1947, passim; M. Petrocchi, Il tramonto della Repubblica di Venezia e l'assolutismo illuminato, Venezia 1950, pp. 211 s., 220, 222-226, 245-247, 249; R. Cessi, Da Leoben a Campoformio (Note ed appunti), in Atti d. Accad. naz. dei Lincei, n.s., CCCLI (1954), Rendiconti, pp. 558-86; M. Berengo, La società veneziana alla fine del '700, Firenze 1956, pp. 287 s.; R.Gallo, La libera muratoria a Venezia nel 1700, in Arch. ven., LXXXVII (1957), pp. 64-70.