Algarotti, Francesco
Non può certo affermarsi che l'opera di D. rientri nell'ambito dei più vivi interessi del letterato e critico veneziano F.A. (1712-1764), o ne costituisca un punto di raffronto, un riferimento ideologico sicuro. Per la sua posizione di moderata adesione alle idee illuministiche l'A. era portato a condannare la tradizione accademica e con essa D., Petrarca e Bembo. Ma proprio l'esigenza di concretezza, la perseguita identità di parola e pensiero, vale a dire le richieste più urgenti della nuova cultura in fatto di lingua, di espressione, di sintassi, riproponevano alla sua attenzione l'esempio dello stile dantesco che, seppure al di fuori di una consapevolezza teorica (" Quello che Cesare disse, che nelle scritture conviene schivare come scogli le parole insolite, convien dire nella poesia delle parole che contengono idee astratte: e se pure occorre talora usarle, si vorrebbe dar loro corpo, e personalizzarle... Codesta metafisica poetica era ignota agli antichi, e non entrò mai certamente negli studi di Dante, del quale peraltro fu ammiratore e imitatore il Miltono "; da una lettera a Vincenzo Corazza del 10 dicembre 1755) sapeva trasformarsi " nelle cose medesime " e giungere per tal via " alle altezze più sublimi dell'arte " (Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua, 1750).
A conferma di ciò in diverse riprese l'A. riconobbe a D. " una fantasia oltre ogni credere vivace e gagliarda " (Saggio sopra la lingua francese, 1750), " maniere vive, profonde, brave, colle quali... egli ha ingagliardito la nostra poesia " (Saggio sopra Orazio, 1760), un " modo risoluto e franco di poetare " (Saggio sopra la pittura, 1762), proposizioni critiche accorte e incisive alle quali - meglio che agli appellativi di " padre, re, creatore della nostra lingua ", " signore del canto " e altre simili, molto ricorrenti - occorre rifarsi per cogliere gli aspetti più validi del suo giudizio. Sotto questo rispetto il testo forse più significativo è una lettera al marchese Manara del 6 ottobre 1759, nella quale, in tema di rapporti fra lo stile di Virgilio e lo stile di D., sulla base della comune obbedienza al principio dell'ut pittura poesis, il carattere peculiare della scrittura dantesca viene fissato nell'uso di immagini vive, intense, rapide, di un disegno vigoroso e sintetico, tanto diverso dal minuto (talora miniaturistico) descrivere caro all'Arcadia: " Si appigliò Dante, spirito fiero e bizzarro, a quest'ultima maniera, che in quattro pennellate ti forma una figura ". Né meno sagace si dimostra l'A. nel compiere, a proposito dell'impegno scientifico della Commedia, un tentativo di ambientazione culturale e di giudizio storico: " Noi diremo, stando dentro a' termini del ragionevole, ch'egli era senza dubbio nelle scienze ch'a' suoi tempi correvano dottissimo... delle quali scienze ha voluto condire anch'esso, e quasi imbalsamare i suoi versi. Ma quel balsamo sembra ad alcuni gittato a mani troppo piene, ed anche avere, più che non sia mestieri, del vieto e del rancido. Se non che non ebbe in ciò colpa niuna il nostro poeta, mentre le droghe ch'egli avea alle mani nè così odorose sono nè così saporite, com'erano quelle di Virgilio ".
E pure è dato avvertire dietro l'ammirazione o per lo meno dietro il beneplacito teorico dell'A. per il " forzuto stile " dantesco, una punta di riserva, un ritegno cauteloso, che già nel 1746 aveva provocato il consenso dell'arcade Metastasio (" ... a dispetto della profonda venerazione che voi ed io abbiamo per il nostro Dante, non ci sarà possibile che ci riduciamo a scrivere: E quello che del cul fece trombetta "), sebbene il gusto algarottiano si riveli in definitiva di molto più avanzato e più aperto alla realtà, entro i limiti del buon senso e del razionalismo settecentesco, che non quello dell'abate romano.
Che l'A. abbia partecipato alla polemica antidantesca del Bettinelli (v.), è punto controverso. Il terreno delle relazioni tra i due letterati è tuttora poco esplorato.
Il Bettinelli intrecciò laboriose trattative con l'A. per ottenere il permesso di stampare i versi di lui nella nota raccolta che doveva portare come premessa le Virgiliane. In data 19 ottobre 1757 gli scriveva: " Quanto a me, per ora nulla so nè saper voglio di Dante. Parvi egli buon senno scrivere contro Dante, e violare con man profana quel nume sì reverendo e sì antico? Povero me, se a tanto oltraggio sacrilego osassimo di giungere! Oltre di che Dante fu certo un grandissimo ingegno e un grand'uomo, ed io lo venero forse quanto il vostro Bresciani il divin suo Platone, il divinissimo Aristotile suo ".
