PIERONI, Franca
– Nacque a Firenze il 4 ottobre 1925 nel rione industriale di Rifredi, prima figlia di Luisa Giardi, sarta a domicilio, e di Piero, ex operaio delle Officine Galileo divenuto ben presto commerciante in proprio di macchine utensili. Pieroni ricordò sempre con orgoglio l’identità operaia e comunista della sua famiglia e per quel tramite, fin dal 1940 entrò in contatto con alcuni membri della rete comunista, cui avrebbe inviato di lì a poco uno scritto per la stampa clandestina. Argomento, l’importanza di quella «emancipazione della donna» di cui ogni giorno sperimentava la problematicità sulla propria pelle e su cui aveva cominciato a riflettere grazie a un libretto sul Pensiero educativo di George Sand (Città di Castello 1922) di Emilia Mariottini Verdaro rinvenuto in un vecchio baule. Già nell’inverno 1943-44 Pieroni si iscrisse al Partito comunista italiano (PCI), partecipò alle attività dei Gruppi di difesa della donna e alla liberazione di Firenze, entrando poi nel Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e la libertà e stringendo rapporti di intensa quotidianità con Wanda Lattes, Gianfranco Sarfatti e Aldo Braibanti grazie al cenacolo di letture e discussioni su testi (marxisti e non) messo in piedi da quest’ultimo «senza preoccuparsi della loro ortodossia o della loro collocazione più o meno eretica» (Testimonianza Braibanti, in Motti - Savelli, 1998, p. 76).
Per cinque anni Franca Pieroni si occupò soprattutto di politica, con l’obiettivo di diventare ‘rivoluzionaria professionale’, vale a dire funzionaria di partito, nonostante l’opposizione del padre. Solo nel 1950 decise di riprendere gli studi nella Facoltà di lettere e filosofia dell’università di Firenze, ottenendo primi incarichi di insegnamento nelle scuole medie, scrivendo articoli per il periodico del PCI fiorentino Toscana Nuova e novelle per Noi Donne, con vari pseudonimi. La laurea giunse nel 1952, con una tesi sulle idee di Guizot assegnatale da Carlo Morandi e discussa con Gaetano Salvemini, seguita a ruota dal matrimonio (civile, officiante il sindaco comunista di Firenze Mario Fabiani) con Lando Bortolotti, studente di architettura conosciuto nella cellula di partito dell’Università.
Negli anni successivi Pieroni scrisse, continuando a insegnare, due saggi decisamente innovativi sulla storia delle sigaraie fiorentine fra il 1874 e il 1922, esplorandone vita di fabbrica, attività politica e lotte sindacali: saggi che riuscì a pubblicare solo nel 1960 sul redivivo Movimento operaio e socialista (Le lotte delle sigaraie fiorentine dalla fondazione della Camera del Lavoro all’avvento del fascismo e Vita di fabbrica e attività politica delle sigaraie fiorentine dal 1874 al 1893, n. 4, pp. 3-21; n. 5, pp. 3-22; n. 6, pp. 3-16). Nel frattempo, mise in cantiere uno studio sulle donne della Resistenza e uno sulla storia della questione femminile, divenne madre di un bimbo, Franco (1957), e riprese gli studi di storia, iscrivendosi al corso di perfezionamento esistente all’università di Firenze: una decisione che fra il 1959 e il 1962 la portò a tessere un intenso rapporto umano, oltre che culturale e politico, con Delio Cantimori, da lei scelto come tutor dopo la morte di Salvemini.
