FRANCESCO ANTONIO Correr
Al secolo Francesco Correr, nacque a Venezia il 7 ott. 1676 da Lorenzo (1627-1709) e da Pellegrina Gussoni. Da un'opera edita da G. Fornari a Venezia nel 1712 (Gli estri del mare), a lui dedicata, sappiamo che s'imbarcò adolescente su una nave da guerra veneziana diretta in Levante per combattere i Turchi e che in uno scontro a fuoco rimase lievemente ferito.
Ritornato a Venezia nel 1701, raggiunta l'età richiesta per accedere in Maggior Consiglio, venne eletto savio agli Ordini, carica cui fu confermato nel giugno dell'anno seguente. Nell'agosto del 1702 era camerlengo di Comun, ma in ottobre cedette la carica a Girolamo Bragadin, per assumere quella di governatore di nave. Nell'aprile del 1707 era nuovamente governatore di nave e durante l'incarico ricevette dal Senato l'ordine di reggere temporaneamente il comando dell'isola di Zante, vacante per la morte del provveditore. Nell'agosto del 1708 venne eletto patron delle navi e nel giugno dell'anno seguente almirante, con la commissione di scortare i vascelli mercantili che solcavano il Mediterraneo, minacciati dalle scorrerie dei corsari. Partito da Zante con 18 navi, F. si diresse verso Malta, ma a causa di alcune burrasche dovette riparare nel porto di Reggio Calabria. Si spostò quindi a Messina per scortare un convoglio diretto a Livorno; durante il viaggio inseguì inutilmente alcuni vascelli corsari. Ritornato nel mar Adriatico e giunto a Corfù, nel giugno del 1711 ricevette dal Senato la notizia di essere stato eletto consigliere per il sestiere di San Marco. Il gennaio seguente era nuovamente patron delle navi e nel 1717, in rapida successione, almirante e capitano ordinario delle navi.
Nel frattempo la guerra contro il Turco aveva raggiunto la sua fase più cruenta e decisiva. Nel luglio del 1717 F. soccorse il capitano straordinario delle navi Ludovico Flangini, che al largo dell'isola di Zante era stato attaccato dalla flotta turca, e con un'azione brillante riuscì a mettere fuori combattimento la nave ammiraglia nemica. Nell'inverno del 1717, dopo quattordici anni di ininterrotto servizio, rientrò per un breve periodo a Venezia, ma nell'aprile successivo era già di ritorno a Corfù, in tempo per prender parte agli ultimi combattimenti. Durante le trattative di Passarowitz F. partecipò all'ultimo scontro navale, avvenuto nel golfo di Pagania dal 20 al 22 luglio 1718. I combattimenti, che durarono tre giorni, videro inizialmente un incontrastato successo dei Turchi, soprattutto a causa dell'inerzia e delle indecisioni del comando supremo veneziano. Nei primi due scontri F. aveva dovuto assistere impotente all'abile manovra della flotta nemica, che con una mossa a sorpresa aveva concentrato tutte le proprie forze contro la testa dello schieramento veneziano, danneggiandolo seriamente, ma nel terzo combattimento si dirigeva di propria iniziativa verso la parte alta dello schieramento veneziano, ingaggiando un furioso combattimento e costringendo infine i Turchi a ripiegare con notevoli perdite.
Rientrato a Venezia a guerra ormai conclusa, nel settembre 1721 venne eletto provveditore all'Arsenale e nel giugno 1722 deputato al Militar. Nell'agosto seguente fu tra i quaranta elettori del doge Alvise (III) Mocenigo e in settembre entrò nella zonta del Senato. Nell'agosto 1723 fu consigliere dei Dieci, ma nel novembre successivo gli giunse la nomina di provveditore generale da Mar.
