francescanesimo
Iniziato da s. Francesco d'Assisi, approvato da Innocenzo III nel 1205-10, poi ancora approvato verbalmente da Onorio III nel 1221 e infine approvato sempre dallo stesso Onorio III con una bolla che inglobava anche la redazione definitiva delle regole nel 1223, il f. si presenta, sin dalle sue prime e più antiche manifestazioni, come uno dei fenomeni di maggior rilievo nella storia religiosa del secolo XIII, per l'aggancio profondo con la vita del tempo, per la ricchezza dei motivi che lo hanno animato, per la capacità di adattamento alle mutevoli realtà dei tempi, pur conservando i motivi più vivi della sua forza originaria.
Fu concepito in origine dal suo fondatore come un'associazione di penitenti, cioè come una particolare forma dei fratres poenitentiales, di quei laici cioè che liberamente sceglievano una pratica di vita ascetica senza inserirsi nella struttura monastica o clericale della Chiesa. Ne fu appunto aspetto caratteristico la pratica appassionata della povertà, intesa nella maniera più rigorosa e coerente, quale si era appunto venuta chiarendo nei secoli XI e XII, e cioè non solo rinuncia alla proprietà personale con conseguente vita comune, come da secoli praticavano i monaci, ma rinuncia sia alla proprietà personale, sia alla proprietà collettiva; i mezzi di sussistenza si sarebbero procurati o col lavoro o, in caso di necessità, con la richiesta dell'elemosina, in uno sforzo di adeguamento alla vita di coloro che son davvero poveri. Accanto alla povertà riveste poi importanza fondamentale la predicazione che s. Francesco e il f. hanno mantenuta, nei primi tempi soprattutto, al livello dell'esortazione una vita di penitenza e di povertà, nell'imitazione della vita di Gesù Cristo stesso e di quella degli apostoli.
Quest'associazione di penitenti poveri e predicatori rispondeva tanto alle esigenze della vita religiosa del tempo, che ebbe un successo davvero travolgente, esteso anche - e la cosa fece molta impressione - agli ecclesiastici e agli uomini di cultura. Gli uni e gli altri contribuirono, allora, decisamente alla trasformazione del f. in un ordine religioso vero e proprio: questa trasformazione era già compiuta nelle sue linee essenziali prima della morte del fondatore nel 1226.
Non meno importante, su questo piano, fu l'enorme accrescimento del numero dei frati (e si ricordi che numerose furono le sorores, mentre molti laici sceglievano la vita penitente sotto la guida dei frati, formando quello che più tardi fu chiamato il terzo ordine dei minori) con la conseguente necessità di problemi organizzativi per quanto riguardava la residenza dei frati, la loro povertà, i loro rapporti con la restante società laica ed ecclesiastica.
Mentre i frati tendevano sempre più a diventare un ordine di chierici, all'interno del f. cresceva e maturava una crisi all'origine latente, poi sempre più chiara e operante: mentre la maggior parte dei minori accettava queste trasformazioni e s'inseriva nelle strutture tradizionali della Chiesa, pur conservando una sua propria fisionomia e caratteristica, altri frati, specialmente nella Francia meridionale e nell'Italia centrale, richiamandosi all'esempio stesso di s. Francesco e alla presenza ancora viva e pressante dei suoi primi compagni, si sforzarono di rimanere legati alla povertà dei primi tempi, alla modestia della vita originaria, alla pratica, che s. Francesco stesso aveva, del resto, indicato nel suo Testamentum. I primi si dissero, allora, conventuali, i secondi, spirituali.
