FRANCESCANESIMO
. Si è spesso osservato che, anche a prescindere dal problema delle fonti francescane (v. francesco, santo), costituiscono grave difficoltà alla comprensione del programma religioso di S. Francesco, gli sviluppi che esso subì nell'ordine francescano, attraverso cioè il fissarsi di un'esperienza straordinariamente intensa, ma per questo stesso eccezionale, e strettamente legata alle condizioni religiose e sociali del tempo, come fu quella di S. Francesco, in una regola canonizzata da servire come norma di vita attraverso i secoli. Ma se l'esperienza religiosa di S. Francesco non rimase, né per le sue stesse intime esigenze poteva rimanere, il fatto di un individuo, e, uscendo da lui, ebbe fatalmente a modificarsi, essa peraltro giova a spiegare il significato del movimento francescano. "Essendo io in peccato, troppo amaro mi sembrava vedere i lebbrosi, ma lo stesso Signore mi condusse fra loro ed io esercitai misericordia con loro. E partendomene, ciò che mi era apparso amaro, mi fu convertito in dolcezza dell'animo e del corpo. E poi tardai poco e uscii dal secolo". Francesco stesso, con semplicità ignorata dai suoi biografi, ha descritto, alla vigilia della sua morte, la propria conversione. Che non fu adesione riflessa a un credo religioso (Francesco era nato ed era stato educato cattolicamente) ma piuttosto l'aver saputo trovar fonte di gioia spirituale e materiale in quello che la debolezza umana ritiene fonte di vergogna e di dolore. Era, in altri termini, una nuova valutazione di quelli che sono gli obblighi verso i fratelli.
Se così è, si comprende come la conversione di Francesco non potesse risolversi in una pratica di vita ascetica e contemplativa lungi dal mondo e dagli uomini, ma dovesse necessariamente portare a cercare dei compartecipi e dei fratelli. Nel febbraio del 1209 il sacerdote che, nella cappella della Porziuncola, celebrava la messa alla presenza di Francesco, sembrò formulare con la lettura di un passo del Vangelo (Matteo, X, 5 segg.) che riferisce la missione affidata da Gesù ai Dodici, il programma cui Francesco era stato chiamato. Il mondo aveva ancora bisogno di essere riportato a considerare come meta unica e prossima del suo travaglio il Regno dei cieli e Dio ne aveva costituito, lui, Francesco, araldo. Ai pochi compagni che si raccolsero in breve intorno a Francesco, attratti dalla sua parola e dal suo esempio, egli comunicò la missione ricevuta: "Se vuoi esser perfetto, va, vendi quanto possiedi, dàllo ai poveri: ti garantisco in cambio un vistoso tesoro in cielo. Se qualcuno mi vuol seguire, rinunci audacemente a sé stesso, assuma volontieri la croce e mi segua. Perché vi dico che chi vuol salvare la propria vita, deve perderla; e chi la perde, la ritrova. Andando per il mondo, predicate annunciando: il Regno dei cieli è imminente. Curate i malati; infondete nuova vita ai cadaveri; mondate i lebbrosi; cacciate i demoni. Gratuitamente riceverete; gratuitamente date. Non possederete oro o argento o rame nelle vostre cinture; né porterete bisacce nel vostro cammino, né due tuniche, né sandali, né bastone. Giacché ogni lavoratore è degno del suo nutrimento. Entrando in una casa formulate il vostro saluto dicendo: pace a questa casa. E quando vi capiti di essere male ricevuti scotete dai vostri piedi la polvere che vi si è appresa" (Matteo, X, 7 segg.; XIX, 21; Luca, IX, 2, segg.). In questi pochi incisi del Vangelo, che costituirono la sostanza della breve regola da Francesco presentata a Innocenzo III nel 1210, è tutto il programma religioso di Francesco. Esso non fu, né volle essere, alle sue origini, che una reincarnazione, per gli uomini del sec. XIII, della metanoia neotestamentaria. Lo Speculum perfectionis (IV, 68) riferisce una frase di S. Francesco che mostra come egli avesse nettissima sensazione dell'importanza eccezionale del compito che gli era stato provvidenzialmente affidato: "io non voglio segnare altra via e foggia di vita che non sia quella misericordiosamente mostratami e donatami dal Signore. Il quale mi disse quod volebat me esse unum novellum pactum in hoc mundo et noluit nos ducere per viam aliam quam per istam scientiam".
