TULLIO, Francesco Antonio
TULLIO, Francesco Antonio. – Nacque presumibilmente a Napoli, intorno al 1660 (come risulta dal certificato di morte; Prota-Giurleo, 1927), figlio di Giuseppe e di Giovanna Riccio, sorella del basso Giulio Riccio.
Il suo primo grande riconoscimento risale al dicembre del 1707, quando in casa del principe di Chiusano, Fabrizio Carafa, e in presenza del viceré austriaco, il conte Virico Daun, da poco insediatosi nella capitale, venne ripresa La Cilla, la commeddia pe’ museca già data nel febbraio precedente. Il testo in lingua napoletana, pubblicato sotto lo pseudonimo anagrammatico di Col’Antuono Feralintisco, è assai ricco di riferimenti alla letteratura e al teatro coevo; lo musicò e ne firmò la dedica Michelangelo Faggioli.
Già da tempo il commediografo – impegnato peraltro anche nella programmazione, nella formazione delle compagnie e nella direzione scenica, come risulta da una fonte d’archivio (cfr. Cotticelli, in Leonardo Vinci e il suo tempo, 2005) – doveva essere attivo sulle scene cittadine, forse fin dagli ultimi anni del secolo precedente. È rivelatore l’avviso ai lettori anteposto all’ultimo suo libretto, la commedia per musica Angelica ed Orlando (Napoli 1735): alludendo allo spiacevole caso di un poeta giovane che, affidatosi alla consulenza di un autore più anziano ed esperto, si era poi risentito dei copiosi interventi sul suo testo, l’estensore dell’avviso ricorda come Tullio, «dopo aver egli da ragazzetto, e fin quasi all’età matura, in private adunanze calcate le scene, e dopo aver per lo spazio di quarant’anni più commedie per musica fatte, ed avuta nei teatri una pratica continuata, oggi più che mai per non esperto a bastanza si riputava». Presi alla lettera, i riferimenti sia ai «quarant’anni» sia a un’iniziale carriera da attore in «case di particolari» (ossia in palazzi nobiliari) confermerebbero la lunga pratica tanto del genere comico per musica quanto dell’arte scenica, utile formazione per acquisire padronanza nella «comica sceneggiatura, la proprietà, la natural verisimilitudine, l’osservanza del costume, l’ordin continuato, la lepida vivezza delle parti ridicole, e la spiegazion di tutto ciò che all’assunto si attiene» (ibid.).
Il successo della Cilla ebbe notevoli conseguenze nel sistema teatrale cittadino. A partire dalla stagione 1710-11 il teatro dei Fiorentini, dove sin dalla prima metà del Seicento si erano succedute compagnie provenienti dall’Italia centrosettentrionale e dalla Spagna, oltre che indigene, con commedie premeditate e all’improvviso, comedias del siglo de oro e drammi barocchi, accolse stabilmente le commedie pe’ museca, garantendo loro spazi regolari e ottima visibilità – assai spesso i libretti sono dedicati al viceré e ai suoi familiari –, a complemento dell’offerta operistica cittadina che aveva nel teatro di S. Bartolomeo la sede del dramma per musica di soggetto storico. Di tale accresciuta frequenza delle commedie, che soddisfaceva tanto i gusti del pubblico quanto le esigenze commerciali della sala, Tullio fu uno dei pionieri, di sicuro tra i più agguerriti in termini di difesa e promozione del nuovo prodotto, in tutte le sue implicazioni formali, poetiche, linguistiche, e non senza una certa vis polemica. Nel 1710, sempre sotto lo pseudonimo Col’Antuono Feralintisco, stese per i Fiorentini le commedie Li viecchie coffejate (I vecchi gabbati; ed. in L’opera buffa napoletana, a cura di M. Colotti, I, Roma 1999, pp. 241-345) e Le fenzejune abbenturate (Le finzioni fortunate), e l’anno dopo La Cianna (incerto l’autore delle tre partiture, forse Nicola Fago).
