COMPARINI, Francesca Pompilia
Nacque a Roma il 17 luglio 1680, figlia unica di Pietro e di Violante Peruzzi, e fu battezzata nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina.
La famiglia era in discrete condizioni economiche e la C., destinata a godere di un fidecommisso di 12.000 scudi, lasciato al padre a condizione che sarebbe passato ad altri se egli fosse morto senza eredi, rappresentava senz'altro un buon partito. All'età di tredici anni, l'abate Paolo Franceschini, segretario presso il cardinal Lauria (Lorenzo Brancati) la scelse come sposa per il fratello Guido, discendente di una nobile famiglia di Arezzo e di circa trent'anni più vecchio di lei.
La famiglia Franceschini, nonostante la sua nobiltà, versava in disagiate condizioni economiche, e Paolo sperava di maritare vantaggiosamente il fratello e di risollevare la fortuna familiare con la dote della Comparini. Il conte Guido si era introdotto anch'egli in Curia entrando tra i familiari del cardinale Nerli che, secondo alcune fonti, lascerà subito dopo il matrimonio. I Comparini furono inoltre abbagliati da una relazione sui beni del Franceschini ad Arezzo, che sarebbero ammontati a 1.700 scudi annui d'entrata. Lo stesso cardinal Lauria stese i capitoli matrimoniali. Intanto, il padre Pietro, che si era informato più a fondo sulla situazione della famiglia Franceschini, e l'aveva trovata profondamente diversa dalla relazione avuta, sia per quanto riguardava il loro blasone sia per quanto riguardava la loro effettiva consistenza patrimoniale, si oppose al matrimonio. Questo fu, tuttavia, celebrato a sua insaputa nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina nel settembre del 1693, in seguito ad un'iniziativa della moglie Violante. Di fronte al fatto compiuto, Pietro si riconciliò con i Franceschini e assegnò in dote alla figlia una parte delle sue rendite (ventisei luoghi di Monte), con la futura successione al rimanente. Si decise inoltre che la famiglia Comparini si sarebbe trasferita ad Arezzo presso i Franceschini.La convivenza tra le due famiglie si rivelò subito assai burrascosa, pare soprattutto per l'alterigia della madre dello sposo, donna Beatrice, e per la povertà della loro dimora, tant'è vero che pochi mesi dopo i Comparini fecero ritorno a Roma, lasciando la C. ad Arezzo.
Giunto a Roma, Pietro Comparini iniziò un'azione giudiziaria per disconoscere la figlia, nel tentativo di evitare il pagamento della dote residua: il monitorio giudiziale da lui spedito sosteneva che la C. non era realmente sua figlia e che perciò non era tenuto a versare la dote promessa: come prova portava una dichiarazione della moglie, che, in sostanza, affermava di aver finto di essere gravida e di aver partorito una figlia, avuta in realtà dietro compenso da una meretrice, all'insaputa dello stesso marito, per salvaguardare il possesso del fidecommisso.
Di fronte allo scandalo scoppiato in seguito a tali rivelazioni, la famiglia Franceschini oscillava tra il desiderio di far annullare un matrimonio così disonorevole e il timore dì perdere sia la dote già avuta sia le rendite promesse. La causa per l'annullamento del contratto di dote fu discussa nel 1694 e la sentenza stabilì che la C. aveva diritto alla dote, ma non all'eredità del padre. Nonostante che questi interponesse appello e la causa restasse pendente, Guido Franceschini trattenne la dote ricevuta.