Ciò premesso, appare chiaro come la pratica della povertà non sia il fine dell'ideale francescano, né mezzo unico per il raggiungimento di esso. È piuttosto un corollario dell'affermazione evangelica e francescana che valori essenziali sono quelli che permettono la realizzazione del Regno di Dio fra gli uomini. Le condizioni sociali del tempo misero in rilievo la pratica di vita francescana a scapito dell'ideale religioso che la suggeriva; l'ordine francescano, nel suo concretarsi, fu portato ad assumere come ideale quello che dell'ideale non era se non un logico portato.
Il fatto che dalla predicazione di F. derivi storicamente le sue origini un ordine regolare inquadrato nelle direttive dell'organizzazione ecclesiastica, ha indotto taluni storici a vedere il movimento francescano in troppo stretta relazione con la vita ufficiale della Chiesa nei suoi tempi; altri, al contrario, hanno sottolineato il fatto che il movimento francescano si produsse e fiorì fuori dell'ambito della Chiesa e l'hanno raffigurato come un movimento religioso a fondo schiettamente laico. In realtà la prima disseminazione del movimento francescano, non dissimilmente dal primo diffondersi del Vangelo, è una corrente dello spirito pubblico, che non trae la sua origine né dai poteri laici né dai poteri ecclesiastici, ma unicamente dalla meravigliosa attività del suo fondatore. Un contemporaneo di S. F., Giacomo da Vitry ci ha lasciato una viva descrizione della primitiva mmunità francescana: "Si studiano con diligenza di riprodurre fra loro la religio (è il termine con cui è dalle fonti generalmente designata la comunità francescana) della Chiesa primitiva, la sua povertà, la sua umiltà, attingendo le pure acque del fonte evangelico... imitando più da presso la vita degli apostoli, rinunciando a tutto che possiedono, rinnegando sé stessi, prendendo su di sé la croce: nudi, seguendo un nudo. A due a due se ne vanno a predicare come se fossero di fronte al volto del Signore e in attesa della sua seconda venuta. Non hanno monasteri, non hanno chiese; non campi, né vigne, né animali; non hanno case, non possessi; non hanno nemmeno ove porre il capo... In essi veramente si è compiuto ciò che fu scritto: il Signore ama il pellegrino e dà ad esso il vitto e il vestito". Basterebbe questa descrizione per convincersi che alle origini la religio francescana non assunse esteriormente il carattere di un ordine regolarmente costituito. La breve regola del 1210 era "una regola di vita e non di organizzazione conventuale", era il Vangelo stesso, unica regola per tutti che si sentissero chiamati dalla parola di F. a riprodurre, nella loro, la vita di Gesù. E la vita evangelii Jesu Christi consiste per F. (si parafrasa qui la cosiddetta 1ª regola del 1221 e il Testamento) nel vivere in obbedienza e in carità, nello spogliarsi di tutto, nel non ritenersi primo tra i fratelli, nell'andare intorno apostoli raminghi a predicare la conversione in vista del Regno di Dio, nel domandare i mezzi del proprio sostentamento al lavoro, anche il più umile, e, in difetto di questo, all'elemosina cui non disdegnarono ricorrere persino Cristo e la Vergine. Ma, né come compenso al lavoro, né per elemosina; né direttamente, né indirettamente, i fratelli chiedano e accettino denaro. Bensì seguano l'umiltà e la povertà di Cristo che, figlio del Dio vivente, pose il suo volto sulla pietra durissima. Dovunque si trovino, i fratelli si considerino sempre come ospitati e pellegrini e stranieri, mai come padroni, e siano pronti a cedere il loro giaciglio a chi lo richiede. Accolgano tutti, anche i nemici, i ladri e i masnadieri e non resistano al male: se alcuno li percuota sulla guancia, porgano a lui l'altra e se alcuno strappi a loro la veste, gli consegnino anche la tunica. Diano a chi chiede, non richiedano il tolto. Chi digiuna non giudichi chi mangia e a tutti sia lecito mangiar di tutto. Quando si è malati non si desideri alleviare il tormento del corpo prossimo a morire e che è nemico dell'anima. "Et caveant sibi fratres, quod non se ostendant tristes extrinsecus et nubilosos hipocritas, sed ostendant se gaudentes in Domino, hilares et convenienter gratiosos".