Questa tensione si aggravò e si approfondì, ancor più, quando gli spirituali ritennero di aver trovato un appoggio alla loro posizione, anzi una previsione provvidenziale delle vicende che stavano vivendo, nelle opere di Gioacchino da Fiore, ove ritennero che fosse non solo indicata la venuta di s. Francesco, ma designata anche la loro missione di ordine eletto da Dio a riportare la Chiesa alla sua purezza originaria nell'avvicinarsi degli ultimi tempi. Nel f., comunque, viveva una precisa polemica contro la decadenza morale del clero - ne è esempio caratteristicamente significativo s. Antonio di Padova - alla quale non esitò a contrapporre la propria precisa esemplarità. Ma nel f. di tipo spirituale questa tensione si accentuò fino a divenire una vera e propria opposizione: la gerarchia, dal clero al pontefice, venne sottoposta a una critica spesso aspra e decisa, come si vede nelle due operette pseudogioachimitiche, Super Ieremiam e Super Isaiam, composte verso la metà del sec. XIII, in ambiente certo spirituale. Il papa diventa il " princeps novorum phariseorum " (che è poi l'espressione con cui in If XXVII 85 è designato Bonifacio VIII); i cardinali " carpinales " (con trasparente allusione al verbo carpere, afferrare, per dire che afferravano tutto quanto era loro possibile); la fiacchezza morale della gerarchia è indicata come causa della diffusione degli eretici patarini.
Tale tensione col clero da una parte e all'interno dell'ordine da un'altra sfociò in una serie di vicende ben precise e tutte assai gravi per il f. stesso. L'urto col clero, oltre a una serie diffusa di vicende particolari, ebbe la sua manifestazione di maggior rilievo all'università di Parigi, ove i maestri di teologia secolari (cioè solo chierici), traendo argomento dalla pubblicazione di un'opera di colore decisamente gioachimitico del francescano Geraldo di Borgo S. Donnino, accusarono i maestri mendicanti (appartenenti cioè agli ordini francescano e domenicano) di essere, col loro modo di vita e con le loro idee, precursori dell'Anticristo, ben meritevoli, allora, di un'inesorabile eliminazione dalla vita della Chiesa a cui non potevano causare che del male. Questa crisi parigina, che si trascinò a lungo e nella quale intervennero s. Bonaventura e s. Tommaso, finì col dare, tuttavia, anche maggior prestigio al f., che venne difeso con calore anche dai papi.
Più lunga e penosa la lotta tra conventuali e spirituali. Diremo solo che un grosso gruppo di spirituali italiani, dopo penose vicende, ottenne da Celestino V di poter costituire un gruppo a sé, i pauperes heremitae Domini Coelestini, ma che costretti alla fuga da Bonifacio VIII, che essi considerarono, tuttavia, illegittimamente eletto e perciò intruso, cercarono scampo, in gran parte, in terre lontane, come in Grecia e in Armenia: due di loro, Angelo Clareno e Ubertino da Casale, sono i portavoce di questo gruppo. L'opera, anzi, di Ubertino, l'Arbor vitae crucifixae Iesu, si può considerare, pur nella sua vastità, una specie di manifesto al movimento. Vi confluisce anzi la parte più viva del f. spirituale della Francia meridionale, più equilibrato e più moderato - aveva, ad esempio, accettato l'abdicazione di Celestino V e difesa la validità dell'elezione di Bonifazio VIII -, specialmente fin quando era stato vivo il suo maestro e padre spirituale, Pietro di Giovanni Olivi (m. a Narbona il 14 marzo 1289), mentre era passato su posizioni più radicali fino all'aperta ribellione dopo il 1314, quando il nuovo papa, Giovanni XXII, che con decisa volontà aveva disposto la fine di ogni dissenso nell'ordine impone agli spirituali di tacere nell'obbedienza, provocando però la convinzione che il pontefice fosse eretico e perciò non validi i suoi ordini. Ne venne una vera e propria persecuzione di spirituali e dei loro seguaci laici, i beghini, che durò vari anni insanguinando la Francia meridionale fin verso il 1330 e oltre.