La tesi, dedicata alla questione femminile nel Risorgimento italiano e discussa nel marzo del 1961, assume nella sua vicenda biografica il valore di uno spartiacque, grazie all’incontro con la figura di Anna Maria Mozzoni, assunta a testimone e protagonista del controverso percorso della ‘questione dell’emancipazione femminile’ negli anni della costruzione dello Stato nazionale e liberale, ma anche della nascita di prime iniziative e associazioni di donne decise a essere protagoniste della propria ‘liberazione’. Di quella ricerca Pieroni dette rapidamente conto al convegno su Cento anni di emancipazione femminile in Italia promosso in quello stesso anno a Torino (il testo dell’intervento apparve nel 1962 su Movimento operaio e socialista), e subito dopo nella monografia Alle origini del movimento femminile in Italia 1848-1892 (Torino 1963).
Nel volume Pieroni metteva a fuoco ambiguità e resistenze che avevano caratterizzato le risposte date all’emergere della questione femminile da quella parte politica da cui era lecito attendersi il massimo di apertura, e verso cui si era quasi ‘naturalmente’ rivolta Mozzoni. Altrettanto significative dal punto di vista storiografico erano le scoperte dell’esistenza di un paesaggio di voci e volti femminili molto più ricco e multiforme di quello a cui era solita fare riferimento la fragile storiografia sull’argomento, degli stimoli ‘emancipatori’ presenti nel movimento ‘operaista’ lombardo degli anni Ottanta, della portata ambivalente avuta dalla nascita di un partito come quello socialista, capace di stimolare e organizzare la scesa in campo di nuove forze sociali, ma anche pericolosamente timido nell’impostare e portare avanti la lotta per l’emancipazione della donna.
Quando il volume uscì, Pieroni si era ormai trasferita a Livorno (1962) al seguito del marito, direttore dell’Ufficio urbanistica di quel Comune, e lì avrebbe continuato a risiedere fino a tutto il 1971, sentendosi ostaggio di una città avvertita come «barbara», vera e propria «prigione» dello spirito (Diario 1965-1966, in Motti - Savelli, 1988, p. 311).
Ricerche d’archivio e spogli certosini di periodici locali e nazionali, ma anche la frequentazione di uomini e ambienti che conservavano memoria attiva di quel periodo, oltre agli stimoli dell’amicizia stretta con Nicola Badaloni, la portarono a pubblicare (nel 1967, 1968 e 1971) tre saggi sul drammatico quinquennio 1921-26 della Livorno comunista e antifascista, che anni dopo sarebbero confluiti, con altri di Badaloni, nel volume Movimento operaio e lotta politica a Livorno: 1900-1926 (Roma 1977). In essi, l’ostinata resistenza all’avanzata fascista di un pugno di comunisti al tempo stesso modesti e straordinari, troppo a lungo sepolti sotto l’epiteto di stalinisti, era ricostruita senza negarne inadeguatezze e responsabilità, ma dando loro dignità di protagonisti.
Esplose in quegli anni tutta l’insofferenza di Pieroni per un train de vie scandito dalle incombenze materne e familiari (sarà lei stessa a definirsi, alla metà degli anni Settanta, affetta da «settarismo antifamilistico», malgrado la mai dismessa fedeltà al cognome del marito) e dal mal tollerato insegnamento nella scuola secondaria (Autoritratto involontario, in Buttafuoco, 1987, p. 4). E tutto questo mentre cresceva sia la disaffezione per un PCI (a cui pure rimase iscritta per tutta la vita), volta a volta accusato di ‘imborghesimento’ e di ‘terzomondismo’, sia l’avversione per l’intellettualismo della Nuova sinistra e per il ribellismo degli studenti ‘figli di papà’. La volontà di reagire a quelle opposte derive la spinse ad accogliere con interesse la proposta fatta da Ernesto Ragionieri di scrivere la biografia di un altro ‘comunista delle origini’ morto nel 1936 in Unione Sovietica, Francesco Misiano, combattente della rivoluzione spartachista a Berlino, amico di Amedeo Bordiga ma ‘elezionista’, attivista del Soccorso operaio internazionale e della Lega antimperialista (e anticolonialista) prima da Berlino e poi da Mosca, emblema di quella generazione di combattenti, senza la cui «lotta indomita e oscura, non si capisce neppure la Resistenza europea» (Francesco Misiano. Vita di un internazionalista, Roma 1972, p. 209).
