BARONIO (Barone) EMANFREDI, Francesco
Nacque a Monreale il 10 genn. 1593; studiò nel seminario di Palermo e il 9 ott. 1614 entrò come novizio nella compagnia di Gesù. Completò il noviziato nel 1616 e quindi fu mandato nel collegio di Caltagirone, dove restò fino al 1621, insegnando grammatica e nell'ultimo anno anche umanità.
Nel 1621 fu trasferito a Messffia per intraprendere gli studi di teologia: vi restò un biennio e quindi passò alla fine del 1623 a Palermo, dove completò gli studi nel 1625.
Alla fine del terzo anno di teologia avrebbe dovuto essere anunesso, secondo quanto contemplava la regola, al sacerdozio, ma non tardarono a manifestarsi i primi segni di una insofferenza verso ogru disciplina, di una irrequietezza che lo avrebbero portato di 11 a poco fuori dalla compagnia. Il 2 ott. 1625 fu indotto a chiedere le dimissioni: le ragioni di questo provvedimento vennero indicate un secolo dopo dallo storico gesuita della provincia sicwana, l'Aguilera, che parlò di eccessiva intemperanza e litigiosità, di insubordinazione e maldicenza.
Una volta fuori dalla compagnia il B. prese gli ordini e conquistò un beneficio, insufficiente tuttavia ad appagare le sue ambizioni.
Armato di una farraginosa cultura umanistica, si dette a una disordinata attività pubblicistica tesa essenzialmente a procurargli favori e compensi.
Cominciò con un lìbello, Don Francisci Baromi C. P. vindicata veritas panormitana, Venetiis 1629, rovente di invettive contro il gesuita Melchior Inchofer, che, nel difendere l'autenticità della Sacra Lettera della Madonna ai Messinesi, non aveva risparmiato gli attacchi a Palermo.
Su questa strada della polemica accesamente municipalistica procedette l'anno successivo con i quattro libri del De maiestate Panormitana, Panormi 1630, dedicati al pretore di Palenno, che esaltavano le glorie, il passato, i santi e i nobili della sua città di adozione: un grosso centone ridondante di boria municipale, congesto di pesante erudizione e privo di serio impegno scientifico.
Nello stesso anno usciva un carme in onore di s. Rosalia dedicato anch'esso al pretore di Palermo (De diva Rosalia carmen..., Panormi 1630), che aggiungeva anche la freccia dell'edificazione religiosa più scoperta all'arco già tanto ricco del Baronio.
L'ambizioso letterato aveva fatto bene i suoi conti: il 31 genn. 1631 fu nominato segretario del Senato di Palermo (una carica non puramente onorifica), donde contrasti e polemiche per via della sua condizione di ecclesiastico e della sua origine monrealese.
Scrittore quanto mai prolisso e facondo, pubblicò gran quantità di opuscoli polemici, poemetti, vite di santi, ponderosi volumi di erudizione municipale, ora esaltando la nobiltà isolana (Siculae nobilitatis amphitheatrum sacris, pontificiis, promiscuis insignitum ac nostratibus imaginibus exornatum, Panormi 1639), ora magnificando i fasti della Inquisizione di Sicilia (Ristretto de' processi nel pubblico spettacolo della Fede divulgati ed espediti a 9 settembre 1640 dalla Santa Inquisizione di Sicilia nella piazza della madrechiesa di Palermo, Palermo 1640), e sempre inneggiando al municipio palermitano (Palermo glorioso..., Palermo s.d. ma 1642; Cronica di Palermo, parte prima, Palenno 1646).
In mezzo a tanta farragine di opere condotte con inconsistente impegno critico, con vasta, ma del tutto indiscriminata informazione, emergono due scritti dedicati alla polemica con Antonino Amico, regio storiografo ed erudito di prim'ordine. L'Amico aveva pubblicato nel 1640 una dotta dissertazione nella quale demoliva a suon di documenti la presunta primazia della Chiesa palermitana su tutte le altre della Sicilia. Le conclusioni dell'erudito messinese suscitarono le più violente proteste del clero palermitano gelosamente attaccato alle prerogative della sua Chiesa. L'arcivescovo di Palermo Giannettino Doria incaricò di confutarle il B., che scrisse un Historicae et chronologicae dissertationis Antonini De Amico messanensis regii historiographi, ac metropolitanae panormitanae ecclesiae canonici de antiquo urbis Syracusarum archiepiscopatu, ac de eiusdem in universa Sicilia metropolitico iure iudicium, Panormi 1641 (ristampato insieme alla dissertazione dell'Amico in J. G. v. Graeve et P. Burmann, Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae..., X, Lugduni Batavorum 1723), nel quale fece sfoggio di tutta la sua abilità dialettica, senza riuscire tuttavia a intaccare minimamente la validità delle argomentazioni dell'Amico.