Rinnegata dai suoi genitori, odiata dal marito, che, tra l'altro, le rimproverava di non avergli ancora dato un erede, la C. rimase sola in un ambiente ostilissimo, esposta a minacce e a rigori d'ogni sorta. Invece di lasciarsi sottomettere, tentò di reagire, e fuggì più volte di casa, rifugiandosi presso il governatore della città e presso il vescovo; anche tali tentativi, però, non ebbero alcun effetto, perché sia il governatore sia il vescovo si limitarono a rimandarla a casa, dopo aver esortato il marito a un comportamento più mite. Minacciata di morte, ella si decise a fuggire a Roma, e chiese aiuto per la fuga al canonico Conti, lontano parente dei Franceschini, che, non volendosi compromettere direttamente, le suggerì di rivolgersi ad un suo amico, Giuseppe Maria Caponsacchi, giovane canonico di nobile origine, e, sembra, non alieno da avventure galanti. Posta in atto la fuga, alla fine di aprile del 1697, i due giunsero a Castelnuovo, dove si fermarono e dove furono raggiunti dal conte Guido, deciso a ucciderli. Tuttavia, di fronte alla spada sguainata del Caponsacchi e alla decisa reazione della stessa C., che gli si fece incontro armata e lo avrebbe ucciso se non fosse stata trattenuta dagli sbirri, il Franceschini preferì ricorrere alla giustizia: i due furono arrestati e condotti a Roma. Qui il Franceschini li accusò prima della fuga e poi di adulterio. L'abate Paolo, intanto, fece pressioni sul governatore e sui giudici, affinché essi fossero severamente condannati. Al processo, furono prodotte come prove alcune lettere d'amore trovate a Castelnuovo, di cui essi negarono però l'autenticità, nonché la testimonianza del vetturino, che sosteneva di averli visti abbracciati durante il viaggio, e il fatto che avevano passato una notte insieme a Castelnuovo; accusa però negata tenacemente dalla C., che sosteneva di essere arrivata sul luogo non prima dell'alba. Con sentenza del 24 sett. 1697, il Caponsacchi fu condannato a tre anni di galera a Civitavecchia "pro complicitate in fuga et deviatione Franciscae Comparinae, et pognitione carnali eiusdem". L'oggetto trafugato, cioè la giovane C., venne rinchiusa nel monastero di S. Croce della Penitenza, alla Lungara. Là sarebbe probabilmente rimasta sepolta, con soddisfazione di tutti, se non si fosse scoperta incinta, per cui il tribunale, con il consenso dell'abate Paolo Franceschini, che aveva la procura degli interessi del fratello Guido, decise che tornasse nella casa dei genitori, con l'obbligo di avere "hanc Domum pro tuto, et securo Carcere, et ab ea non discedere, neque de die, neque de nocte, etiam ianuis et fenestris apertis, sub quovis praetextu". Qui, il 18 dic. 1697, la C. dava alla luce un figlio, che fu battezzato col nome di Gaetano, e che fu subito inviato a balia fuori di casa.
La causa restava comunque pendente, in seguito all'appello interposto dai condannati. Intanto, il 15 sett. 1697, la Ruota criminale di Firenze aveva condannato per adulterio la C., con una sentenza che non aveva seguito a Roma, ma che, in un certo senso, aveva dato un avallo ufficiale alle pretese del conte Guido di dover riparare il suo onore pubblicamente offeso. Nel frattempo, sommerso dallo scandalo, anche l'abate Paolo, il cui comportamento in questa vicenda era giudicato negli ambienti romani più teso alla salvaguardia della dote che a quella dell'onore del fratello, lasciava Roma in disgrazia.
Deciso a vendicarsi della moglie e dei suoceri, e assoldati quattro suoi contadini come sicari, Guido Franceschini, il 2 genn. 1698, giunse di nascosto a Roma dove, nel pieno della notte, uno dei sicari bussò in casa Comparini, in via Paolina, fingendosi latore di un messaggio del Caponsacchi da Civitavecchia, e riuscì a farsi aprire la porta. Poi i sicari e lo stesso Guido uccisero a coltellate Pietro, Violante, ed infine ferirono a morte, con particolare ferocia, la stessa C., che riuscì, fingendosi morta, a chiedere poi aiuto e a denunciare i suoi assassini, morendo soltanto dopo un'agonia di quattro giorni. In punto di morte essa negò fermamente l'adulterio, e affermò di aver perdonato i suoi assassini. Questi, intanto, erano stati arrestati a poche miglia da Roma, e condotti alle carceri nuove. Guido confessò il delitto alla sola vista degli strumenti di tortura, ma invocò la necessità in cui si sarebbe trovato di difendere il suo onore, "cosa che haverebbe intrapresa ogni Plebeo, non che Lui, che era nato gentilhuomo".