Ma ciò che continuava ad attirarla era soprattutto altro, e cioè la storia della questione femminile che, scriveva nel 1968, «io non ho scelto […]; per la verità, essa mi si è imposta. […] Dovevo testimoniare che nessuno era nato per essere schiavo» (in Motti - Savelli, 1998, p. 365). Più esattamente, a interessarla e a inquietarla – fino a tradursi in una sorta di corpo a corpo con temi e personaggi idealtipici della sua ricerca – era l’ineludibile complessità del rapporto femminismo / democrazia / socialismo, e la constatazione che storicamente a posizioni politiche più avanzate non era affatto corrisposta una più lucida ‘presa in carico’ della questione femminile.
Gli approfondimenti sulla vita del Partito socialista italiano (PSI) nel ventennio compreso tra la fondazione e la guerra di Libia non solo confermavano le aporie rilevabili nella politica del primo «partito moderno della classe operaia» a cui aveva accennato già nel volume del 1963, ma chiarivano che le modalità di approccio al tema, così come la rilevanza o l’accessorietà a esso attribuite, erano condivise da massimalisti e riformisti, parimenti tentati dal sospetto verso un femminismo considerato un lusso borghese che non interessava le donne del popolo.
Ne vennero saggi – pubblicati nel 1966 e nel 1969 rispettivamente su Movimento operaio e socialista (n. 2, pp. 103-129, e n. 3-4, pp. 181-219) e su Critica storica (n. 1, pp. 23-62) – che ricostruivano con partecipe acribia la fioritura, negli anni Novanta dell’Ottocento, di leghe femminili troppo eterogenee fra loro e al loro interno per sopravvivere alla bufera del 1898, e la cruciale campagna per la legge sul lavoro delle donne che vide Anna Kuliscioff schierarsi a favore della ‘moderata tutela’ duramente osteggiata da Anna Maria Mozzoni: una campagna in cui Pieroni vedeva l’espressione degli ondeggiamenti e degli arretramenti teorici e pratici del socialismo e del femminismo italiano di primo Novecento, evidenziati dall’abbandono del termine ‘emancipazione’, dalla reticenza a difendere la piena dignità del lavoro femminile extradomestico, e dalla rinuncia a chiedere per tutte le donne un salario non accessorio e maggiori diritti civili e politici, voto compreso.
Intanto però, con il ritorno a Firenze e l’aprirsi di una prospettiva universitaria – a Modena e subito dopo (1973-74) alla Facoltà di giurisprudenza di Siena –, la vita di Pieroni conobbe una svolta e i suoi studi una accelerazione, che neppure l’emergere dei primi disturbi psichici legati alla malattia che l’avrebbe portata precocemente alla morte – una encefalopatia arteriosclerotica subcorticale, nota come sindrome di Binswanger – riuscì a bloccare.
Non tutti i lavori avviati in quegli anni operosi riuscirono a giungere alla pubblicazione. Della ricerca sull’occupazione femminile durante il fascismo, ad esempio, ci sono rimaste solo pagine di dati e appunti (in Buttafuoco, 1987, pp. 179-207). Così come restò sulla carta il progetto di «una antologia storico-critica della questione femminile in Italia», dalle repubbliche giacobine al presente, alla cui definizione e introduzione Pieroni lavorò fra il 1973 e il 1979 (pp. 11-88 e 211-215). Né si può dire che il breve intervento Per la storia della questione femminile (in Studi storici, 1973, n. 2, pp. 450-461) e la più tarda Rassegna di storia del femminismo per un volume curato da Romain Rainero (L’Italia unita: problemi ed interpretazioni storiografiche, Milano 1981, pp. 287-302) restituiscano appieno lo spessore delle riflessioni inedite del 1972-73 su quei temi.