Movimento, dunque, quello francescano, nell'ispirazione e nei fini, squisitamente religioso. Ma come ogni programma religioso fortemente sentito, esso investì necessariamente tutti gli aspetti della vita, implicando nei suoi presupposti una valutazione di essi radicalmente sovvertitrice. Non poteva non avere quindi le più vaste risonanze di carattere sociale e (come si vedrà meglio parlando dell'atteggiamento francescano di fronte alla crociata) politico. Risonanze tanto più vaste in quanto la predicazione di Francesco veniva incontro e risolveva certe profonde esigenze delle classi che dalla situazione politica e sociale del tempo più soffrivano.
Mentre l'Europa era agitata da una terribile crisi, mentre la Chiesa era impegnata nella lotta con l'Impero, e Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX da una parte; il Barbarossa, Enrico VI e Federico II dall'altra, si dividevano gli effimeri favori delle città italiane; alle popolazioni delle campagne che vedevano i vantaggi della recente affrancazione dai vincoli feudali compromessi nelle lotte di tutti i giorni fra città e città, fra la città e i superstiti signorotti della campagna; al popolo minuto delle città, che in queste lotte e nei dissensi interni inevitabili (fra nobiltà e borghesia, fra autorità civili e religiose) e nell'enorme spostamento di interessi economici e sociali fatalmente seguito al consolidarsi dei comuni, aveva tutto da perdere, la parola di F., non doveva suonare anacronistica come forse suonò alle generazioni posteriori, incapaci, per mutato spirito dei tempi, di intenderne il valore. Con l'eloquenza di un esempio mai veduto, F. predicò l'amore verso Dio e tutte, indistintamente, le sue creature, il completo distacco dalla ricchezza e dalla potenza, considerate non già come meta da raggiungere, bensì come unico ostacolo a raggiungere la vera meta: la pace nell'attesa del Regno, l'eguaglianza vera che si conquista non sentendosi primi tra i fratelli, ma veramente "minori" (non si dimentichi che minores era la denominazione con cui era nota la parte popolare assisana) e sudditi a tutti. "Il cambiamento di vita invocato da F., è stato osservato, non poteva chiedere al proletariato cittadino o al lavoratore dei campi se non l'accettazione rassegnata o gioiosa della sua pena quotidiana".
Ma la sua corrispondenza ai bisogni sociali dell'epoca non potrebbe spiegare da sola l'influenza del movimento francescano (a valutarla non basta tener presenti le sole statistiche che dànno nel 1283 circa 1600 conventi o eremitorî francescani, ma anche le pagine dedicate da Salimbene alla descrizione del pullulare intorno al 1260, di gruppi o compagnie mendicanti, foggiate tutte sul modello della primitiva vagante comunità francescana) se non si tenesse presente anche un altro elemento. Anche il movimento valdese, umiliato, arnaldista, e altri, si erano presentati, come quello francescano, come tentativi di compiere la purificazione della società con la predicazione della povertà evangelica. Ma laddove questi movimenti erano animati tutti da una netta opposizione alla Chiesa di Roma ritenuta fonte di ogni male, Francesco professò sempre verso la Chiesa, i Pontefici, i sacerdoti, i teologi stessi, un rispetto e una sottomissione che non vennero mai meno. La Chiesa, per Francesco, è l'unica fonte di disciplina e di dottrina, centro di tutta la vita religiosa. È difficile scorrere i brevi scritti del Santo senza trovarvi ribadito a ogni pagina questo motivo. E, sul terreno pratico, abbiamo visto come Francesco si affrettasse nel 1210 a sottoporre all'approvazione di Innocenzo III l'ardua regola di vita elaborata per i suoi primissimi compagni.