Il caso fu seguito con grande attenzione a Roma; il processo, iniziato alla metà di gennaio, si concluse intorno alla metà di febbraio. Presiedeva il tribunale il vicegovernatore di Roma, Marco Antonio Venturini; l'accusa era sostenuta da Francesco Gambi, procuratore del Fisco, e da Giovanbattista Bottini, avvocato del Fisco. La difesa era affidata a Giacinto Arcangeli, procuratore dei poveri, e a Desiderio Spreti, avvocato dei poveri. Nei memoriali della difesa si sosteneva, con grande abilità ed erudizione, la tesi del delitto d'onore. Il principale ostacolo ad attribuire al delitto del Franceschini le attenuanti del delitto d'onore consisteva nella mancanza della fragranza, cioè nel lungo intervallo di tempo trascorso fra la scoperta dei due "amanti" a Castelnuovo e l'uccisione della C., e inoltre nel fatto, abilmente sottolineato nei memoriali dell'accusa, che il Franceschini, ricorrendo alla giustizia a Castelnuovo, aveva sostanzialmente rinunciato al diritto di farsi giustizia da sé. A queste obiezioni dell'accusa, gli avvocati della difesa rispondevano che, data la legittimità dell'uccisione di una moglie adultera, era anche legittimo che questa uccisione avvenisse nelle migliori condizioni di sicurezza per il marito: così il Franceschini, trovandosi a Castelnuovo solo di fronte alla C. e al Caponsacchi, avrebbe rischiato di avere la peggio: di qui la necessità di attendere l'occasione di compiere la sua vendetta senza esporsi a rischi eccessivi. Inoltre, per la difesa, anche l'uccisione di Pietro e Violante rientrava nelle attenuanti del delitto d'onore, perché essi avrebbero arrecato grave offesa all'onore del Franceschini dandogli in sposa fraudolentemente la figlia di una donna di malaffare, ricevendo nuovamente in casa la presunta figlia e accettando che conducesse vita dissoluta.
I memoriali dell'accusa sottolineavano le circostanze aggravanti del misfatto: il delitto di conventicola, già di per sé passibile di condanna a morte; quello di porto d'armi proibite; l'uccisione dei genitori della Q; il fatto che l'omicidio era stato commesso nella casa della vittima (homicidium ex insidiis) e il fatto che la C., essendo rinchiusa nella sua casa come in una prigione, era sub potestate iudicis, e quindi inviolabile. Ma la sostanza del dibattito processuale fra accusa e difesa verteva sulla colpevolezza o meno della C. riguardo all'adulterio con il Caponsacchi. Il fatto che il processo per adulterio fosse ancora pendente consentiva all'accusa di sostenere l'innocenza della C., o per lo meno la mancanza di prove sicure dell'adulterio commesso, e alla difesa di appoggiarsi alla prima sentenza di condanna del Caponsacchi a tre anni di galera e della C. alla chiusura nel convento di S. Croce della Penitenza, per sostenere la tesi del delitto d'onore. In realtà, la pur abile e minuziosa opera compiuta dagli avvocati dell'accusa per smantellare le prove dell'adulterio della C. non sarebbe probabilmente stata sufficiente senza l'elemento fondamentale, sottolineato al processo, del diniego che la giovane fece in punto di morte della sua colpevolezza nel reato di adulterio. La difesa tentò di controbattere affermando che non si trattava di un elemento assolutamente probante e insinuò che la C. avrebbe potuto volersi così vendicare del suoi assassini, anche a rischio di perdere la sua anima. Ma gli avvocati dell'accusa acclusero agli atti del processo le testimonianze di coloro che avevano vegliato la C. nella sua agonia, testimonianze tese a sottolineare la religiosità della fanciulla, la sua generosità nel perdonare gli assassini, e, soprattutto, la sua "modestia": "essendo la medesima stata più volte ricercata da Padri Spirituali, et altre persone, se haveva commesso mancamento alcuno al detto Guido suo Marito, per il quale gli havesse dato occasione di maltrattarla nel modo, che si vedeva, e farla maltrattare a morte, la medesima sempre ha risposto, che non gl'ha in alcun tempo commesso mancamento alcuno, e sempre è vissuta con ogni castità, e pudicitia, e ciò noi lo sappiamo per esserci trovati presenti in detta Infermità haver'inteso tutte le dette richieste, e risposte in occasione anco d'haverla medicata, et assistita, et haverla sentita rispondere a dette richieste come sopra nelli quattro giorni, ch'è stata nelli patimenti delle ferite, et haverla ben veduta, e sentita, e per havergli veduto fare una morte da Santa". Così il pudore e l'aura di cristiana rassegnazione con cui questa ragazza diciottenne - venduta a tredici anni in cambio di un po' di nobiltà, ripudiata a quindici in cambio di un po' di denaro, uccisa barbaramente a diciotto in nome di un po' d'onore - seppe ammantare la sua morte assurda, riuscirono a far sì che la sua morte fosse vendicata, così come la sua vita era stata sacrificata. Le stesse leggi, che l'avevano riconsegnata al suo assassino quando aveva tentato di salvarsi, e che l'avevano segregata quando aveva attuato la fuga, condannarono a morte il suo assassino, sostanzialmente solo, perché, in un processo in cui era lei il principale accusato, fu riconosciuta innocente del reato di adulterio. I sicari furono condannati alla forca e Guido Franceschini, nobile, alla meno vile mannaia. La sentenza fu emessa il 18 febbraio, ed Innocenzo XII la confermò contro la richiesta di clemenza degli amici del Franceschini. La sentenza fu eseguita il 22 febbraio, in piazza del Popolo, alla presenza di una gran folla.