Intanto, la rilevanza pubblica e politica assunta nei primi anni Settanta da questioni come l’autonomia femminile e la centralità del lavoro, il divorzio e la limitazione delle nascite, o l’interazione fra pubblico e privato, avevano cominciato a suscitare qualche attenzione per le sue ricerche. E se al crescente desiderio di sapere qualcosa di più della ‘storia delle donne’ lei rispondeva piccata che essa era «un non senso» (perché «non si dà storia di una metà indifferenziata della popolazione terrestre», Per la storia della questione femminile, cit., p. 453); se a più riprese sentiva il bisogno di prendere le distanze da toni e obiettivi di un discorso neofemminista avvertito come pericolosamente incline a idealizzare condizioni di vita preindustriali e dunque a promuovere una lettura in chiave reazionaria della storia, restava il fatto dell’innegabile centralità ormai assunta – grazie a movimenti, bisogni e corpi di donne che inondavano le piazze e i cartelli d’Italia – da temi strettamente correlati a quella «questione femminile» che per lei aveva ormai «valore metodico», configurandosi come «un metro di giudizio», come sostenne nel 1975 (in Motti - Savelli, 1998, p. 380), ma che proprio per questo non poteva né doveva essere separata dalla «storia generale».
Nel 1974 uscì, presso Mazzotta, Socialismo e questione femminile in Italia 1892-1922, che ai saggi sulle sigaraie e a quelli pubblicati nel 1966 e nel 1969, aggiungeva nuove riflessioni sugli anni 1898-1922 (ma saltando a piè pari la Grande Guerra, a cui accennava solo in rapporto alla drammatica spaccatura fra interventiste e non). In essi insisteva sulle incomprensioni socialiste per il valore politico delle battaglie condotte dalle «femministe borghesi» per i diritti delle donne, qualunque fosse la loro condizione economica e sociale, e sulla gravità della decisione del PSI di obbligare le proprie iscritte a rompere i rapporti con loro. Subito dopo, metteva a punto un’antologia di scritti di Anna Maria Mozzoni (1975) che – aperta da un’introduzione accentuatamente simpatetica (pp. 7-32) e lanciata da un titolo che parlava dei tempi nuovi, La liberazione della donna – aprì la strada anche alla riedizione (e alla fortuna) del volume del 1963.
Ormai la questione femminile non era più concepita da Pieroni come «parte della questione sociale», ma come tema autonomo, dotato di senso e di valore pari a quella: perché – scriveva nel 1975 – fino a quando «il concetto della proprietà di una persona da parte di un’altra non è distrutto nel suo fondamento – nel rapporto fra la donna e l’uomo – la produzione soffocherà e bloccherà i produttori» (in Buttafuoco, 1987, p. 94). Nonostante tutto, Pieroni finiva per accogliere alcuni tratti di fondo dell’impianto politico-culturale del movimento neofemminista, tanto da rimproverare a più riprese al PCI le permanenti timidezze in fatto di divorzio, aborto e consultori, di sessualità e di famiglia, o l’ambiguità di parole d’ordine come la difesa del «valore sociale della maternità», frutto a suo parere di una sottovalutazione antica dei temi relativi alla «libertà individuale», specie in rapporto alle donne, operante perfino in Gramsci: «La freccia femminista manca all’arco culturale di Gramsci», scriveva nel 1977 (in Buttafuoco, 1987, pp. 128-178).
Più o meno negli stessi anni tornava sul ruolo svolto da Anna Kuliscioff, sottolineandone «l’estrema intelligenza politica» e il contributo decisivo alla nascita e al consolidamento del PSI, ma anche i limiti di opportunismo tattico e determinismo strategico che avevano scandito il suo modo di impostare la questione femminile, dall’estrema moderazione in tema di divorzio e diritto di famiglia al misconoscimento dell’importanza dell’azione di un femminismo «interpartitico e interclassista» (Anna Kuliscioff e la questione femminile, in Anna Kuliscioff e l’età del riformismo. Atti del convegno di Milano, dicembre 1976, Roma 1978, pp. 115, 137).
