CAMILLA, Franceschino da
Figlio di Guglielmo, nacque a Genova in data a noi ignota, ma probabilmente non molto dopo il primo ventennio del secolo XIII. Apparteneva a una delle più antiche famiglie cittadine che, grazie all'influenza politica acquistata via via nell'esercizio del consolato e al cospicuo patrimonio finanziario costituito con un'intensa e fortunata attività commerciale svolta in Oriente, poté svolgere molto presto un ruolo primario nel gioco delle fazioni comunali. È nel corso dell'anno 1246 che il C. viene ricordato per la prima volta nelle fonti a noi note, in occasione delle trattative intercorse fra i gruppi dirigenti e imprenditoriali genovesi e il re Luigi IX di Francia per il trasporto e i servizi logistici da fornire all'imminente crociata (la sesta); dai contratti di noleggio conclusi in quell'anno risulta infatti che il C. e suo padre offrirono due navi per 4.000 tornesi l'una e che si impegnarono anche ad allestire quattro taride. È probabile che anche in seguito il C. abbia mantenuto rapporti di affari con le piazze francesi, dove dovette compiere altre operazioni finanziarie di vario genere: sappiamo infatti che nel luglio del 1253 concedeva un mutuo a breve termine al gran maestro dell'Ordine dei templari in Francia (1.670 tornesi), e che nel dicembre di quel medesimo anno nominava tre procuratori, i quali si facessero consegnare - a suo nome - la somma prestata. Nel 1267, consigliere del Comune come rappresentante della nobiltà, il C. fu inviato a Costantinopoli in qualità di nunzio e legato presso l'imperatore Michele VIII Paleologo, in un momento particolarmente delicato per le relazioni fra Genova e l'Impero d'Oriente. Dopo il periodo di aspra tensione, culminato nel decreto di espulsione dei Genovesi dal territorio bizantino, Michele VIII di fronte al pericolo rappresentato dall'accordo che si andava delineando tra Carlo d'Angiò e Venezia - accordo di cui erano evidenti le finalità antibizantine - si era visto costretto ad avviare trattative diplomatiche che preludevano ad un riavvicinamento con la Repubblica ligure. Era infatti giunto a Genova un suo rappresentante che, in una serie di colloqui preliminari, aveva posto le basi per un nuovo trattato di alleanza tra le due potenze. Così, mentre Carlo I d'Angiò re di Sicilia concludeva con Baldovino II, già imperatore latino di Costantinopoli, una convenzione in cui, riconoscendo gli antichi diritti commerciali dei Veneziani in Oriente, prometteva allo spodestato sovrano aiuti nella sua guerra contro il Paleologo (marzo 1267), il C., cui era stato affidato il difficile compito di ristabilire anche formalmente i buoni rapporti col sovrano bizantino, riuscì a strappare, in cambio di un'alleanza, un favorevole accordo commerciale. Vennero confermati i privilegi e le agevolazioni concesse alla Repubblica dal trattato del Ninfeo, stipulato fra Genova e il Paleologo nel 1261, e riconosciuto, in particolare, il diritto dei Genovesi di avere una loro base commerciale nella stessa Costantinopoli con la cessione alla Repubblica ligure del sobborgo di Pera. Il successo clamoroso avuto dalla missione accrebbe la fama del C. e pose le basi della sua fortuna politica: confermato consigliere del Comune per il 1268, nel 1269 venne scelto per capeggiare una nuova ambasceria all'imperatore bizantino, ambasceria che non venne tuttavia compiuta, sia per l'improvviso precipitare della situazione politica nel bacino del Mediterraneo sia per altre ragioni a noi non ben note (si disse, tra l'altro, che il C. non poté prendere il mare a causa della morte del "patrono" della nave su cui si sarebbe dovuto imbarcare).
Il 2 luglio 1270 era infatti partita da Aigues-Mortes, sotto la guida del re di Francia Luigi IX e su navi fornite da Genova, la spedizione crociata, alla quale partecipava anche un contingente genovese forte di diecimila uomini e di cinquantacinque navi da guerra. Dopo una sosta di due giorni nel porto di Cagliari, la flotta crociata, giunta davanti alle coste tunisine, aveva gettato le ancore nella rada di Cartagine. Qui il corpo di spedizione, sbarcato, aveva posto i suoi accampamenti, e qui i reparti genovesi si erano eletti come loro consoli Ansaldo Doria e Filippo Cavarunco.