Un francescano tedesco ha scritto: "Francesco riteneva come sua opera principale la missione nel seno della Chiesa, e perciò con la parola e con l'esempio si studiò di riformare la Chiesa secondo la semplicità e la sincerità evangelica. Per conseguire questo scopo non batté la via della critica e della polemica... ma si pose sulla via dell'esempio mostrando, attraverso la sua vita, tutta la purità del Vangelo" (H. Holzapfel). Lo stesso autore non trova esagerata l'affermazione altrui che "la Chiesa deve la sua conservazione soprattutto ai mendicanti del sec. XIII". E invero il movimento francescano, in quanto rispondeva a una necessità vitale della Chiesa, se giovò a questa, si giovò anche a sua volta, di fronte agli altri movimenti pauperistici, di aver voluto procedere sempre nell'ambito e d'accordo con la Chiesa stessa.
D'altra parte la storia dei rapporti di Francesco con la Curia presenta taluni aspetti che occorre segnalare. È stato osservato come l'idea di Francesco fosse quella di una divisione del lavoro: "al clero l'amministrazione dei sacramenti... al clero o ad altri ordini religiosi l'insegnamento dommatico e teologico... alle autorità ecclesiastiche la difesa dei diritti ecclesiastici... Dio gli aveva segnato, per suo campo, la vita morale delle singole coscienze". Ma in pratica una divisione siffatta era assurda agli occhi della Chiesa. La Curia dovette comprendere che se immenso vantaggio le sarebbe derivato dal movimento francescano, questo, nato come movimento randagio di apostoli, non legato a sedi fisse e ad alcuna norma canonica, privo di regolare disciplina interna, non avrebbe potuto costituire qualche cosa di veramente salutare per la vita della Chiesa se non fosse stato inquadrato nella sua organizzazione. D'altra parte l'ambiente in cui erano stati reclutati i primi seguaci del santo era assai eterogeneo: laici ed ecclesiastici, uomini di cultura e indotti, anime di asceti e uomini di azione erano fatalmente portati a vedere e a interpretare ciascuno a suo modo l'ideale bandito da S. Francesco. Questo inconveniente assunse proporzioni allarmanti quando col moltiplicarsi dei fratelli S. Francesco si vide intorno non più una comunità di pochi entusiasti soggiogati dalla sua personalità religiosa, ma una folla di seguaci che non sapevano disgiungere l'ammirazione e devozione per lui dagli atteggiamenti istintivamente suggeriti dalla propria individualità. La storia dell'opera sapiente con cui la Curia, e per essa il cardinale Ugolino, frenò il movimento e lo pose a poco a poco sotto il suo controllo diretto inducendo S. Francesco ad abbandonare la direzione effettiva del movimento, è d'altra parte, la storia delle tribolazioni del Santo in questa sua vita terrena. Egli non mostrò sempre d'intendere le mire della Curia e cercò fino all'ultimo di mantenere al movimento il carattere autonomo e libero che egli gli aveva impresso alle origini. Al tentativo di uniformare il suo movimento ai tipi tradizionali degli ordini già esistenti, egli oppose un reciso rifiuto e solo dopo almeno due non approvati tentativi, riuscì a compilare una regola originale che soddisfacesse le esigenze della Chiesa. Il periodo di questa crisi può essere circoscritto fra il giugno 1219, data della partenza di Francesco per la Siria, e il 29 novembre 1223, data dell'approvazione della regola da parte di Onorio III. Questa seconda data può essere assunta come atto di nascita dell'ordine francescano.
