ARNALDI, Francesco
Nacque a Codroipo (Udine) il 5 ott. 1897 da Girolamo e da Giovanna Sebben, in una famiglia comitale risalente al Sacro Romano Impero. Compiuti gli studi liceali a Udine e interrotti quelli universitari, iniziati a Padova, perché chiamato alle armi negli ultimi due anni della prima guerra mondiale, egli si laureò il 20 giugno 1920 discutendo una tesi su Tacito (poi pubblicata con il titolo Le idee politiche, morali e religiose di Tacito, Roma 1921) con Vincenzo Ussani. Vinti i concorsi statali come professore di lettere classiche, fu assegnato a Sassari, ma subito distaccato alla R. Scuola normale superiore di Pisa come professore interno e vicedirettore. La sua funzione era assistere gli studenti, esercitandoli in traduzioni di greco e di latino, e sostituire il direttore spesso trattenuto da impegni senatoriali a Roma. Nel 1927 conseguì la libera docenza. Il suo atteggiamento poco gradito al regime gli costò nel 1934 la rimozione dall'incarico, mascherato da un trasferimento a Roma presso l'Accademia d'Italia, con il compito di redigere il lessico della latinità medievale d'Italia. Nel 1936 vinceva il concorso a cattedra di letteratura latina e, dopo un anno a Palermo, si stabilì definitivamente a Napoli ricoprendo tale cattedra fino al 1967, quando fu collocato fuori ruolo. A Napoli fu anche supplente di letteratura greca dal 1938 al 1942 e incaricato di storia della letteratura latina medievale dal 1953; insegnò inoltre all'Istituto superiore di magistero "Maria SS. Assunta" di Roma; fu delegato italiano presso l'Unione accademica internazionale e presso l'UNESCO; presiedette la consulta del Centro didattico per i licei; socio di varie accademie, condiresse la rivista Vichiana e diresse gli Annali della facoltà di lettere e filosofia di Napoli.
L'A. morì a Roma il 28 giugno 1980.
La sua esemplare carriera di docente appare punteggiata da una copiosa produzione critico-letteraria.
Dall'ambiente in cui era cresciuto, dal contatto con i suoi due maestri Ussani ed E. Romagnoli, aveva appreso l'amore per la cultura elegante tipica del resto dell'umanesimo veneto. La tradizione della scuola friulana si richiamava ai ginnasi asburgici: puntava più sulla conoscenza linguistica che sulla filologia. L'A. ancorò la sua concezione morale della vita alla pratica del cattolicesimo, inteso come "conservatorismo spirituale", tenendo in sospetto ogni apertura modernistica. A un uomo della sua indole il moralismo serviva da prisma ottico. Così, nel suo primo saggio, più che l'aspetto politico, suggeritogli dall'Ussani, l'A. approfondì il tema della morale e della religione di Tacito, studiando il quale egli maturò la sua personalità di critico, mistico ed immaginoso, sensibile e introspettivo, avido di conoscenze, curioso di problemi, incline alla discussione e alla garbata controversia.
Fin da questo primo lavoro l'A. mostrava disdegno per la bibliografia, per le questioni minute, per la critica testuale, per l'apparato critico. L'esempio del Romagnoli lo invogliava a lasciare alle spalle l'erudizione per darsi tutto alla lettura compartecipe del testo; l'esempio dell'Ussani a volgersi alle grandi sintesi storiche. Ma dall'uno come dall'altro lo staccava un più sentito problema religioso, che si maturò negli anni pisani e sfociò nel Dopo Costantino. Saggio sulla vita spirituale del IV e V secolo (Pisa 1927).
Tutto faceva presagire che questo giovane critico e storico, accompagnato dalle simpatie del mondo accademico nazionalista, avrebbe colto facile consenso e plauso alle sue tesi; e invece conobbe i primi dissensi. L'A. affermava d'avere scritto la storia letteraria dei due secoli "direttamente sui testi, limitando la bibliografia all'indispensabile, e colla guida di un grande amore per il cristianesimo e la civiltà antica". Ma l'Italia non era ancora matura per l'intelligenza e la rivalutazione del tardo impero. Ai suoi maestri non garbavano la difesa del postclassico, né il suo voler mettere d'accordo il classico col cristiano, né la sua velleità di difendere il brutto in nome del giusto. La sua religiosità, compiacendosi della vittoria sugli dei falsi e bugiardi, finì per fargli affrontare sia l'ostilità degli ambienti ecclesiastici, che allora mal tolleravano che i laici si pronunciassero su argomenti religiosi, sia l'ostilità dei positivisti, idealisti, agnostici e massoni nel veder esaltato il "brutto stile" del tardo impero. Il saggio rivalutava un'epoca di transizione che, solo dopo la seconda guerra mondiale, fu posta al centro dell'interesse. L'A. commise l'imperdonabile errore di dire cose giuste in modo sbagliato. Ignorando la copiosa bibliografia sull'argomento, risolveva tutto con una scrittura garbata e accattivante; sorvolava problemi a lungo dibattuti; dava taglienti giudizi sull'arianesimo; analizzava la psicologia di s. Agostino; ammirava il decisionismo di s. Ambrogio; si incantava alla lettura di Prudenzio; insisteva non sullo stacco fra classico e cristiano, bensì sulla continuità fra mondo pagano culto e cristianesimo emergente.