Questi fatti, così come le notizie del mutato obbiettivo della crociata (ora deviata verso zone tradizionalmente aperte alla pacifica penetrazione commerciale genovese), e delle operazioni d'assedio iniziate contro il castello di Cartagine e contro la stessa Tunisi, dovettero destare serie preoccupazioni negli ambienti responsabili della Repubblica non solo per le conseguenze che tali avvenimenti avrebbero avuto sui buoni rapporti che avevano sempre legato Genova ai principati arabi dell'Africa settentrionale. Così, sul finire di agosto, le autorità municipali nominarono il C. "presidem omnium Genuensium" arruolati fra i crociati, "acciò li comandasse tutti e li governasse con giustizia". Imbarcatosi su di una nave armata per l'occasione, il C. raggiunse Tunisi il 7 settembre: solo al suo arrivo venne informato della morte di Luigi IX, avvenuta il 25 agosto. Di fronte alla novità ed alla incertezza della situazione (il fratello del defunto sovrano, Carlo I d'Angiò, si era affrettato a sbarcare in Africa settentrionale un forte contingente di truppe) e di fronte al senso di smarrimento che si andava diffondendo tra gli stessi crociati, il C. dovette chiedere istruzioni a Genova. Le autorità municipali risposero nominandolo, il 3 ottobre, "sindaco e procuratore del Comune" presso il nuovo re di Francia, Filippo III, con l'incarico specifico di rassicurare il sovrano circa la volontà del governo della Repubblica di mantenere fede agli impegni assunti in precedenza con suo padre, e di ratificare il trattato che era stato stipulato a Cremona il 22 agosto precedente dai rappresentanti di Genova, Venezia e Pisa, per facilitare il passaggio in Oriente della flotta crociata. In questa sua nuova veste di inviato della Repubblica ligure, oltre che in quella di responsabile del contingente genovese della spedizione, il C. prese parte alle trattative con il sovrano di Tunisi avviate da Filippo III, trattative che portarono all'accordo del 30 ottobre, con cui si conclusero le operazioni militari in Africa settentrionale; ed il 18 novembre, "sulla spiaggia di Tunisi, nella contrada di Cartagine, sotto la tenda del re" - come annota scrupolosamente il notaio Rolandino di San Donato, che rogò l'atto relativo -, in nome e in rappresentanza del Comune di Genova ratificò e controfirmò il trattato di Cremona. Particolarmente vantaggiose furono le clausole relative ai rapporti con Genova contenute nell'accordo raggiunto con il sultano. Prevedevano infatti il versamento, da parte del principe arabo, di una cospicua somma di danaro a titolo di indennizzo, e la riapertura del territorio tunisino agli operatori economici genovesi; dal canto suo, la città ligure si impegnava a non prendere parte- sotto qualsiasi forma e per un certo periodo di tempo - a spedizioni armate contro Tunisi.
Il 16 novembre il C. aveva inoltre iniziato, col consenso e l'autorità delegatagli del re di Francia, l'inchiesta su di un atto di pirateria compiuto dagli armati del conte di Bretagna. Questi avevano attaccato proditoriamente e saccheggiato un mercantile arabo alla fonda nel porto di Tunisi, asportando quanto di utile e di prezioso avevano potuto trovarvi. Sulla nave era imbarcato anche un mercante genovese che, depredato di tutta la sua merce, si era rivolto per avere giustizia e risarcimento ai rappresentanti liguri alla crociata. L'improvvisa partenza della flotta impedì tuttavia al C. di portare a termine l'inchiesta e di punire i responsabili recuperando i beni trafugati al suo concittadino.
Lasciata la costa africana il 28 novembre, la flotta fece rotta su Trapani, dove avrebbe dovuto svernare, e dove giunse l'ultimo giorno del mese. Ma qui, la notte successiva all'arrivo, una tempesta investì le navi che stavano all'ancora nel porto. Di esse, diciotto affondarono; le altre furono seriamente danneggiate, le vittime della sciagura ammontarono a quattromila. Ad aggiungere pena e disagio ai superstiti venne un decreto del re Carlo I, che, basandosi sull'antica consuetudine dello iusnaufragii, ordinò la confisca di tutti i legni semiaffondati o comunque in avaria in seguito alla tempesta, e delle merci e dei preziosi che si trovavano sopra. Tra i colpiti dal provvedimento vi furono, insieme con gli altri, anche i crociati genovesi e gli armatori delle loro navi: ciò costituiva una patente violazione all'accordo del 12 agosto 1269 stipulato tra la Repubblica e il re di Sicilia, che garantiva l'incolumità agli "uomini di Genova" e del distretto in tutto il suo Regno "sia in sanità quanto in naufragio". Fu così che l'8 dicembre, alla presenza di numerose personalità, nella casa "dove abita il re", a Trapani, il C., nella sua veste di "capitano dei Genovesi alla Crociata", presentò a Goffredo di Belmonte, siniscalco del re di Sicilia e vicario della Chiesa in Toscana, una solenne nota di protesta per il sequestro delle navi e delle merci che avevano naufragato nel porto di Trapani, chiedendo nel contempo la restituzione di ogni cosa. Nonostante la fermezza della protesta, il governo del re non riconsegnò affatto i beni incamerati. Verso la metà del mese il C., non riuscendo a risolvere la questione, preferì riprendere il mare insieme con la maggior parte del contingente ligure alla crociata e fare ritorno alla città natale.