Nel secondo decennio del secolo, senza che venisse meno il consenso degli spettatori e degli investitori, tali chéllete – ossia ‘inezie’, ‘coserelle’, come con affettata sprezzatura venivano talora designate le commedie per musica – furono al centro di un fitto dibattito tra fautori e detrattori di un genere considerato alternativo al dramma per musica di soggetto storico. Nella concorrenza sempre più intensa, spiccavano le questioni linguistiche, non senza echi dei contrasti che in campo letterario e teatrale avevano caratterizzato la Napoli del Seicento: si trattava non solo di difendere la legittimità della lingua napoletana sul terreno della poesia per musica, ma anche di individuare il registro più confacente alle situazioni che vi si inscenavano. Tullio seppe muoversi tra soluzioni opposte, nell’intento di ribadire sia la liceità del comico sia le potenzialità del napoletano.
Nel 1713 andò in scena a Sessa un dramma per musica regolare, pubblicato sotto il nome di Tullio in chiaro, Arsace il venturiero (firmò la dedica il compositore, Antonio Dolé): le parti serie dialogano in toscano, i due buffi in napoletano. Tra la primavera del 1717 e il Carnevale del 1718, di nuovo come Col’Antuono Feralintisco, e sempre ai Fiorentini, Tullio realizzò un trittico di commedie napoletane (Lo finto Armeneio, Le fente zingare e La fenta pazza co la fenta malata, musiche di Antonio Orefice) improntato a un particolare virtuosismo compositivo, così tematizzato nella Prefazione all’ultima delle tre: «Te dico sulo che ’baje conzederanno no poco sto bello trepeto [scil. treppiede] che t’ha fatto Col’Antuono nuosto, co li piede de tre ’manere, azzoè: co la primma commeddeia (che ’fuje Lo finto Armeneio) t’ha fatto a bedere comme se scrive all’uso lazzarisco; co la seconna (che ’fujeno Le ’fente zingare) t’ha fatto a canoscere ca porzì nlengua napoletana se ponno fa cose che hanno de l’arojeco e ’de lo ’nobbele; e co sta terza (ch’è La fenta pazza co la fenta malata) te fa a bedere comme se fanno le ’commeddeie grazejose e ’redicole, senza nesciun’affesa de la modesteia» (Velletri 1718).
Nell’autunno del 1718, tuttavia, con Il gemino amore (musica di Orefice), Tullio si prestò a un esperimento dettato forse dall’impresa e forse da un desiderio di autopromozione, stando a quanto dichiarato dall’appaltatore Salvatore Toro nell’introduzione: «In altra foggia compajono in quest’anno le commedie nel picciolo teatro de’ Fiorentini. Son esse passate dall’idioma napoletano al toscano, non già con azioni eroiche e regali, ma con successi domestici e familiari, ne’ quali, fra i personaggi sodi e ridicoli, si spera che riesca egualmente piacevole e la sodezza e la lepidezza». Nella stessa stagione d’autunno, con Il trionfo dell’onore – l’unica incursione nel genere comico da parte di Alessandro Scarlatti – Tullio esibì la persistenza dei soggetti spagnoleggianti (chiara l’ispirazione al Convitato di pietra, elaborato con un lieto fine). Nel Carnevale del 1719 andò infine in scena La forza della virtù (musica di Francesco Feo), con il nome di Tullio in chiaro come nelle altre due.
Il teatro dei Fiorentini tornò però presto alle commedie pe’ museca, pubblicate sotto il consueto pseudonimo. Nel settembre del 1722 debuttò La festa de Bacco (musica di Leonardo Vinci; ebbe qualche ripresa in provincia) e in novembre Li stravestimiente affortunate (Giampaolo De Dominici); nell’aprile del 1723 comparvero Le pazzie d’ammore (Michele Falco) e in settembre La Locinna (Orefice); nel Carnevale del 1724 Lo ’ngiegno de le femmene (Francesco Corradini), nell’autunno del 1726 Donna Violante (Leonardo Leo), nel 1727 Lo viecchio avaro (Giuseppe Di Majo). Frattanto nel 1724 era stato inaugurato il teatro Nuovo sopra Toledo, anch’esso dedito al genere comico. Per quest’altra sala, sempre sotto il risaputo pseudonimo, Tullio scrisse nel Carnevale del 1725 L’aracolo de Dejana («commeddeia boscareccia»; Corradini) e nel 1732 La vecchia trammera (La vecchia raggiratrice; Orefice e Leo), accanto a una ripresa autunnale aggiornata della Festa de Bacco. Notevole la capacità di trascorrere dai tipici intrecci della commedia dell’arte, che continuavano ad avere il loro seguito nel teatro coevo, alle suggestioni della letteratura drammatica d’ogni tempo, con sempre scaltrita padronanza dei meccanismi comici e dei ritmi dell’azione.