Ma al santo era rimasta la convinzione, più forte del suo stesso desiderio di obbedienza, che la regola del 1223 non fosse l'espressione vera del suo ideale. Prossimo a morire, nel suo testamento (che impose fosse osservato come supplemento alla regola, vietando altresì che questa come quello fossero sottoposti a glosse o ad interpretazioni) egli inserì tutti quei principî che, pur così vicini al suo spirito, non si era creduto di accogliere nella regola, ordinando "fratis universis, quod ubicumque sunt, non audeant petere aliquam litteram in Curia romana, per se neque per interpositam personam, neque pro ecclesia, neque pro alio loco, neque sub specie predicationis, neque persecutionis suorum corporum". Poche righe prima di questa decisa affermazione Francesco aveva ancora una volta riaffermata la sua piena, filiale devozione alla Chiesa e ai suoi ministri "quod si facerent mihi persecutionem, volo recurrere ad ipsos... et nolo in ipsis considerare peccatum".
Oggi, mentre gli studî su Gioacchino da Fiore hanno ricevuto un nuovo, vigoroso impulso, sarebbe difficile negare il vincolo che lega, nel Duecento, il movimento francescano alla propaganda gioachimita. Ma questo rapporto, è dato unicamente dalla reviviscenza della propaganda gioachimita nelle file degli spirituali francescani, che, dopo la morte di F., si sarebbero fatti forti nella loro opposizione alle correnti ufficiali dell'ordine, anche di queste energie tuttora vive (è questo sostanzialmente il punto di vista di G. Bondatti); o piuttosto si deve dire "che la religio francescana è rampollata su dalle aspettative del gioachimismo, rispecchiando compiutamente le idee centrali del messaggio cisterciense calabrese?" Chi ha difeso questo secondo punto di vista (E. Buonaiuti) partito dalla constatazione che le profezie di Gioacchino tratteggiano le caratteristiche della nuova economia religiosa con parole che suonano ragguaglio profetico del programma francescano. Anche a voler considerare questa, data l'assoluta impossibilità di cui ci troviamo di poter asserire che F. conobbe direttamente le profezie gioachimite (è sintomatica peraltro la circostanza che Gioacchino qualifichi spesso i vere monachi del terzo stato con l'appellativo di minores che F. sceglierà appunto per designare i membri della sua religio) come pura e semplice ipotesi, v'è un aspetto della propaganda francescana che appare attuazione precisa di una parallela posizione gioachimita: la conversione pacifica degl'infedeli.
Commentando il versetto 3 del capo XIII dell'Apocalisse, Gioacchino aveva scritto che forse in un prossimo avvenire "i cristiani sarebbero stati destinati a prevalere sui Saraceni molto più con la predicazione che con le armi" (praedicando magis quam proeliando) e che, di fronte all'insuccesso della crociata, era possibile prevedere che l'intento da quella perseguito "sarebbe stato forse raggiunto per altra via, in un ordine più solenne, senza indugio". E la via fu tracciata da F. Alla generica affermazione che Dio aveva eletto i fratres per la salvezza delle anime di tutti in questo mondo, non solo nelle terre dei fedeli, ma anche in quelle degl'infedeli (Speculum Perfectionis, 65), F. fece seguire, nella regola del 1221 un intero capitolo formulando il compito preciso di quelli fra i fratelli che si sarebbero recati "inter Saracenos et alios infedeles". In esso è detto testualmente "Fratres vero qui vadunt, possunt duobus modis spiritualiter inter alios conversari. Unus modus est quod non faciant lites neque contentiones sed sint subditi omni humanae creaturae propter Deum et confiteantur se esse christianos. Alius modus est quod, cum viderint placere deo, annuncient verbum Dei, ut credant in Deum omnipotentem, Patrem et Filium et Spiritum Sanctum, Creatorem omnium, redemptorem et salvatorem Filium; et ut baptizentur et christiani efficiantur... Et omnes fratres, ubicumque