Il 9 sett. 1698, la C. fu assolta, con una sentenza postuma, dal reato di adulterio. La causa era stata intentata dal suo erede, tal Domenico Tighetti, contro le pretese del monastero di S. Maria Maddalena delle Convertite al Corso che, in base a una legge emanata da Clemente VIII, avrebbe avuto diritto alla successione di una parte del suoi beni, nel caso fosse stata dimostrata la sua vita disonesta. Il memoriale del procuratore della Carità Antonio Lamparello, che assisteva l'erede della C., nel sottolineare i motivi della sua innocenza (mancanza di prove sull'adulterio unita alla negazione inarticulo mortis), insisteva particolarmente nel sottolineare come la condanna a morte del Franceschini tosse la prova più importante dell'innocenza della Comparini.
La tragica vicenda della C. deve la sua notorietà, oltre che al grande scalpore che suscitò in Roma, testimoniato anche dal gran numero di manoscritti e di opuscoli a stampa che descrivevano il caso, prendendo partito ora per gli uni ora per gli altri, e dal caso piuttosto fuori dalla norma di ben cinque condanne a morte eseguite contemporaneamente, al fatto di aver ispirato quella che viene generalmente considerata l'opera maggiore di Robert Browning, il lungo poema The Ring and the Book, pubblicato nel 1868-69. Il poeta inglese aveva trovato casualmente in piazza S. Lorenzo a Firenze, nel 1860, una raccolta di documenti riguardanti il processo Franceschini, che chiamò The old yellow Book, ora conservato ad Oxford nella Biblioteca del Balliol College, la cui ristampa anastatica con commento a cura di C. W. Hodeli è stata pubblicata nel 1908 a Washington (The old yellow Book source of Browning's the Ring and the Book). Questi documenti, per lo più memoriali degli avvocati, con alcune Notizie di anonimi, ed altri documenti attinenti al processo, insieme con alcuni manoscritti in seguito consultati dal Browning offrirono la materia del poema. Ovviamente, a parte lo scrupolo di documentazione storica del Browning, il poema è cosa ben differente dalla tragica storia della C., che diviene, nei versi del Browning, una figura dolcissima di donna angelicata, molto diversa dalla vera Pompilia, che in realtà sembra aver avuto il coraggio di ribellarsi più volte, di affrontare i rischi connessi alla sua ribellione, di morire libera e non sottomessa.
Fonti e Bibl.: Roma, Bibl. Casanatense, ms. 2037, pp. 355-99: Compendio del processo, e racconto di quanto seguì circa la causa del Franceschini, condannato a morte con suoi Compagni, per l'homicidij et assassinio orrendi, e spaventevolicommessi in persona di Pietro Comparini, di Violante sua moglie, e di P. loro figlia, e moglie del med. Franceschini, seguiti in Roma nel pontificato di papaInnocenzo duodecimo; Bibliot. Apost. Vaticana, Vat. lat. 13.658: Accuse, processo e morte del Sig. G. Franceschini, suoi socij per l'omicidio et assassiniocommesso in persona del Comparini, sua moglie efiglia et accidenti seguiti nel pontificato di P. Innocenzo XII, pp. 196-222; Ibid., Urb. lat. 1696: Deplorabile, et empio omicidio commesso in Romada Guido del quondam T. Franceschini, e quattro altri compagni in persona di Pietro Comparini, e Violante Peruzzi, coniugi, e F. P. creduta figliadelli medesimi, e moglie del sopraddetto Franceschini, seguito nella strada detta la Paolina, vicino allachiesa de' Greci, la sera di Giovedì a ore una dinotte in circa alli due di Gennaio 1698 regnante laSantità d'Innocenzo XII P. M., con la giustiziadegli uccisori eseguita li 22 febraro del medesimoanno, ff. 14r-45v; Ibid., Urb. lat. 1692, ff.9r-29v; C. B. Piazza, Eusevologio romano..., Roma 1698, p. 193; G. Bassi, Letter. e storia: realtà e poesiain un poema di R. Browning, in Nuova Riv. stor. III (1919), pp. 104 ss.