La Rosilla, tragicommedia dell’autunno del 1733 (teatro Nuovo; Orefice e Leo), comparve sotto l’anagramma Filostrato Lucano Cinneo; due anni dopo, la già citata commedia Angelica e Orlando (Fiorentini; Gaetano Latilla) sotto quello di Tertulliano Fonsaconico. Nella calibrata mescolanza di toscano e napoletano, in entrambe Tullio riprese moduli pastorali e palesò distinzione di linguaggio assai sensibile al modello instaurato da Pietro Metastasio, largamente impostosi sul palcoscenico del S. Bartolomeo sin dalla Didone abbandonata (febbraio del 1724).
Morì settantasettenne il 7 marzo 1737, alla vigilia dell’apertura del teatro di S. Carlo, che soppiantò il vecchio S. Bartolomeo. A quest’altezza cronologica, anche grazie alla produzione di Tullio, l’opera comica rappresentava in Napoli una realtà ampiamente collaudata e radicata.
Fonti e Bibl.: P. Napoli Signorelli, Vicende della coltura nelle due Sicilie, V, Napoli 1786, pp. 440 s.; B. Croce, I teatri di Napoli, Napoli 1891, pp. 237-252; M. Scherillo, L’opera buffa napoletana durante il Settecento, Palermo 1916, ad ind.; U. Prota-Giurleo, Nicola Logroscino, il dio dell’opera buffa, Napoli 1927, pp. 50 s.; E. Malato, La poesia dialettale napoletana, I, Napoli 1960, pp. 305-316; F. Degrada, L’opera napoletana, in Storia dell’opera, a cura di G. Barblan, I, 1, Torino 1977, pp. 237-332; F.C. Greco, Teatro napoletano del ’700, Napoli 1981, ad ind.; S. Capone, Autori, imprese, teatri dell’opera comica napoletana, Foggia 1992; F. Cotticelli - P. Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», Milano 1996, ad ind.; U. Prota-Giurleo, I teatri di Napoli nel secolo XVII, a cura di E. Bellucci - G. Mancini, I, 1-3, Napoli 2002, ad ind.; Leonardo Vinci e il suo tempo, a cura di G. Pitarresi, Reggio Calabria 2005 (in partic. F. Cotticelli, L’approdo alla scena. Ancora sulla nascita dell’opera buffa, pp. 397-406; P. Maione, «Tanti diversi umori a contentar si suda»: la ‘commeddeja’ dibattuta nel primo Settecento, pp. 407-439); S. Capone, L’opera comica napoletana (1709-1749), Napoli 2007, ad ind.; A. Magaudda - D. Costantini, Musica e spettacolo nel regno di Napoli attraverso lo spoglio della «Gazzetta» (1675-1768), Roma 2009, ad ind.; P. Maione, La scena napoletana e l’opera buffa (1707-1750), in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Settecento, a cura di F. Cotticelli - P. Maione, I, Napoli 2009, pp. 139-205; P. Weiss, L’opera italiana nel ’700, Roma 2013, pp. 78-80. Edizioni critiche delle opere La Cilla, La Cianna, Il gemino amore, Il trionfo dell’onore, La festa de Bacco, La Locinna, Lo viecchio avaro, Angelica ed Orlando in http://www.operabuffaturchini.it/operabuffa (18 dicembre 2019).