PRATELLA, Francesco Balilla
PRATELLA, Francesco Balilla. – Nacque a Lugo di Romagna il 1° febbraio 1880 da Ernesta Ghepardi e da Francesco, figlio di Alessandro, di umile famiglia di ceramisti, locandieri e fornai imolesi, egli primogenito dei fratelli Attilio, Anacleto e Vittorio; ebbe come cugino il regista di cinema Esodo Pratelli (1892-1983).
Sotto l’influsso del padre si nutrì di ideali repubblicani, che non poco influirono sulla successiva adesione al credo futurista, cui seguì, nel 1932, quella al Partito nazionale fascista (PNF). La formazione di Pratella iniziò dal ginnasio e dalla locale scuola comunale di musica: lì prese forma la sua prima composizione, Serenata per orchestra di mandolini e chitarre, poi trascritta per violino e pianoforte, pubblicata dall’editore Fantuzzi di Milano come op. 1 con il titolo La buona notte (1899) (cfr. F.B. Pratella, Testamento, a cura di R. Berardi - F. Serra, 2012, p. 55). Per continuare gli studi liceali, all’avvio dell’anno scolastico 1897-98 si trasferì a Napoli ospite dello zio paterno Attilio, pittore: vi rimase sino a febbraio, quando si presentò all’esame di ammissione per composizione al Liceo musicale di Bologna, senza peraltro superarlo (la commissione era presieduta da Giuseppe Martucci). Pratella fu poi ammesso, l’anno dopo, ai corsi di contrappunto e fuga nel Liceo musicale di Pesaro, sodale di Amilcare Zanella, Alceo Toni, Riccardo Zandonai, e in parte allievo di Pietro Mascagni.
Risalgono a questo periodo di solida formazione alcune prove, per lo più inedite, di liriche per canto e pianoforte, quadriglie, polke, mazurche, valzer, nonché abbozzi di libretti d’opera (La confessione, Aganadeca, Il Sabato santo) e brevi composizioni: Il ritorno dei crociati in patria per coro di uomini, voci bianche e banda, nonché l’operina per bambini C’era una volta.
Nel 1902 mise mano al libretto e alla musica di Lilia, poema romantico per la scena e la musica in due parti: meditazione su Gli amori degli angeli di Tommaso Moore: l’opera in un atto vinse il Concorso melodrammatico internazionale Sonzogno, venne poi ampliata a tre atti e infine rappresentata nel teatro Comunale di Lugo (1904).
Tornato da Pesaro, dopo essersi diplomato in composizione, Pratella terminò di scrivere Romagna, cinque poemi per orchestra su canzoni popolari op. 21, e La chiesa di Polenta, poema musicale ispirato all’omonima ode di Giosue Carducci (Bologna, teatro Comunale, 16 dicembre 1905). Nel 1904 pubblicò il suo primo articolo da giornalista, Inni di partito, uscito sul periodico L’Italia del Popolo; seguirono altri scritti per Nuova Musica: interventi che segnano la parallela, costante e intensa attività di saggista e pubblicista infine coronata, nel 1914, dalla titolarità della rubrica «Musica» su Avvenimenti, le collaborazioni con i periodici Rivista musicale italiana e Il Pianoforte e con i quotidiani Il Resto del Carlino, Il Popolo d’Italia, Le fiamme (diretto da Giuseppe Bottai) e La testa di ferro (diretto dal futurista Mario Carli). Dal 1917 collaborò alla Raccolta nazionale delle Musiche Italiane diretta da Gabriele D’Annunzio, e dal 1922 al 1924 guidò il mensile di cultura musicale popolare Il Pensiero musicale.
Dal 1908 Pratella insegnò solfeggio nella Scuola comunale di musica di Cesena, di cui diventò il direttore negli stessi mesi in cui sposò Ida Vecchi, dalla quale ebbe due figlie, Ala (nata il 30 maggio 1915) ed Eda (nata il 23 novembre 1919). Dal gennaio 1910 andò a reggere la Scuola musicale civica della città natale, per poi passare, nel 1928, alla direzione dell’Istituto musicale di Ravenna, da cui venne infine allontanato e collocato a riposo nel marzo del 1945 per iniziativa del locale Comitato di liberazione con l’accusa di ‘indegnità’ perché autore della musica Inno della Brigata nera, in uso alle truppe repubblichine di Salò.