Sino al 1282, per circa dieci anni, i documenti pubblici e le fonti letterarie a noi note non fanno più menzione del C., se si esclude un documento privato, rogato in Genova il 5 maggio 1271 nel palazzo di Pietro Doria, documento in cui Filippo figlio del fu Guglielmo da Camilla dichiara di dover dare ai suoi fratelli Franceschino e Gavino la parte loro spettante dei beni lasciati in eredità dal loro zio Nicolò de Camilla, siti in quel di Sestri. Nel 1282 il C. venne nominato, insieme con Nicolino de Patratio, comandante di un piccolo corpo d'esercito - duecento cavalleggeri, trecento lance, duecento balestrieri - col compito di pacificare la Corsica meridionale, dove un antico feudatario della Repubblica, Sinuccello della Rocca giudice di Cinarca, si era ribellato e scorreva la campagna. Nelle sue incursioni il giudice assaliva e depredava "i Pisani, i Provenzali, e le altre genti che approdavano in Corsica, cosicché di queste cose i predetti fecero più volte querele al Comune di Genova"; ed era giunto perfino a minacciare la stessa piazzaforte di Bonifacio. Partito da Portofino il 18 maggio con quattro galee, il 26 il C. giunse a Bonifacio, dove sbarcò con l'esercito, ed agli inizi del mese successivo dette inizio alle operazioni di rastrellamento. Da Bonifacio risalì quindi con i suoi fanti e la sua cavalleria verso il Nord, appoggiandosi per i rifornimenti alla flotta, che lo seguiva di conserva bordeggiando la costa. Dopo una serie di scaramucce e di scontri caddero nelle mani dei Genovesi le fortezze di Castronovo (costruita dallo stesso Sinuccello in territorio di Bonifacio), di Istria, di Ornano, di Rocca di Valle, di Contendola (nella Corsica centromeridionale), finché il giudice di Cinarca, costretto a riparare in Aleria, sulla costa, orientale dell'isola, non si mise in salvo nel continente. Rifugiatosi a Pisa, Sinuccello chiese infatti aiuto allo autorità di quel Comune ed appoggio nella sua lotta contro Genova. Pacificata - sia pure provvisoriamente - la regione, il C., "muniti i castelli coi medesimi Corsi, lasciò la Corsica e approdò a Genova l'8 settembre": l'esercito che era ai suoi ordini, infatti, "già trovavasi alla fine del suo soldo".
È questa l'ultima notizia relativa al C. contenuta nelle fonti a noi note. Dovette morire sullo scorcio del secolo perché da un atto di vendita rogato il 20 genn. 1309 sua moglie, Verdina del quondam Diotisalvi da Piazzalunga, risulta già vedova.
Della famiglia dei Camilla ricordiamo qui Simonetto - figlio forse di un Simone - che, come console delle Arti, compare tra i firmatari del trattato del Ninfeo. Ma il nome di Simonetto è legato soprattutto alla missione da lui condotta nel 1264 a Costantinopoli insieme col celebre Benedetto Zaccaria durante la crisi apertasi in seguito alla fallita congiura antimperiale ordita nella capitale bizantina dal genovese Guglielmo Guercio. Dopo il provvedimento di espulsione che aveva colpito i Genovesi residenti a Costantinopoli e l'insuccesso della legazione di Egidio de Negro, Simonetto e lo Zaccaria - le cui famiglie avevano vasti interessi commerciali in Oriente - ricevettero il difficile compito di tentare ancora un accomodamento con l'imperatore d'Oriente, e di persuadere, almeno, Michele VIII ad autorizzare il ritorno a Costantinopoli dei Genovesi che erano stati relegati ad Eraclea, sul Mar di Marmara. La situazione politica generale, tuttavia, non era ancora favorevole ai disegni della Repubblica ligure, e la missione di Simonetto si risolse, nonostante gli sforzi, in un nuovo fallimento perché l'imperatore, il quale stava manovrando per giungere ad un'intesa con Venezia, non fece alcuna concessione agli inviati genovesi.
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