Alla polemica con l'erudito messinese (il bersaglio questa volta era costituito dalla Chronologia de los Virreyes, Presidentes, y de otras personas que han governado el Reyno de Sicilia..., Palermo 1640) il B. dedicò un secondo opuscolo, Istorico avveduto del D. D. Francesco Baronio e Manfredi ál rev. padre D. Aurelio Porpora de pp. Olivetani del Mon. di Palermo, Palermo 1641, ancor più violento nelle accuse di falso e di parzialità filomessinese, ma altrettanto inconsistente sul piano della ricerca.
La polemica con l'Amico consacrò la posizione di libellista ufficiale del municipio e della Chiesa di Palermo assunta dal B. con indubbia abilità. Ma l'irrequietezza del temperamento, l'insofferenza di ogni stabile sistemazione, l'incapacità di misurare le ambizioni sulla propria effettiva condizione di mero libellista lo portarono a concludere assai male la sua carriera. Scoppiati a Palermo nel maggio del 1647 i primi tumulti, che avranno un seguito più consistente nella rivolta dell'agosto capeggiata dall'Alesi, il il B. non seppe starsene in disparte. L'indubbio prestigio che la sua attività di pubblicista municipale gli aveva procurato nella più larga cerchia cittadina lo indusse a compromettersi in qualche modo con i rivoltosi.
Secondo la testimonianza del Reina, il B. avrebbe "istigato il popolo a dimandare al signor viceré la facultà d'eleggersi due giurati popolari" (cfr. Reina, p. 154). Tale interferenza non sfuggì all'attenzione del Santo Uffizio, la forza repressiva più efficiente creata dalla monarchia spagnola in Sicilia, nelle cui carceri il B. finì misteriosamente. Riferisce infatti ancora il Reina, "che se fino da, primi di giugno non fosse stato posto per li suoi demeriti nella segreta del Santo Ufficio, havrebbe in tutte le rivolture passate dato somiglianti consigli" (p. 155).
La versione del Reina, con la quale concordano più o meno genericamente quasi tutte le altre testimonianze contemporanee note, è destinata a restare con tutta probabilità definitiva: le ricerche condotte nell'Archivo General de Simancas e nel fondo Inquisición de Sicilia dell'Archivo Histórico Nacional di Madrid non hanno fornito infatti alcun elemento suscettibile di portare un po, più di luce sull'oscura vicenda dell'arresto e della detenzione del Baronio. Allo stato attuale della documentazione è lecito supporre che il B. fu imprigionato per motivi di semplice precauzione, come precisò un altro cronista contemporaneo, il Collurafi, "per essere stato manchevole della prima virtù che è la moderatione della lingua, ed in un tempo che insegnava a tutti essere il partito più sicuro ubbidire alle leggi di Domitiano che proibivano il conunercio del parlare e dell'udire" (cfr. Collurafi, I, p. 128).
La detenzione nelle carceri del Santo Uffizio creò al B. un'aureola di martirio che accrebbe enormemente il suo già notevole prestigio, cosicché con la vittoria dei moti del 15 ag. 1647 i capi della sommossa, bisognosi dell'aiuto di uomini di penna, pensarono proprio al B. "come prattico de' privilegi della città e di credito ed aura popolare" (cfr. Collurafi, I, p. 128). Appena acclamato capitano generale, Giuseppe Alesi si rivolse all'inquisitore Diego Garcia de Trasmiera chiedendogli il rilascio del B. per assumerlo come proprio segretario e consigliere: "Hombre docto y de maquina, mas perverso y sedicioso", commentò un anonimo osservatore di parte spagnola, "es cierto que si ubiera salido a consultarle, como se tramaba, ubiera rebuelto el uniberso" (cfr. Relazione sincrona, p. 380), e non diversamente doveva giudicare il Trasmiera, che si rifiutò di consegnare il B. all'Alesi, adducendo a pretesto la solita "tnateria di fede". Gli scrupoli religiosi, fortissimi nell'improvvisato capopopolo, e l'abilità dell'inquisitore ebbero il sopravvento e il B. non fu liberato.