Lo scottante argomento aveva dunque costituito ragione di attrito tra i due e sotto le righe rassicuranti del Bettinelli non è difficile avvertire un pungente tono ironico. Fatto sta che la raccolta uscì sul finire del 1757 comprendendo anche i versi dell'A., il quale risultò implicitamente coinvolto, agli occhi del pubblico, nella coraggiosa operazione critica bettinelliana; anzi potè perfino circolare il sospetto che proprio lui fosse l'autore delle Virgiliane. Irritatissimo, l'A. scrisse al Lami perché pubblicasse nelle Novelle Letterarie le sue scuse e l'attestazione della sua deferenza a D., e inoltre inviò a M.me du Boccage una lettera di smentita, con la preghiera di farla apparire sul Mercure. In questa lettera, datata 28 dicembre 1758, che poi mise in testa alle proprie Epistole in versi edite poco più tardi, egli denuncia di essere stato ingannato dal Bettinelli, protesta la sua buona fede e afferma di non volere in nessun modo venir considerato " uno de Triumviri letterari che riformare intendono la poesia italiana, e proscrivere quegli autori che sono principio della nostra favella ". E aggiunge: " Dante, poeta veramente sovrano, benché surto in tempi ancor rozzi, si dee avere in grandissima riverenza; e si vuole pertinacemente studiare da chiunque aspira tra noi alla forte poesia".
Per tutta risposta il 15 settembre 1759 il Bettinelli comunica all'A. di aver veduto la nuova edizione dei suoi sciolti con la lettera a M.me du Boccage, di essere rimasto lieto dei versi ma di aver preso " qualche cruccio " della lettera. Seguita con tono piuttosto duro e brusco, alludendo a certe malignità di meschini scrittori (i Gozzi) e pregando l'amico di finirla con le proteste e di credere alla sua stima. In fine, a mezzo di un poscritto, gli annuncia di trasmettergli copia di una lettera ricevuta dal Voltaire. Era una mossa abile e provocatoria, in quanto quella lettera conteneva forti riserve sull'onestà e sincerità critica dell'A.: " Algarotti a donc abandonné le Triumvirat comme Lépidus. Je crois que dans le fond il pense comme vous sur le Dante: il est plaisant que même sur ces bagatelles un homme qui pense n'ose dire son sentiment qu'à l'oreille de son ami. Ce mondeci est un pauvre mascarade ".
Probabilmente la lettera al Manara più su citata faceva appunto parte di un'accorta manovra intrapresa dall'A. per respingere le insinuazioni dei suoi nemici. Ma l'incognita circa il suo sentire profondo permane, né serve a dissiparla la frettolosa nota al Bettinelli del 24 settembre 1759 che conclude la disputa: " Non altro fine ho avuto nel far questo che togliermi fuori, dicendo il vero, da una briga nella quale m'involgevano, e dove in realtà io non dovevo entrare per niente. Ciò fatto nulla più mi resta da fare. Se a lei pare che io abbia fatto troppo, consideri, che troppo ancora mi dovea increscere di vedermi per li pensamenti e le opinioni altrui bersaglio alla critica, e al furor letterato ". E sarà da ricordare che ancora nel 1777 il Baretti, rivolgendosi al Voltaire nel Discours sur Shakespeare, mostra di accomunare Bettinelli e A. nella disistima e incomprensione verso il poeta fiorentino: " Il méprisait Dante, qu' il n'entendait guère plus que vous entendez Confucius... Mais à propos de ce Dante, que l'ignorant Algarotti méprisait si fort... ".
Bibl. - F. A., Opere, a c. di F. Aglietti, Venezia 1794; ID., Saggi, a c. di G. Da Pozzo, Bari 1963; E. BouvY, La critique dantesque au XVIII siècle: Voltaire et les polemiques italiennes sur D., in Voltaire et l'Italie, Parigi 1898 (v. rec. di L. Ferrari, in " Bull. " VII [1899-1900] 288-289, e di E. Bertana, in "Giorn. stor. " XXXIII [1899] 406-414; A. Neri, L'A. e i " versi sciolti di tre eccellenti autori", in " Rass. bibliografica lett. ital. " IX (1901) 68-73 (v. rec. di M. Barbi, in " Bull. " VIII [1900-1901] 332-334); G. Zacchetto, La fama di D. nel sec. XVIII, Roma 1900; F. Sarappa, La critica di D. nel sec. XVIII, Nola 1901; M. Barbi, La fama di D. nel Settecento, in Problemi I 455-472; A. Farinelli, Voltaire et D., estratto da " Studien zur vergleichend Literaturgeschichte" 1906 (v. rec. di V. Cian, in " Bull. " XIII [1906] 219); C. Calcaterra, rec. all'edizione delle Lettere Virgiliane e Inglesi di S. Bettinelli, a c. di V.E. Alfieri, in " Giorn. stor. " XCVII (1931); ID., Madame Du Boccage e l'A.; F. A. nel secondo centenario della nascita, in Il Barocco in Arcadia e altri scritti sul Settecento, Bologna 1950.