ARPAIA, Francesco Antonio
Nacque nel 1587 a Napoli da un "vardaro" (bastaio), che aveva bottega nella piazza del popolarissimo quartiere Mercato. Fu schermitore di professione, tra i più noti del suo tempo a Napoli, e forse fu anche uomo di legge. Nipote di Giulio Genoino, fu tra i più fedeli sostenitori di lui nel programma di riforma della municipalità napoletana a favore delle classi medie cittadine, che quello tentò di realizzare nel 1620, con l'appoggio del viceré Ossuna, e poi ancora durante i drammatici avvenimenti del 1647. Appunto su proposta del Genoino l'A. fu nominato dall'Ossuna il 12 maggio 1620 capitano del quartiere Mercato; sei giorni dopo la Piazza lo elesse anche in un comitato incaricato di appoggiare il Genoino nelle contese con gli Eletti della nobiltà. In questo periodo l'A. fu il principale organizzatore di una grossa manifestazione popolare contro i "galantuomini". Quando l'Ossuna fu sconfessato dalla corte spagnola e deposto. dalla carica, prese le opportune misure perché il Genoino e l'A. sfuggissero alle vendette dei nobili, facendoli imbarcare segretamente il 9 giugno 1620alla volta della Spagna. Era intenzione dei due di presentarsi al re Filippo III per giustificare il proprio operato, ma, in seguito ad una sentenza dei tribunali napoletani, il 26 ottobre essi furono arrestati a Madrid. Nell'ottobre dell'anno successivo fu disposta dalla corte una revisione del processo e il trasferimento dei prigionieri a Napoli. Il nuovo processo si concluse negli ultimi giorni del dicembre 1621, con una sentenza che condannava l'A. a dieci anni di galera.
Per lunghi anni, a partire dalla fine della pena, nulla si sa dell'attività dell'A., se non che fu assunto al servizio di un mercante di Aversa, tale Andrea di Terza di Lauro, che gli affidò l'incarico di vicebarone della terra di Teverola. Nei primi giorni dei moti napoletani del 1647 G. Genoino propose l'A. a Masaniello, presentandolo come persona di grande fiducia e vantandone l'origine popolare e le benemerenze acquisite nel 1620. Masaniello accettò il suggerimento e fece proclamare "a voce pubblica" Eletto del popolo l'Arpaia.
Nei giorni tra l'elezione e la morte di Masaniello l'A. collaborò assiduamente col Genoino, specialmente controllando la elaborazione dei capitoli, nei quali il viceré doveva soddisfare le richieste popolari. I capitoli, giurati dal viceré nel duomo il 13 luglio, assicuravano alla Piazza popolare il controllo sull'elezione del proprio rappresentante, la parità dei voti con la rappresentanza nobiliare, l'abolizione delle gabelle stabilite nell'ultimo secolo e il bando di alcuni esponenti della parte nobiliare. Queste conquiste erano tuttavia precarie: si era in una situazione estremamente fluida, con il viceré costantemente spronato a una massiccia repressione dai nobili, colpiti nei loro tradizionali privilegi, e dagli speculatori, che si vedevano costretti a rinunziare agli ingenti guadagni delle gabelle abolite, con il popolo in armi, infine con gli emissari francesi che sobillavano la plebe. In questo clima la politica di legalizzazione dell'insurrezione, ispirata dal Genoino e corrispondente agli interessi delle classi medie, ebbe nell'A. un accorto esecutore: si trattava di consolidare le conquiste sancite dai capitoli, che a grandi linee corrispondevano a quelle ottenute dal popolo napoletano ventisette anni prima, col viceré Ossuna.
Sin dal primo momento l'A. si dimostrò abilissimo politico. Egli dovette affrontare immediatamente il grosso ostacolo costituito da Masaniello, le cui stravaganze, e i cui eccessi non potevano evidentemente conciliarsi con un programma di pacificazione. Gli esponenti delle classi medie, particolarmente i capitani di ottina e i negozianti, facevano pressioni sempre più insistenti sull'A. perché si trovasse un rimedio. Finalmente, il 15 luglio, previo accordo con il viceré, che garantì il rispetto dei privilegi giurati, l'A. e il Genoino convocarono l'assemblea delle ottine, ottenendone la revoca dal comando del "generalissimo", in sostituzione del quale l'assemblea decise che lo stesso A. dovesse "per l'interim gobernare". Il giorno dopo Masaniello fu assassinato nella cella del monastero del Carmine, dove era stato ospitato.