Il suo nome ritornò insistentemente in quasi tutte le congiure antispagnole organizzate dopo il fallimento della rivolta dell'agosto. Nelle congiure repubblicane di Francesco Vairo e di Placido Serletti, che vennero tutte e due sventate e soffocate nel sangue, uno dei punti del programma era costituito dalla nomina a doge della futura repubblica siciliana del Baronio.
Sull'assoluta estraneità del B. a queste rivolte non sembra sussistano dubbi: almeno allo stato attuale delle ricerche èancora valida la considerazione del Cofiurafi, il quale in riferimento alla congiura del Vairo scrisse: "certo è che fosse egli innocente del pensamento d'un tal parricidio, perché era nelle carceri segrete dell'inquisitione infino dalle prime rivolture..." (11, p. 2 1).
La frequenza con cui il nome del B. ricorse a proposito delle varie rivolte non dové certo giovare alla sua posizione. Come notò ancora il Collurafi, "di tutto questo credito non ha il Barone ricevuto altro beneficio se non la difficoltà ragionevole della sua liberatione: nessuna cosa essendo così necessaria al principe come l'assicurarsi da quelle persone che posson servire d'occasione e di capi a chi desidera novità" (II, p. 21).
In mancanza di documentazione diretta è difficile stabilire con sicurezza quale corso abbia avuto la detenzione del Baronio. Qualche notizia trapela dai cronisti contemporanei e in particolare dai diari di Vincenzo Auria, regio storiografo e archivista reale, che era bene informato sulle segrete vicende dei governo spagnolo in Sicilia.
Secondo queste testimonianze, il B., subito dopo la repressione della rivolta dell'agosto 1647, fu relegato nell'isola di Pantelleria, al riparo da ogni possibile tentativo di liberazione. Nell'aprile del 1648 il governo fece spargere la voce che egli era morto a Pantelleria, ma l'Auria annotò "questa diceria non fu vera, perché il detto Baronio fu mandato nel castel dì Gaeta, dove morì con grand'esempio di virtù cristiane * (cfr. Auria, p. 278). La stessa versione l'Auria confermò in una nota successiva deì suoi diari, senza precisare tuttavia la data della morte, che pìù tardi il Mongitore in un appunto manoscritto fissò, non si sa bene su quale base, al 1654.
Il Pitré in alcune pagine assai suggestive credette di potere identificare col B. un prigioniero nelle carceri palermitane dei Santo Uffìzio, il quale cosparse le pareti della sua cella di scritte, preghiere, versi, disegni, firmandoli con la iniziale "B".
Fonti e Bibl.: Quasi del tutto inutilizzabile la commemorazione che al B. dedicò con molta enfasi e nessuna ricerca U. A. Amico, Memorie storiche sopra F. B. M., in Archivio stor. siciliano, n. s., XXXII (Ill.), Delle rivolutioni della città di Palermo avvenute l'anno 1647, Verona 1648, pp. 154 s.; Delle tumultuattioni della plebe in Palermo del conte Collurafi, Palermo 1651, 1, pp. 128 S.; II, p. 41; V. Auria, Diario delle cose occorse nella città di Palermo e nel regno di Sicilia, in G. Di ~zo, Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, III, Palermo 1869, pp. 234, 241 s., 278, 374; R. Pirro, Annales Panormi..., ibid., IV, Palermo 1869, pp. 111, 190, 245-247; Epitome delle seconde rivoluzioni di Palermo di D. Aragona, ibid., p. 252; Relazione sincrona dei fatti di Giuseppe d'Alessi..., a cura di L. Boglino, in Arch. stor. siciliano, n.s., VII (1882), p. 380; A. Siciliano, Sulla rivolta di Palermo del 1647, in Arch. stor. Per la Sicìlia, IV-V (1938-1939), pp. 205 s., 256, 289 s.; G. Pitré, Del Sant'Uffizio a Palermo e di un carcere di esso, Roma 1940, pp. 46-67, 96 s.