Il f. ha nella vita e nell'opera di D. un'importanza e un rilievo che va indicato, proprio per il suo peso, con la maggior precisione possibile. Così è doveroso ricordare che tra le scuole de li religiosi che il poeta frequentò nella sua giovinezza, dopo la crisi successiva alla morte di Beatrice, va certamente considerato lo studio francescano di S. Croce, che aveva nell'ordine un notevole rilievo: qui aveva insegnato, mandatovi dal generale dell'ordine, Matteo d'Acquasparta, proprio Pietro di Giovanni Olivi, che, trasferitosi da Béziers, rimase a Firenze dal 1287 al 1289, realizzando una serie di contatti con gli spirituali ed esercitando una profonda influenza su Ubertino da Casale, che considerò suo discepolo.
È vero che D. frequentò S. Croce quando il maestro provenzale era già tornato in patria, ma numerosissimi elementi - non esclusa la presenza dello stesso Ubertino - mostrano che il convento fiorentino per tutto il secolo XIV rimase un centro di persistenza e di diffusione della conoscenza dell'Olivi, le cui opere, al di là di proibizioni e condanne, vennero conservate e trascritte con straordinario zelo e con fervore eccezionale. Alla fine del Duecento, quindi, il ricordo doveva essere vivissimo e le relazioni sempre frequenti - l'Olivi era ancora vivo -; lo prova il fatto che il grande frate spirituale scrisse in Italia, per difendere la validità dell'elezione di Bonifazio VIII, e che la sua lettera fu certo nota a Firenze.
D'altra parte il tono del f. di D. viene ulteriormente e meglio precisato dalle sue idee circa la funzione provvidenziale dei minori e dei predicatori nella vita e nella storia della Chiesa. Queste idee, senza possibilità di dubbi, sono determinate dalla concezione ‛ spirituale ' della storia, d'ispirazione gioachimitica, com'era stata ripresa e riveduta nelle due operette già ricordate, Super Ieremiam e Super Isaiam: nella crisi della Chiesa, provocata dalla grave decadenza, dal clero e dalla diffusione dell'eresia, che ne era stata la conseguenza, tutto sarebbe rovinosamente crollato se non fossero intervenuti, appunto, provvidenzialmente disposti, e francescani e domenicani. E questa, precisamente, la dottrina che D. sviluppò nei canti XI e XII del Paradiso, ove l'elogio di s. Francesco e quello di s. Domenico sono perciò, non a caso, affidati a s. Tommaso e a s. Bonaventura, mentre, invece, ognuno dei due pronuncia una severa critica delle condizioni del proprio ordine.
Proprio questa critica ci consente una precisazione ulteriore, quale si può ricavare dalle ben note espressioni, poste da D. in bocca a s. Bonaventura. Dopo aver detto, in un intreccio d'immagini, che i francescani hanno ormai abbandonato ciò che più li caratterizzava, sì che il fermento che essi costituivano nella vita della Chiesa si è ormai trasformato in una muffa, il grande filosofo francescano continua: La sua famiglia, che si mosse dritta / coi piedi a le sue orme, è tanto volta, / che quel dinanzi a quel di retro gitta; / e tosto si vedrà de la ricolta / de la mala coltura, quando il loglio / si lagnerà che l'arca li sia tolta. / Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio / nostro volume, ancor troveria carta / u' leggerebbe ‛‛ I' mi son quel ch'i' soglio ''; / ma non fia da Casal né d'Acquasparta, / là onde vegnon tali a la scrittura, / ch'uno la fugge e altro la coarta (Pd XII 115-126).
La prima terzina chiaramente rivolge ai minori, che da principio si erano mossi sicuri dietro le orme del loro padre spirituale, il rimprovero di avere addirittura capovolto il loro cammino; le restanti, invece, divenute ben presto sfuggenti, hanno dato luogo a varie interpretazioni; punto cruciale è la seconda terzina, ove le difficoltà nascono dall'incertezza circa l'esatto valore da dare alla mala coltura, al loglio e all'arca.