Le fonti sono contrastanti circa la partecipazione dell'A. al complotto; in definitiva tutto lascia supporre che egli non vi prese parte: il suo atteggiamento costantemente moderato, l'opera assidua che insieme con il cardinale Filomarino prestò in aiuto della vedova di Masaniello, i suoi interventi a favore del cognato e del fratello di Masaniello, trattenuti in carcere e liberati per sua iniziativa il 6 agosto.
Nei giorni successivi alla morte di Masaniello l'attività dell'A. fu tutta rivolta a ristabilire l'ordine e a togliere i motivi di nuovi tumulti popolari.
La sua prima preoccupazione fu quindi quella dell'approvvigionamento di Napoli e della riduzione dei prezzi dei commestibili: ordinò un inventario nei magazzini del Mercato; compilò ed emanò il 23 luglio nuove tabelle con le quali si stabiliva l'atteso ribasso; il 20 agosto, con un decreto, diminuì del 30% le affittanze dei Giardini; il 25 agosto mandò a Portici alcuni uomini per impadronirsí del principe di Minervino, il quale non aveva mantenuto la promessa di mandare centomila tomole di grano al popolo napoletano. Per ristabilire l'ordine dispose l'inquadramento del popolo sotto il comando dei capitani di ottina, posti direttamente alle dipendenze del viceré, e proibì la circolazione in armi da quartiere a quartiere sia dei nobili sia dei popolari.
Guadagnatasi la fiducia del viceré, fu questo il primo importante successo della sua politica in difesa degli interessi del "popolo civile", che, economicamente assai debole e socialmente poco omogeneo, mancava della forza, del prestigio politico e della fiducia necessari a condurre più a fondo la lotta contro i privilegi della nobiltà e solo si preoccupava di conservare con l'appoggio spagnolo i risultati conseguiti. Politica che doveva necessariamente essere accolta con sospetto dalla plebe napoletana, dopo la morte di Masaniello divenuta sempre più timorosa di una repressione organizzata dal viceré e dalla nobiltà e ossessionata dall'idea di un tradimento dei suoi stessi capi.
Nei giorni 22 e 23 luglio scoppiarono nuovi tumulti diretti particolarmente contro il Genoino e l'A., quest'ultimo, spalleggiato da molti elementi del "popolo civile", riusci a ristabilire la calma. Il "popolo civile" stabilì allora di darsi, in appoggio all'A., una effettiva organizzazione militare. Il viceré, il 29 luglio, aderì alla richiesta e affidò all'A. l'incarico di armare i suoi partigiani con le armi di Castel Nuovo. Lo stesso Arcos il 1º agosto provvide a confermare l'A. nella carica di Eletto, secondo la procedura tradizionale, e gli affiancò come consultori quattro avvocati di buona fama. L'A. proseguì intensamente nella sua attività, ottenendo però soltanto brevi pause nei tumulti popolari.
Le notizie che giungevano a Napoli sull'insurrezione nelle province e la propaganda di elementi francesi, savoiardi e piemontesi, in gran numero residenti nella città, offrivano alla parte più turbolenta dei popolari nuove prospettive di lotta alle quali si rifiutavano e il "popolo civile" e i suoi esponenti del momento, l'A. e il Genoino. Appunto l'impossibilità dei due a venir meno nella fedeltà al governo spagnolo, che costituiva un punto essenziale del loro programma moderato, li rese invisi alla plebe. Quando poi l'A. e il Genoino, probabilmente per richiesta del viceré' sostennero la revoca del bando contro il presidente della Sommaria F. Cennamo, ritenuto ostilissimo alla plebe, sembrò raggiunta la prova del loro tradimento: il 21 agosto scoppiarono nuovi tumulti, diretti principalmente contro di loro. Soltanto con molta fatica l'A. e il Genoino riuscirono a rifugiarsi in Castel Nuovo. Il viceré poté stabilire una tregua il 23 agosto e l'A., uscito dal castello, parlò alla Piazza riunita in S. Agostino. Nell'assemblea prevalsero gli elementi moderati, che decisero, però, di sacrificare all'animosità popolare il Genoino. Nei nuovi accordi stipulati tra il viceré e la Piazza il 31 agosto si stabiliva infatti l'espulsione del Genoino e di due suoi nipoti "come falsi machinatori contro il popolo e contro il regno"; invece l'A. veniva confermato negli "stessi offici et carrichi come prima" e, anzi, a riprova del suo riconquistato prestigio, mentre si stabiliva un indulto generale, se ne escludevano coloro "che machinorno di ammazzare il Magnifico Francesco Antonio Arpaia".
