ARMELLINI MEDICI, Francesco
Nacque a Perugia o a Fossato nel luglio 1470 dal mercante Benvegnate (o Benvenuto), che pare rinunziasse al proprio cognome (Pantalissi) per quello della moglie (Armellini), appartenente ad una famiglia di ricchi mercanti di Perugia.
Secondo il Garimberto, Benvegnate, appaltatore della "salaja" a Roma nel 1495, dichiarando un fallimento impunemente fraudolento, lasciò alla sua morte una somma notevole in eredità al figlio. Questi fu quindi adottato da uno zio materno, che è probabilmente da identificare con Berengario Armellini, appaltatore della salaja per la Marca, il quale afflisse a tal punto quelle popolazioni con la sua avidità, che lo stesso pontefice Giulio II si vide costretto a intervenire il 1º genn. 1507 presso il cardinale Alessandro Farnese, amministratore della regione, perché proteggesse almeno i sudditi più devoti alla Santa Sede dai suoi esosi provvedimenti. Di tali tradizioni familiari l'A. fu un degno continuatore.
Venuto a Roma nei primi anni del secolo XVI dopo aver compiuto gli studi giuridici, riuscì rapidamente a farsi largo nel lo spregiudicato ambiente della corte con la sua abilità di causidico e di affarista. Associatosi con altri speculatori, e in particolare con i banchieri fiorentini residenti a Roma, l'A. accumulò rapidamente un'ingente fortuna, incettando nella Marca il bestiame da macello per il mercato romano, appaltando dalla Camera Apostolica dazi e gabelle, trafficando nella vendita degli uffici. Per acquistare maggior prestigio e potenza e condurre su scala sempre più vasta le sue speculazioni, l'A. intraprese una carriera ecclesiastica che fu senza dubbio uno dei maggiori esempi di simonia del tempo. Nel novembre 1504 ottenne la carica di chierico di Camera, nell'agosto successivo fu segretario apostolico, nel 1507 ebbe l'ufficio di chierico del Sacro Collegio. Nel 1513, durante il conclave per la morte di Giulio II, fu nominato conclavista del card. Sigismondo Gonzaga, benché fosse stato stabilito che da tale incarico dovevano essere esclusi gli ecclesiastici.
Con l'elezione al pontificato di Giovanni de' Medici l'importanza dell'A. nella corte romana crebbe enormemente.
Egli divenne il più ascoltato consigliere del nuovo papa nell'avventurosa politica finanziaria alla quale questi fu costretto dal suo mecenatismo e dai suoi ambiziosi piani politici; la fantastica ricchezza di espedienti, l'abilità eccezionale con la quale scovava sempre nuove fonti di entrata per la Camera Apostolica, resero l'A. indispensabile agli occhi di Leone X. Le popolazioni dello Stato della Chiesa, libere sino allora da eccessivi tributi, furono sottoposte ad un fiscalismo immaginoso e feroce: l'A. escogitò imposte sul bestiame da macello e sui cereali, sul sale e sui forestieri, sulle botteghe artigiane e sui vini "romaneschi". A poco servivano le proteste della popolazione: soltanto nel novembre 1516, allorché si tentò di imporre, su consiglio dell'A., in quello stesso anno nominato protonotario apostolico, una nuova gabella sul sale che avrebbe dovuto rendere venticinquemila ducati, la violenta reazione della popolazione delle Romagne costrinse la Curia a rinunziarvi. Ma poiché le necessità di Leone X andavano moltiplicandosi fuori di ogni misura a causa della guerra per il ducato di Urbino, i non disinteressati consigli dell'A. apparivano sempre più preziosi al pontefice, il quale, con la mediazione di quello, prese a prestito forti somme all'esorbitante interesse del 40% da Agostino Chigi e dagli altri banchieri fiorentini, i Ridolfi, i Bini, i Salviati, i Gaddi. Infine, ancora una volta dietro proposta dell'A., si arrivò, nel giugno 1517, a quel gigantesco episodio di simonia che fu la vendita di trentuno cappelli cardinalizi.
L'A. seppe ricordare al papa, mediante l'offerta di quarantamila ducati, i servigi sin lì resi alla Chiesa e fu compreso nella lista dei nuovi cardinali col titolo di San Callisto (in seguito, 22 nov. 1523, assunse quello di Santa Maria in Trastevere), ottenendo anche di essere adottato da Leone X e di poter quindi aggiungere al suo nome quello dei Medici.