La mai sopita vocazione di studioso del patrimonio musicale folklorico romagnolo era stata alla radice della Sina d’Vargöun (Rosellina dei Vergoni), scene della Romagna bassa per la musica, storia romanzata di amori passionali, gelosia e morte: vinse il concorso Cincinnato Baruzzi, e la commissione, presieduta da Pietro Mascagni, la giudicò meritevole di un premio in danaro e della rappresentazione al teatro Comunale di Bologna (4 dicembre 1909). Il lavoro, concepito su un impianto musicale verista con alcune incursioni nelle ‘cante’ popolari (poesie in dialetto romagnolo), ebbe recensioni lusinghiere sull’Avvenire d’Italia e sul Resto del Carlino, quest’ultima firmata dal giovane Riccardo Bacchelli.
Nella nota introduttiva Al pubblico, Pratella enunciò le linee della sua parabola artistica racchiusa nella dicotomia tra ossequio alle tradizioni musicali della sua terra e adesione al ‘nuovismo’ di matrice europea, dapprima di Claude Debussy, indi di Igor Stravinskij, ch’egli peraltro ebbe modo di incontrare ai primi del 1915 a Milano, in casa di Filppo Tommaso Marinetti, durante una memorabile serata pianistica (presenti anche Sergej Diagilev e Léonide Massine, per i quali suonò alcuni abbozzi dell’opera cui stava lavorando, L’aviatore Dro).
In campo etnofonico spetta a Pratella il merito di aver valorizzato il patrimonio romagnolo, attraverso le molte trascrizioni di ‘cante’: tale dedizione durò oltre la stagione futurista e si sedimentò nel repertorio dei Canterini romagnoli di Lugo fondati nel 1925 (si ricordano anche gli scritti Saggio di gridi, canzoni, cori e danze del popolo italiano, Bologna 1919; Etnofonia di Romagna, Udine 1938; Primo documentario per la storia dell’etnofonia in Italia, Udine 1943).
A tutta prima, l’adesione di Pratella al credo futurista, avvenuta nell’agosto del 1910, potrebbe apparire incoerente con tali premesse di studi e ricerche. Lo stesso musicista ne additò il contesto personale: «Strapaesano al cento per cento e tale rimasto, a dispetto di tutte le disillusioni e di tutti i mutamenti, per guerre, per scoperte, per cammino di progresso […] sentivo già da allora la mia intimità provinciale e la mia indipendenza professionale dall’attività artistica come una rocca forte di rifugio e di difesa […]» (F.B. Pratella, Testamento, cit., p. 145). Una sorta di sdoppiamento, se non proprio di schizofrenia creativa tra antico e moderno, si osserva in Pratella se si vanno a scorrere i titoli di opere in musica dal fondo popolaresco, dalla citata Sina d’Vargöun a La ninna nanna della bambola (Milano, 1923), Dono primaverile (Bologna, 1923), La leggenda di san Fabiano (Bologna, 1939). L’inclito e l’incolto, lo snobismo intellettuale cittadino e il sentire popolare della provincia, in uno con cantilene, nenie, balli della società contadina e il nascente mito della macchina e della metropoli, coesistono nel credo engagé di Pratella prima, ma anche dopo la svolta futurista proclamata nel suo Manifesto dei Musicisti futuristi (11 ottobre 1910), poi cadenzato dai due successivi, Manifesto tecnico della musica futurista (11 marzo 1911) e La distruzione della quadratura (18 luglio 1912): trittico spregiudicato di pensiero e azione uscito in meno di due anni sulla rivista milanese Poesia, in una studiata sequenzialità di idee per aggredire il sistema musicale italiano e lanciare singolari proposte di rivincita sul «passatismo».
Più che nei postulati incendiari, fomentati dal vate Marinetti, Pratella dichiarò i propri indirizzi teorici nel Manifesto tecnico: «enarmonia», intesa quale suddivisione del tono in parti minime inferiori al semitono (prassi presente nella musica popolare e quindi a lui ben nota); «sintesi», sinestesia che persegue la concentrazione di tutte le sensazioni entro un unico ambito spazio-temporale; «stati d’animo» che soccorrono l’artista nell’istante della creazione; «macchinismo» come slancio vitalistico della e per la modernità. La frase a effetto che suggella il secondo Manifesto («L’ordine è un vecchio poliziotto, che non ha più buone gambe per correre; noi, futuristi, creiamo il nuovo ordine del disordine») risuona come tipica provocazione futurista, ma anche come ficcante didascalia alla prima esecuzione, ovviamente turbolenta, della Musica futurista per orchestra: Inno alla vita (al teatro Costanzi di Roma, 21 febbraio 1913).
Il 1913 fu anche l’anno di un interessante incrocio sulle pagine della rivista fiorentina Lacerba, quando Aldo Palazzeschi firmò l’articolo Il Controdolore e Pratella rispose con Contro il «grazioso» in musica… e di altro ancora, intendendo entrambi lanciare i temi dell’ammodernamento della letteratura e della musica italiane in chiave futurista.