In tale carica si occupò dell'amministrazione delle isole di Zante, Cefalonia e Corfù. Nella prima riscontrò notevoli disordini nell'amministrazione della giustizia civile e penale. F. fece fronte con prontezza ai notevoli scompensi giudiziari, ma suggerì, come rimedio indispensabile per conseguire una buona amministrazione, l'affidamento del comando ad uomini di provata "esperienza di governo". A Cefalonia trovò una situazione alquanto migliore, grazie alla buona amministrazione del provveditore G. Boldù. Nelle tre isole c'erano circa 3.000 banditi, di cui solo una parte si era allontanata, mentre la maggioranza viveva "nelli rittiri delle campagne, dove difficilmente può giungerli la mano della giustizia; e se anco potesse arrivarvi, giova dissimulare la loro disobbedienza per non perdere un numero grande di gente utile alla popolazione e coltura delle isole". Poiché queste persone rimanevano esenti dal pagamento di qualsiasi imposta F. concesse un perdono generale.
Rientrato in patria, nel marzo del 1727 venne eletto capitano di Padova.
F. iniziò la sua attività solamente nell'ottobre dell'anno seguente e la terminò nel gennaio del 1730, avendo avuto come collega P. Donà. Inizialmente fu occupato a far fronte alle inondazioni dei fiumi, causate dall'abbondanza delle piogge autunnali e primaverili. Altro suo impegno fu quello di passare in rassegna le milizie del territorio, nei quattro luoghi di Este, Monselice, Piove di Sacco e Camposampiero. In tale occasione notò come gran parte dei contadini chiamati a far parte delle "cernide" non comparissero affatto e coloro che ubbidivano "non aplicano a ciò che viene loro insegnato perché operano contro lor voglia". Le pene che di solito si comminavano contro i renitenti servivano a poco, poiché in gran parte costoro erano "figli di famiglia". Nell'impossibilità di aumentar loro le paghe, F. sconsigliò ogni forma di repressione in quanto controproducente, osservando che la popolazione della Terraferma costituiva "un corpo di cui bisogna farne stato" e la Repubblica avrebbe dovuto trovare la sua difesa più valida nei propri sudditi.
F. dovette inoltre occuparsi dell'ordine pubblico nel territorio e nelle piccole podesterie limitrofe, soprattutto a Montagnana e Cologna, dove avvenivano numerosi furti, ma aveva a sua disposizione una sola compagnia di soldati, spesso richiesta simultaneamente da più parti. Nell'autunno del 1728 si dedicò a un affare importante come la riscossione dei dazi, che portò a termine con grandi difficoltà.
Mentre ancora svolgeva il suo incarico a Padova, ritenendo di esserne ben meritevole, F. fu candidato all'elezione di bailo a Costantinopoli. Non aveva però fatto i conti con i contrastanti interessi delle fazioni politiche del patriziato veneziano, e a lui venne preferito Angelo Emo. Tale rifiuto, che sopraggiunse forse al culmine d'una tormentata crisi interiore - la stessa richiesta d'essere eletto bailo di Costantinopoli, lontano dai giochi di potere della Dominante, è a tal proposito indicativa - spinse F. ad abbandonare la carriera politica e a vestire l'abito religioso dei cappuccini.
Dopo un incontro con il padre provinciale dell'Ordine, Giovan Maria Zane, che era stato cappellano della sua nave, e una visita al santuario di Loreto, ricevette in breve tempo gli ordini sacri. Andò quindi a Bassano, dove il 21 apr. 1730 vestì l'abito cappuccino, aggiungendo al nome di Francesco quello di Antonio. Lì celebrò la sua prima messa e, terminato il periodo di noviziato, il 22 ottobre dello stesso anno fece la solenne professione di rito.
Nel convento di Bassano trascorse quasi quattro anni, conducendo una vita esemplare, ma il rimpianto di quella trascorsa non l'aveva forse abbandonato del tutto se nel 1734, alla morte del patriarca di Venezia, Marco Gradenigo, egli accettò che il suo nome figurasse tra quelli degli aspiranti alla successione. Eletto dal Senato il 20 nov. 1734, il 30 genn. 1735 fu consacrato, nella chiesa del Redentore, patriarca di Venezia.