Ma il passo decisivo della sua carriera ecclesiastico-finanziaria fu compiuto dall'A. allorché riuscì ad assicurarsi, con la carica di camerlengo, il controllo diretto delle finanze pontificie. Titolare di questo ufficio era nel 1517 il cardinale Raffaello Riario; compromesso questi nel complotto contro Leone X, capeggiato dal cardinale Petrucci, fu sospeso dalla carica, pur conservandone il titolo. L'A., versando a Leone X quindicimila ducati, si assicurò il 24 luglio 1517 la supplenza del Riario con pieni poteri, e dispiegò tutte intere le sue doti di spregiudicato amministratore, sia a vantaggio della Camera Apostolica sia in proprio: moltiplicò i balzelli, vendette titoli, uffici e appalti, tassò senza pietà impiegati di Corte e prelati, impegnò per cifre enormi le rendite future della curia. Anche per quanto riguarda la vendita delle indulgenze per i defunti, documenti assai significativi, anche se non numerosi, dimostrano che l'A. fu tra gli animatori di quel traffico: si sa, infatti, che fu proprio l'A. a condurre con gli inviati di Alberto di Brandeburgo le trattative attraverso le quali l'elettore ottenne la concessione della predicazione delle indulgenze nei territori di Magonza, Halbertstadt e Magdeburgo; una ricevuta a firma dell'A. dà atto ai Frescobaldi del versamento alla Camera Apostolica di ventunomila ducati ricavati dalla vendita,delle indulgenze nei Paesi Bassi; lo stesso A. sottopose alla Repubblica di Venezia un piano per la vendita delle indulgenze nell'isola di Cipro.
Non si può stabilire in che misura l'A. traesse personali vantaggi da queste iniziative a favore del tesoro pontificio, certo è, però, che egli si servì ampiamente della carica di camerlengo per le sue assai poco scrupolose speculazioni, col perseguitare, ad esempio, gli osti e i macellai romani con una esorbitante pressione fiscale e con misure di polizia, a vantaggio della catena di macellerie e taverne che egli stesso gestiva, eludendo per mezzo di vari prestanome il divieto agli ecclesiastici di dedicarsi a simili attività, già stabilito da Innocenzo VIII nel 1488.
Tra le molte iniziative dell'A. merita di essere ricordata, a testimonianza degli stretti legami che lo unirono ai maggiori esponenti della finanza internazionale, la costituzione insieme col cardinale Antonio Pucci, degli "Uffici dei Cavalieri di San Pietro", vera società per azioni, con un capitale iniziale di quattrocentomila ducati, per lo sfruttamento delle miniere di allume di Tolfa: ne facevano parte, oltre ai due cardinali, i finanzieri tedeschi Raimund e Hieronimus Fugger, Conrad, David e Hieronimus Rehlinger, il fiammingo Gerardus de Dorren, e vari banchieri e affaristi italiani, tra cui Agostino Chigi, che ottenne l'appalto dei lavori di estrazione.
Tale era la fiducia di Leone X nell'A. da seguirne spesso i consigli anche in materia politica e da adoperarlo in delicate missioni, che esulavano dai compiti del camerlengo: così, sul finire del 1519, allorché la rivolta divampò nella Marca di Fabriano, dove la popolazione, già sottoposta per mesi ai saccheggi delle soldatesche spagnole dell'imperatore Massimiliano, si opponeva agli spietati balzelli dell'A., il papa non trovò di meglio che inviare come legato a Fabriano il principale responsabile dell'insurrezione, e questi, con decisa, calcolata ferocia, in poco più di un mese represse completamente i moti. Durante la lotta contro le signorie particolari dell'Umbria e della Marca, l'A. indusse il papa alle misure più energiche e sbrigative e si dovette alle sue insistenze se Leone X dispose l'arresto nel marzo 1520 e poi l'esecuzione il 2 giugno successivo del signore di Perugia Gian Paolo Baglioni, accusato di tradimento; né egli fu estraneo ai maneggi orditi da Leone X nel 1521 contro il ducato di Ferrara.