La massima applicazione di una poetica futurista sintetica si ravvisa nell’unica vera opera-melodramma di Pratella, L’eroe, terminata nel 1914, poi allestita con il titolo definitivo L’aviatore Dro: poema tragico in tre atti (Lugo, 4 settembre 1920; ripresa ivi il 3 gennaio 1996), che presenta un andamento musicale originale e a tratti interessante, memore dei suggerimenti dello stesso Marinetti, il quale non tarderà a chiamarla «prima aeromusica dell’aviazione» (F.T. Marinetti - A. Giuntini, Manifesto futurista della aeromusica sintetica geometrica e curativa, in Stile futurista, agosto 1934, p. 14), e ciò proprio ai fini dell’applicazione ‘aerorumorista’ quando la macchina volante è presente in scena: «introdurre nell’orchestra […] più intonarumori di Russolo […]. Così si delineerebbe nettamente la tua figura di primo musicista che abbia col suo genio rivoluzionato l’orchestra saltando coraggiosamente il fossato che separa, in musica, il futurismo dal passatismo» (Caro Pratella, 1980, p. 60).
Tutt’altro che futurista risulta invece la base armonico-tonale dell’opera, pregna di accordi sincopati, progressioni per terze e seste maggiori, scale pentatoniche, con il suggello finale, a dir poco wagneriano, di un accordo di Si bemolle maggiore. Contigue alla modernità dei suoi anni, se le si pensa prossime alla teoria suono-colore del Cavaliere azzurro di Vasilij Kandinskij (che certo Pratella non poté conoscere), sono semmai le originali corrispondenze simboliche tra scena, musica e colori: «rievocare il rosso, per una scena lussuriosa o tragica; rievocare l’azzurro, per una scena di purità, etc… Stato d’animo colorico, sì, ma non pittura: arte a sé, questa, che vive di una vita propria ed autonoma» (F.B. Pratella, Teatro futurista: colorico-mimico-dinamico-musicale, in La Balza futurista, III (1915), e Id., Scritti vari di pensiero, di arte e di storia musicale. Evoluzione di sensibilità e di idee, Bologna 1933, p. 66).
Un giovane aviatore, Dro, contende la bella Ciadi al rivale in amore Rono, tra orge, sogni, incubi, scene di seduzione, mentre cerca requie nell’aeroplano lanciato in cielo come «mare rovesciato». Ma l’eroe taciturno si sfracella al suolo dopo un giro della morte con la sua macchina volante. Tutti accorrono, un pescatore raccoglie Dro tra i resti del suo aereo spiaggiato quasi come creatura vivente che ancora per un po’ agita le sue rosse ali. Ciadi tenta di rianimarlo, poco a poco il suo corpo si dissolve in rivoli di sangue che penetrano il terreno circostante. Tutt’intorno gli elementi naturali si trasfigurano in luce e colori.
La prima guerra mondiale chiamò Pratella alle armi dal maggio 1916 all’armistizio, con incarichi di ‘soldato semplice scritturale’ in depositi militari tra Lugo e Forlì (F.B. Pratella, Testamento, cit., 2012, p. 208), laddove ebbe comunque modo di continuare la sua attività di musicista. Sempre attento alle novità correnti nel mondo dello spettacolo e della musica, nel 1927 partecipò con una sua composizione (Popolaresca) alle esibizioni itineranti, da Parigi a Torino, della compagnia della Pantomima Futurista di Maria Ricotti ed Enrico Prampolini, sino ad arrivare, nel 1938, a comporre la colonna sonora del film L’argine (regia di Corrado D’Errico) sulla storia di ‘Zvanì il Passatore’.
Delle rimanenti composizioni di Pratella successive alla prima guerra mondiale si dà qui una scelta: Inno alla vittoria, cantata per coro e orchestra op. 29 (1918); La canzone del niente op. 36 per canto e pianoforte (1919); Il tamburo di fuoco (1922); Trio op. 28 (1924); La guerra, tre danze per orchestra op. 32 (1924) Giallo pallido op. 39, tempo per quartetto d’archi (1924); Sonata terza per quartetto d’archi e pianoforte op. 55 (1937); Preludio e danza dei serpenti op. 40 (1938); quattro serie di Cante romagnole op. 43 (1924), 49 (1928), 51 (1930) e 56 (1938); musica inedita per Nostra médar Rumagna op. 61 (s.d.).
Morì a Ravenna il 17 maggio 1955.
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