Anche se poi abbandonò deluso questa tematica, rimase sempre in lui la tendenza a fare il "pontiere" fra questi due mondi diversi e spesso contrapposti. Dirottato sul Medioevo, iniziò l'opera dell'ArchivumLatinitatis Medii Aevi (1927), che doveva realizzarsi con il Lexicon imperfectum, unrepertorio lessicografico che spazia dal 476 al 1022 (Latinitatis Italicae Medii Aeviinde ab a. CDLXXVI usque ad a. MXXII, I, A-Medicamen, Bruxelles1939; II, Medicamentum-quum, ibid. 1951-53; III, R-Zyson, ibid. 1957-64 [seconda ediz. dei tre volumi, Torino 1970]; Addenda, I, A-Axon, in Arch. Lat. Medii Aevi, XXXV [1965-66], pp. 7-46). Cosa allora rara per un classicista, egli colse l'occasione per interessarsi a problemi come il ritmo prosaico, Ammiano Marcellino, la Civitas Dei, Ugo di S. Vittore, Marco Valerio, Pontano, e fu lettore attento di Huizinga, di E. R. Curtius, di Auerbach. E forse avrebbe voluto continuare in questa direzione verso ancora inesplorati orizzonti, se i doveri dell'insegnamento, scrupolosamente esercitato, non lo avessero costretto a fermarsi sui maggiori autori della classicità, quelli che era necessario far leggere a studenti universitari.
Fra questi emerge Virgilio, a cui aveva dedicato fin dal 1925 un articolo, L'anima di Virgilio. Alle celebrazioni del bimillenario della nascita egli partecipò con una lettura dell'ottavo libro dell'Eneide, recensendo di G. Funaioli la Esegesi virgiliana antica, Vergil's Troy di Jackson Knight, commentando le Bucoliche (Milano-Messina 1934), pronunciandosi sulla questione della Appendix a favore di una limitata autenticità (Culex e qualche Catalepton). Ilsuo modo di trattare Virgilio rimase a livello impressionistico: le Bucoliche sono per lui "fiabe musicali", in cui la natura fa da protagonista; nelle Georgiche ascolta "il più lieve respiro dell'universo"; nell'Eneide vede un'epopea "già completamente fuori del mondo epico dell'Iliade".
Il buon successo di adozioni del commento alle Bucoliche lo indusse a proseguire nel cammino dei commenti scolastici, graditi per l'inquadramento ambientale e per la delicatezza di alcune osservazioni; nacquero così Odi ed Epodi di Orazio (Milano-Messina 1940) e Carmina selecta di Catullo (ibid. 1948). Fu la riuscita di questi tre commenti che lo spinse all'ambizioso programma di dotare la scuola italiana, in primis i suoistudenti universitari, di un'Antologiadella poesia latina, articolata in più volumi: I, Da Nevio a Properzio (Napoli 1953); II, 1, Da Ovidio aLucano (ibid. 1956); II, 2 A, Da Valerio Flacco aPrudenzio (ibid. 1963). La scelta, come si vede, limitata alla sola poesia, forniva l'occasione per ribadire la sua concezione della classicità, articolata in due epoche: la prima andava da Omero a Ovidio, l'altra da Ovidio alla fine dell'Impero, quest'ultima vivificata dalla presenza del cristianesimo. La giuntura era dunque Ovidio, che già nel 1945 Hermann Frankel aveva definito "a poet between two worlds".
Lettore instancabile, scrittore agile e piacevole, traduttore felice (La guerra gallica, Roma 1938, di Cesare e lo Pseudolo, Napoli 1955, di Plauto), ebbe occasione per affrontare testi impegnativi e personalità letterarie fortemente problematiche: Plauto, Terenzio, Lucrezio, Cicerone, Sallustio, Cesare, Augusto, Tito Livio, Lucano, Giovenale, Ammiano Marcellino, Agostino. Sensibile e accattivante, più sul piano del contatto che della penetrazione, l'A. assunse sempre posizioni non conformiste. Ebbe inopinate aperture critiche come quelle formali, in un'epoca di prevalente contenutismo, su Lo stile di Augusto (in Romana, II [1938], pp. 373-379) o La lingua di Terenzio, lingua da capitale (in Atene e Roma, s. 3, VI [1938], pp. 192-198), ma furono folgorazioni ben presto abbandonate, sospinte via da altri più pressanti interessi. Avvertì la necessità che il classicista estendesse il suo raggio d'azione al Medioevo e all'Umanesimo; ma non sempre le sue incursioni nelle aree cronologiche più recenti appaiono vigilate da controllo critico, anche perché in questo settore i testi sono meno sicuri e affidabili nelle loro edizioni.Per una bibliografia degli scritti dell'A. si rimanda a quella curata da A. Nazzaro in F. Arnaldi, Scritti minori, Napoli 1974, pp. 477-485. Sono qui da ricordare, tra i saggi: Cicerone, Bari 1928 (2ª ediz., ibid. 1948); L'Eneide e la poesia di Virgilio, Napoli 1932; La poesia dell'Iliade, Bologna 1932; Problemi di stile virgiliano, Napoli 1941; Struttura e poesia nelle odi di Pindaro, ibid. 1943; Due capitoli su Tacito, ibid. 1945; Da Plauto a Terenzio, ibid. 1946-47; Cesare, Milano-Messina 1948; Tacito, Napoli 1973; tra i commenti: Valeri Catonis Lydia, Napoli 1939; Terenzio, Eunuchus, ibid. 1946; Tacito, Dialogus de oratoribus, Milano-Messina 1949; tra le antologie: Poeti latini del Quattrocento, Milano-Napoli 1964.
Bibl.: A. Salvatore-S. D'Elia, F. A., in Profiliericordi, XI, Napoli 1984, pp. 1-48.