L'A. continuò il suo programma politico, rimanendo il più fedele custode ed esecutore del pensiero del Genoino per un suo punto essenziale, che era quello di evitare che l'intervento interessato di stranieri deviasse la lotta del popolo napoletano per le riforme dell'amministrazione e del sistema fiscale in una rivolta contro il dominio spagnolo. L'Eletto, prese provvedimenti drastici contro ogni tentativo di rompere la pace dopo la stipulazione dei nuovi capitoli, giungendo a condannare a morte, con un bando del 10 settembre, coloro che fossero sorpresi a "glossare" i capitoli stessi. Altre deliberazioni coerenti col suo programma moderato non potevano essere condivise dagli estremisti, i quali ormai operavano con la prospettiva di una definitiva rottura con gli Spagnoli. L'esponente principale di essi, Gennaro Annese, che era allora castellano del torrione del Carmine, ebbe il 18 settembre un violento scontro con l'A., che avrebbe voluto ritirare parte della polvere in dotazione al torrione. L'episodio fu il segno di una definitiva rottura tra l'A. e gli estremisti ormai decisi a combattere ad oltranza, fiduciosi nell'aiuto del duca di Guisa. Il 29 settembre scoppiarono nuovi tumulti, particolarmente nella contrada del Lavinaro, con a capo l'Annese. Riuscito inutile ogni tentativo di pacificazione, l'A. e i suoi partigiani decisero di colpire definitivamente gli estremisti mettendo a sacco il Lavinaro. A favore dell'A. si organizzarono i quartieri della Conceria, delle Vergini, di S. Giovanni a Carbonara e la "gente civile" di Porta Capuana, di S. Maria Nuova e del Gesù Nuovo. Tuttavia si volle attendere l'imminente arrivo di don Giovanni d'Austria sul cui prestigio si contava per ristabilire la calma.
Secondo la de Lussan, don Giovanni giunto con la flotta il 3 ottobre, e il viceré offrirono 100.000 ducati all'A. perché inducesse il popolo all'obbedienza. L'A. sperò di ottenere un compromesso accettabile che salvasse le principali conquiste popolari, fidando sull'orientamento del "popolo civile" e sulla buona volontà di numerosi esponenti spagnoli, tra i quali lo stesso don Giovanni, che miravano a scongiurare il pericolo di un intervento francese nella contesa. In realtà, il viceré, reso sicuro dall'arrivo dell'armata, non era più incline a concessioni, mentre la plebe, esasperata dal diffondersi di voci della propaganda antispagnola di una feroce repressione preparata da don Giovanni e dalla nobiltà, non era disposta a cedere le armi.
Il tentativo dell'A., che cercò di convincere la Piazza a contentarsi dell'abolizione delle gabelle, della parità di voti con la nobiltà e dell'indulto generale, non ebbe successo. A fatica l'A. fu sottratto alla folla inferocita dai suoi partigiani. Tra gli Spagnoli l'insuccesso dell'A. segnò il prevalere di quanti sostenevano l'opportunità di una massiccia repressione.
Il viceré il 5 ottobre propose all'A. di richiedere ufficialmente, nella sua qualità di Eletto, e a nome della cittadinanza, l'occupazione militare di Napoli, come solo mezzo per ristabilire l'ordine e la pace. Al rifiuto dell'A. lo fece arrestare e gettare nella "Fossa del Miglio", in Castel Nuovo, dove l'A. rimase sino alla fine di ottobre, allorché fu trasportato prigioniero in Sardegna e poi in Spagna. Da Cadice l'A. fece pervenire al Consiglio di stato un'istanza, chiedendo di essere condotto a Madrid dal sovrano. L'istanza, discussa il 29 ott. 1648, non ebbe esito favorevole. Il Consiglio di stato decise che l'A. fosse trasferito nella fortezza di Orano, dove morì poco dopo.
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