L'elezione di F. giungeva in un momento assai critico della vita religiosa della città: il precedente patriarca aveva badato assai più a far rivivere lo splendore e la magnificenza dell'incarico, avvalendosi tra l'altro di generose dispense di denaro ai poveri, che non a riformare i costumi rilassati e licenziosi di gran parte del clero cittadino. Il contegno di F., improntato alla serietà dei costumi ed indirizzato a rinnovare l'austera memoria del patriarca Pietro Barbarigo, era destinato a scontrarsi, da un lato, con l'insaziabile sete di divertimenti del popolo e, dall'altro, con l'ovattato ambiente politico-religioso, contrario ad ogni decisa riforma che sconvolgesse il quieto vivere della città. Già a pochi mesi dalla sua elezione tra il popolo di Venezia correva la voce che "per riscuotere il Patriarca era Corraro e per far lemosina si iscusava coll'esser capucino".
Durante i sei anni di patriarcato F. consacrò numerose chiese veneziane, tra cui quelle di S. Salvatore, S. Simone e S. Taddeo. Dal 18 al 20 apr. 1741 tenne un sinodo diocesano che, seppur non ebbe larga rinomanza, regolò la vita del patriarcato sino al 1865. Gli Acta et decreta Synodi Venetae (1741) sono informati da uno spirito clemente e longanime verso il clero e i fedeli.
L'impegno più assiduo F. lo dedicò a porre un freno alla licenziosità e alla scostumatezza - ormai proverbiali - che correvano all'interno dei monasteri femminili. I suoi interventi assai rudi e d'impronta militaresca, non inclini al compromesso, sconvolsero a più riprese la vita, fino ad allora assai tranquilla, della città.
Tra i casi più rilevanti che suscitarono scandalo e vociferazioni è da ricordare quello avvenuto nel convento del Corpus Domini, le cui monache, nonostante il divieto delle leggi in materia e l'opposizione del patriarca, avevano insistito perché una loro consorella defunta, Maria Rubbi, di origine "cittadina", nonostante non avesse ancora vestito l'abito sacro, fosse sepolta all'interno del convento. F. reagì immediatamente con rigore e decisione inaspettati e scomunicò tutte le monache per infranta clausura. Memorabile fu l'episodio verificatosi nell'autunno del 1735 nel monastero di S. Lorenzo - dove abitualmente prendevano i voti le appartenenti alle famiglie patrizie della città - e che ebbe come protagonisti la monaca Maria da Riva, di nobile famiglia, e l'ambasciatore francese a Venezia Ch.-Fr. de Froullay, tra i quali correva da tempo una relazione amorosa. Lo scandalo era rimasto a lungo sopito, fino alla nascita di un bambino, fatto sparire dall'ambasciatore stesso; F. intervenne con decisione presso la monaca, ordinandole di interrompere la relazione. Il fatto era però più grande di lui e l'interesse politico in gioco più importante di ogni considerazione morale e, di fronte all'imposizione degli inquisitori di calmare le acque, dovette chinare il capo e rinunciare al proposito di trasferire la da Riva in un altro convento.
L'ultimo contrasto, che fu per lui fatale, avvenne nel 1741 con le monache del convento di S. Girolamo, che si erano opposte alla sua decisione di sospendere a divinis un loro mansionario ed erano ricorse con una supplica al Consiglio dei dieci, ottenendone ampia soddisfazione. Avvilito, F. decise di allontanarsi momentaneamente dalla città per recarsi nel palazzo di famiglia di Altaura, presso Montagnana, dove morì "in due giorni di colpo apopletico e da certo infiammato vapore" il 17 maggio 1741. Traslato a Venezia, ricevette solenni esequie e venne sepolto nella chiesa patriarcale.
La morte repentina e i sintomi della malattia che la accompagnarono diffusero la voce - non suffragata da prove - che egli fosse stato avvelenato, "tradito da persona corrotta" inviata dal Froullay non dimentico dei torti subiti.
Il patrimonio della famiglia di F. era assai consistente ed egli, alla morte del padre, aveva ricevuto in eredità una rendita annua di 1.201 ducati.
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