Ma di nuovo le necessità finanziarie urgevano e l'A. indusse il pontefice ad insignire del titolo di cavaliere in momenti successivi ben cinquecentocinquanta persone. Propose anche di vendere altri otto cappelli cardinalizi a quarantamila ducati ciascuno, ma tale era stato lo scandalo suscitato dalla vendita del 1517 che Leone X questa volta non osò seguire il suo consigliere. Questi, anzi, corse serio pericolo di essere estromesso dalla Camera Apostolica, allorché, nel luglio 1521, morì il cardinale Riario, camerlengo titolare. Il cardinale Innocenzo Cibo ne ottenne per sessantamila ducati la successione ed esercitò effettivamente la carica per circa due mesi; nell'ottobre però l'A., sostenuto dai banchieri fiorentini, poté portare la sua offerta a settantamila ducati e Leone X revocò la concessione al Cibo e nominò definitivamente titolare della Camera Apostolica l'A., che tenne questo ufficio sino alla morte.
Successivamente l'A. propose la vendita a privati dei lago Trasimeno e quella di Terracina, ma la cosa non ebbe seguito. Sempre più invece il papa ricorreva al sistema di indurre i suoi più stretti collaboratori ad impegnare i loro benefici a favore del tesoro pontificio e lo stesso A. divenne creditore del papa per somme ingentissime.
L'improvvisa morte di Leone X, nel 1522, ridusse l'A., come altri familiari del Medici, sull'orlo della rovina. Il lungo conclave e l'assenza prolungata del nuovo papa, durante i quali l'A. rimase arbitro incontrollato delle finanze dello stato, e la fiducia conservatagli da alcuni potenti gruppi finanziari gli permisero di salvare la propria situazione. Di questo periodo sono alcuni minacciosi monitori dell'A. contro Alfonso d'Este, il quale si era impadronito della Garfagnana e tentava di tornare in possesso di Reggio, monitori che gli valsero i versi (58-63) sferzanti della quarta satira ariostesca.
Durante il breve pontificato di Adriano VI l'A. si mise sempre più in evidenza come uno dei capi della fazione medicea: potenti legami finanziari e personali lo univano, sin dal pontificato di Leone X, alla potente famiglia fiorentina ed egli giunse persino ad inviare a Firenze, in soccorso del cardinale Giulio de' Medici, milizie arruolate a spese della Camera Apostolica. Il capo dell'opposta fazione, il cardinale Francesco Soderini, condusse in questa occasione un attacco a fondo contro l'A., accusandolo anche di sfruttare a proprio vantaggio la sua carica ed arrivando a proporre al pontefice la confisca del patrimonio di lui. La protezione di Giulio de' Medici scongiurò tuttavia il pericolo. Alla morte di Adriano VI l'A., che era stato pronto a scovare il tesoro del defunto papa e a trasferirlo nelle casse dello stato, svendendone l'argenteria per pagare le milizie svizzere si adoperò con tutta la potenza della sua alta carica, che durante il conclave ne faceva uno dei massimi personaggi dello stato, per l'elezione del cardinale Medici. Proclamato questi, l'A. divenne per lui quello che era stato per suo cugino, Leone X, l'abile e spregiudicato consigliere finanziario, la fonte inesauribile di denaro, nelle necessità di una politica enormemente dispendiosa. Clemente VII seppe compensare l'A., proteggendone le speculazioni edilizie, che durante questo pontificato divennero una delle principali attività del cardinale perugino. Questi ottenne pure la carica di procancelliere nel 1524 e l'arcivescovato di Taranto il 15 dicembre 1525.
È, in questo periodo che l'A. raggiunse il culmine della sua fortuna, valutata a circa duecentomila ducati. Oltre alla rendita di tremiladuecento ducati, che gli corrispondevano i suoi banchieri, gli eredi di Filippo Strozzi e Luigi Gaddi, l'A. godeva delle rendite dei suoi benefici ecclesiastici, cui si aggiungevano i guadagni delle sue osterie e macellerie, gli affitti delle case di cui era proprietario in tutta la città, in Borgo, nella Città Leonina, a Montecavallo (in quest'ultima località abitava una casa dell'A. il famoso buffone della corte papale, fra' Mariano) e soprattutto i frutti crescenti delle fortunate speculazioni.