sunt, recordentur quod dederunt se et relinquerunt sua corpora Domino Jesu Christo, et pro eius amore debeant se exponere inimicis tam visibilibus quam invisibilibus". Mentre tutto il mondo cristiano si levava in armi, sotto il segno della Croce, per liberare con spedizioni guerresche le terre sacre alla passione di Cristo; mentre il suolo della Francia era bagnato dal sangue degli Albigesi, mentre un ordine religioso coetaneo al francescanesimo sorgeva con un programma intimamente legato a una campagna militare, F. affermava decisamente che la conversione degl'infedeli doveva esser fatta con l'affermazione inerme del nome cristiano e con la predicazione evangelica, preludio di martirio per chi l'avesse bandita. Una siffatta concezione della crociata implicava, come è stato affermato di recente, un tacito sovvertimento della concezione ufficiale della crociata stessa, un intimo contrasto fra l'atteggiamento della Curia e quello di Francesco? Sembrerebbero provare l'ipotesi una serie di circostanze e di fatti altrimenti inspiegabili. Noi sappiamo che nel 1217, quattro anni prima di formulare il passo sopra riferito, S. F. tentò di passare in Francia dove in quel momento infieriva la crociata contro gli Albigesi, ma ne fu impedito dal card. Ugolino, a Firenze: "quia multi praelati sunt qui libenter impedirent bona tuae religionis in curia romana". F. allora obbedì, ma due anni appresso egli passò a predicare il Vangelo in Oriente, e noi sappiamo da Tommaso da Celano che prima di recarsi dal sultano, F., mentre i crociati si preparavano ad attaccare Damiata "exsilit... et salutaribus monitis christianos aggreditur, prohibens bellum, denuntians casum". A illuminare ancor di più il particolare atteggiamento di F. di fronte alla crociata, si è avanzata l'ipotesi che la famosa, e altrettanto misteriosa nelle sue origini, indulgenza della Porziuncola (Perdono d'Assisi), che garantiva ai visitatori della cappella la stessa indulgenza che ai Crociati, sia stata alle origini un'arditissima contrapposizione francescana all'indulgenza crociata. Si è anche pensato d'interpretare l'intensa venerazione di F. per le scene della vita e della passione di Cristo (presepio di Greccio) come un tentativo mistico di trasferire nell'ambito della pietà cristiana la preoccupazione tutta materiale, implicita nel programma crociato, di riscattare i luoghi del martirio di Cristo. Del resto sta il fatto che nella regola del 1223 il lungo passo citato tratto dalla regola del 1221, fu soppresso restando la semplice prescrizione che chi divina inspiratione (l'ambiguo inciso manca nella regola del '21) voglia recarsi tra gl'infedeli deve ottenerne preventiva licenza dal ministro provinciale. Infine attraverso la cronaca di Salimbene e tutta la letteratura pseudo-gioachimita, è possibile cogliere il vivace movimento di opposizione contro la crociata dei francescani-gioachimiti, primo fra tutti di Gherardo da Borgo San Donnino.
Si è visto così come il programma religioso di Francesco venga incontro alle più intime esigenze religiose e sociali del momento in cui si produsse. Per questo non è lecito, in sede storica, meravigliarsi, e tanto meno indignarsi, se l'ordine francescano abbia tratto dall'ideale del Santo solo quel tanto che bastasse a costituire una norma perenne di vita che trascendesse le stesse caduche circostanze di un determinato momento storico, e che garantisse, mediante una disciplina esteriore stabile e canonizzata, seppure circoscritta, la perenne vitalità di questo ideale. C'è del resto un aspetto dell'ideale religioso di S. Francesco, che, pur nato in contrasto a una concezione ufficiale, ha avuto nei secoli, lungi dall'affievolirsi, la più larga attuazione: ché alla propaganda inerme del Vangelo fra gl'infedeli inaugurata da F., va ricondotto, storicamente, l'inizio delle grandi missioni cattoliche.
v. francesco, santo; frati minori.