Assai diffusa, anche per sostegno del Cosmo (L'ultima ascesa, Bari 1936, 180-189) la tesi per cui il loglio sarebbero i francescani spirituali, che avendo introdotto la discordia e lo scisma in seno all'ordine si videro privati dell'arca, cioè della Chiesa, dalla quale come ribelli furono appunto esclusi per la scomunica di Giovanni XXII. Tale interpretazione, che era già stata prospettata nei loro commenti dallo Scartazzini e dal Del Lungo, sembra sorretta da un interessante riscontro con il testo di una bolla di Giovanni XXII (Cosmo, op. cit., p. 183); ma non regge a una lettura più approfondita e attenta dei versi, ed è contraddetta dall'idea generale che D. ha del francescanesimo. Il poeta infatti gli attribuisce, non senza una qualche unilateralità di giudizio, un merito soprattutto, quello di aver ricondotto nella Chiesa la povertà, e proprio nel senso preciso di un distacco dai beni mondani che i frati del suo tempo avevano dimenticato per il desiderio di possedere. Se tale è il senso della prima terzina, la seconda, che ne continua il senso, dovrà riferirsi sempre ai minori degeneri: e le parole di D., se pur si riferiscono alla bolla di Giovanni XXII, la riprendono per capovolgere la direzione: non gli spirituali sono il loglio, ma la ‛ comunità ', la quale verrà colpita in modo tale che si lagnerà di essere stata privata dell'arca. In tal caso noi ci troviamo di fronte a una delle profezie dantesche, indeterminata e oscura proprio perché non era possibile prevedere che cosa in realtà sarebbe accaduto, anche se D., partecipe in questo dell'attesa di una parte notevole dei minori, è convinto che il castigo che colpirà la Chiesa raggiungerà anche, indubbiamente, i francescani degeneri.
Naturalmente D., nel suo sforzo di elevarsi a giudice imparziale e di anticipare il giudizio stesso di Dio, non si sente però di avallare la ribellione di Ubertino da Casale, come, ovviamente, di approvare i conventuali. Ricorda allora, con un sospiro nostalgico, che certo ancora esistono fra i minori dei frati che vivono come veri seguaci di s. Francesco, ma non lo è certo chi segue Matteo d'Acquasparta o Ubertino da Casale: il primo infatti fugge la regola, il secondo la coarta.
Va a questo punto osservato che il primo di questi verbi implica un vero e proprio giudizio di condanna, colpendo il cardinale appunto che era venuto a far da ‛ paciaro ' in Firenze, e in realtà preparava le manovre di Bonifazio VIII: e proprio a Firenze era stato protagonista di una scena che ci racconta Dino Compagni, non senza mettere in rilievo la cupidigia di Matteo: gli furono dati dalla signoria duemila fiorini in una coppa d'argento " ed egli li guardò e non li volle " (Cron. I 21), ove in quel " guardò " vien colto appunto un desiderio, appena e mal represso. Il coarta rivolto a Ubertino da Casale è invece un termine tecnico, usato nei commenti alla regola francescana per indicare appunto quelle interpretazioni, che ne aggravano la severità e il rigore. Il cardinale nella sua ‛ fuga ' dalla regola viene ricollegato a quella ‛ fuga ' dalla povertà, che è la più grave colpa della Chiesa stessa, nella più gran parte della gerarchia, mentre minore finisce per sembrare la colpa di Ubertino, anche se ‛ coartando ' la regola, ha finito col suscitare disordine in seno ai minori. Va, tuttavia, notato che di questi disordini il poeta tace del tutto: ci sembra, perciò, che egli abbia voluto rimproverare al francescano rigorista principalmente il fatto di voler introdurre nello spirito francescano, liberamente innamorato della povertà in un'ebbrezza esaltante, un'esigenza normativa, che, nell'intenzione, era forse buona, ma che sarebbe stata, alla fine, una restrizione appunto del vero francescanesimo.