Il ritratto dell'A. tramandato dal Garimberto, come di un uomo di così sordida avarizia che "non aveva pur sofferto di mangiare una volta a sazietà, né di ricevere mai alcuna sorte di comodità", è del tutto privo di fondamento, giacché l'A. non faceva davvero eccezione alle fastose consuetudini della corte romana e il [Liber] Expensarum R. Cardinalis [Armellini] annorum 1519-1520, analizzato dal Rodocanachi, ne è la prova migliore: centotrenta servitori erano a disposizione dell'A. nel lussuoso palazzo che aveva fatto costruire in Borgo, al posto di alcune case già appartenenti all'Ospedale di Santo Spirito, e aveva fatto decorare da Martino da Parma, Giovenale da Narni e Anderlino da Mantova (questo edificio fu poi della famiglia Cesi e divenne nel 1603 sede dell'Accademia dei Lincei); gli acquisti continui di preziose suppellettili e gioielli, di cibarie e vini pregiati, di armi, cani e cavalli per la caccia, accuratamente elencati nel registro, illuminano chiaramente le abitudini dell'Armellini. "Moglie" e "padrona" dell'A., anche in questo non inferiore alle abitudini mondane degli uomini di Chiesa del suo tempo, era una certa Madonna Honesta, probabilmente già stata sua governante, che è un personaggio ricorrente nelle satire e nelle pasquinate. S'intende, però, che ben più largamente offriva materia alla satira l'A.: Pasquino lo ebbe tra i suoi bersagli favoriti e ne fece un personaggio proverbiale, con tutte le sue botteghe e taverne, il suo furore fiscale, i suoi intrighi e i suoi traffici, la sua clientela di mediatori, usurai, bifolchi, ebrei; ma l'A., uomo di molto spirito, non mancò mai di una replica pungente, di una battuta argutamente minacciosa e persino la penna corrosiva di Pietro Aretino fu incapace di scalfire la corazza di allegro cinismo del cardinale umbro.
Ma il risentimento che l'A. aveva lasciato con tanta indifferenza accumulare tra la popolazione romana contro di sé non poteva non riversarsi anche sulla persona del pontefice, e se ne videro le pesanti conseguenze allorché il partito dei Colonna, ribellatosi al papa, fu accolto nel 1526 come un liberatore dal popolo romano, che, esasperato da tante angherie e, almeno a sentire Marcello Alberini, "massime per la gravezza haveva voluto imponere sopra i vini romaneschi", si rifiutò di prestare il ben che minimo soccorso a Clemente VII e assistette passivamente al saccheggio di Roma compiuto dai Colonnesi. L'A. scrisse in questa occasione un Monitorium contra dominos Ascanium, Vespasianum et alios de Columna,... conservato nella Biblioteca vaticana (Chigiani,G. II-40, ff. 270-275).
L'anno successivo l'A. spinse il papa, dopo la effimera tregua stipulata col viceré di Napoli de Lannoy, a congedare quasi tutte le milizie pontificie e il funesto consiglio, col quale si volevano risparmiare i trentamila scudi delle paghe, ebbe la conseguenza di lasciare Roma pressocché indifesa di fronte all'assalto dell'esercito imperiale. Fu proprio sfondando un muro del palazzo dell'A. in Borgo che i primi lanzichenecchi penetrarono in città; l'A., che si era attardato a seppellire nel giardino le pietre più preziose del tesoro pontificio e i suoi gioielli, dovette fuggire precipitosamente davanti agli invasori e poté salvarsi soltanto facendosi tirare in un cesto sulle mura di Castel Sant'Angelo.
Secondo la tradizione l'A. non uscì mai dal castello: lo scempio dei suoi beni compiuto dalle soldatesche imperiali durante il Sacco lo avrebbe indotto a tal punto di disperazione da provocarne la morte poco tempo dopo, nell'ottobre del 1527. In realtà non si tratta che di una impietosa leggenda, poiché, l'A. morì l'8 genn. 1528 probabilmente di peste. Fu seppellito in Santa Maria in Trastevere, nel mausoleo che egli stesso si era fatto edificare.
Clemente VII si dichiarò erede di tutti i suoi beni, che adoperò per pagare il pesante tributo imposto da Carlo V, eccezion fatta per il palazzo in Borgo, il cui fitto di centocinquanta ducati fu lasciato come vitalizio a tre sorelle dell'Armellini.
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