Ciò del resto viene confermato dal fatto che il giudizio sull'ordine viene pronunciato da Bonaventura da Bagnoregio, che da D. è giustamente considerato come la più viva ripresa dell'autentica religiosità francescana. È doveroso, a questo punto, ricordare che proprio sulla linea bonaventuriana era, appunto, Pietro di Giovanni Olivi, che di queste terzine sembra il silenzioso ispiratore.
Il silenzio di D. sull'Olivi non deve meravigliare: infatti, proprio in questi anni, i suoi seguaci della Francia meridionale, in aperta ribellione contro la Chiesa, erano duramente perseguitati dall'inquisizione che aveva, anzi, ottenuto la condanna della Lectura super Apocalypsim dell'Olivi stesso.
All'interpretazione qui delineata sono vicini il Barbi e il Grundmann, che concordemente considerano D. superiore al conflitto fra spirituali e conventuali. Tuttavia, come ha acutamente posto in rilievo il Bosco, " quale che fosse la posizione teologica e politica di Dante, le sue simpatie sul piano umano e morale non potevano andare che verso un'interpretazione sostanzialmente rigorosa anche se serena, non estremista della Regola di s. Francesco... perché, nonostante la sua posizione equilibrata tra le forme estreme assunte dalla controversia, il suo animo è tutto teso verso chi, come i due santi, aveva per tutta la vita gagliardamente combattuto per l'assoluto del bene, per l'assoluto della verità. Era, in fondo, la sua stessa battaglia ".
Accenniamo infine, anche se generalmente non è accolta, all'interpretazione che il Donini ha dato del verso ch'uno la fugge e altro la coarta, per cui il frate che fugge la regola sarebbe Ubertino da Casale, che nell'ultima parte della sua vita, dopo l'inizio della persecuzione degli spirituali in Avignone, aveva chiesto e ottenuto di passare fra i benedettini, mentre chi coarta la regola, cioè le fa dire meno di quello che davvero comanda, sarebbe Matteo d'Acquasparta. Questa interpretazione è però inaccettabile perché non tiene conto proprio del fatto che il termine ‛ coartare ' è espressione tecnica e viene adoperato in senso opposto a quel che il Donini ritiene (cfr. A. Donini, Appunti per una storia del pensiero di D. in rapporto al movimento gioachimita, in " Annual Report of Dante Society " XLVII-XLVIII [1930] 48-69).
Bibl. - La bibliografia sul f. e D. è vastissima, per cui ci limitiamo a indicare qui soltanto l'essenziale; oltre alle opere già citate in precedenza e ai commentatori, antichi e recenti, del canto XII del Paradiso, ricorderemo per la storia francescana nel Duecento e nel primo Trecento: Gratien De Paris, Histoire de la Fondation et de l'évolution de l'Ordre des Frères Mineurs au XIIIe siècle, Parigi 1928, che, nonostante gli anni trascorsi, rimane migliore anche di opere recentissime come quella di C. Moor-Mann, The History of Franciscan Order, Cambridge 1968. Nessuna delle due, tuttavia, si accorge dell'interesse che D. ha per i francescani e del valore della sua testimonianza. D'altra parte l'interesse e il significato che D. annette al f. sono stati posti in rilievo soprattutto da B. Nardi, Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960, 245-246 e passim (v. anche la sua lettura ravennate del canto XII, in " L'Alighieri " V [1964] 9 ss.; ma anche H. Grundmann, D. und Joachim von Fiore, zu Paradiso X-XII, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XIV (1932) 252-256; M. Barbi, Con D. ed i suoi interpreti, Firenze 1941, 344-346; U. Bosco, D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 340-341; cfr. poi la Bibl. alla voce Francesco d'Assisi). Per i rapporti fra D. e Pietro di Giovanni Olivi, v. R. Manselli, D. e l'" Ecclesia Spiritualis ", in D. e Roma, Firenze 1965, 115-135; ID., Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale, in " Studi Mediev. " s. 3, V (1965) 94-122, spec. 121-122.