A orientare le sue valutazioni era, in maniera sempre più esplicita, la capacità di un sistema politico di farsi carico del femminismo: un movimento che – essendo «sorto per creare rapporti liberi tra liberi individui divenuti socialmente eguali», e dunque per «liberare» tutte le donne, proletarie o borghesi che fossero – aveva assoluto bisogno di democrazia: «ciò che un tempo, del nostro antifascismo, ci pareva secondario è diventato, anche sul piano della confessata consapevolezza, più importante di tutto, e decisivo: vale a dire il senso della libertà di ciascuno come base, e più ancora come riprova, del libero sviluppo di tutti», scriveva nelle Conclusioni di Femminismo e partiti politici in Italia 1919-1926 (Roma 1978, p. 387).
Le domande che ispiravano il volume – molto attento anche a quanto avveniva negli stessi anni in Europa, in Unione Sovietica e nel Comintern – erano quelle di sempre, ma con una forte attenzione all’intreccio fra diritti personali, civili e politici: perché il femminismo democratico e liberale aveva scambiato la speranza di conquistarsi più diritti e più libertà con l’impegno a favore della guerra? Perché in Italia socialiste e comuniste si erano disinteressate della legge Acerbo o delle leggi che penalizzavano duramente la contraccezione e l’aborto? E perché i dirigenti delle frange più ‘rivoluzionarie’ si erano dimostrati così poco consapevoli del nesso che legava l’antifemminismo al cesarismo in ascesa e al razzismo di cui esso era portatore?
Quelle stesse domande aleggiano anche nei contemporanei scritti di Pieroni sul mondo dell’antifascismo, inquinato dall’ombra lunga dell’antifemminismo clerico-fascista, e su una Resistenza delle donne troppo spesso e a lungo considerata essenzialmente in chiave di maternage, fino a depotenziarne la valenza di esperienza cruciale per la nascita di una coscienza politica femminile individuale e di massa: un meccanismo in cui lei stessa era rimasta impigliata in anni giovanili, e da cui avevano finito per essere fagocitate numerose ‘resistenti’, come emergeva dalle oltre 2000 risposte al questionario che aveva dato voce alle protagoniste di quella lotta e che essa aveva fortemente voluto. Risposte che confermavano come la Resistenza fosse stata «un autentico movimento di emancipazione», motore della «inversione di tendenza» rispetto all’ideologia della «sudditanza della donna all’uomo» tanto cara al fascismo, e generatrice di un numero rilevante di dirigenti politiche (Le donne nella Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia Romagna, 1943-1945, II, Milano 1978, pp. 7-211).
Tutavia, nonostante affermasse che pochi lavori come quello le avevano «indicato nuove vie di ricerca» (p. 9), l’interesse di Pieroni per i temi emersi nel corso di quella ricerca produssero solo le pagine (rimaste inedite) in cui ricostruiva la biografia di Gianfranco Sarfatti, suo compagno nel Fronte della gioventù di Firenze, morto partigiano in Val d’Aosta.
A prevalere fu, ancora una volta, l’assillo per il travagliato imporsi della questione femminile come tema cruciale della democrazia (e dell’orizzonte socialista) che colorava di sé sia le pagine introduttive al volume di Rina Macrelli su L’indegna schiavitù. Anna Maria Mozzoni e la lotta contro la prostituzione di Stato (Roma 1981, pp. IX-XXX), attente a sottolineare il ruolo della famiglia tradizionale nel mantenere vivo l’«assoggettamento sociale delle donne», sia la struttura del volume su La donna, la pace, l’Europa (Milano 1985). L’obiettivo, questa volta, era ricostruire l’originaria solidarietà fra questione femminile e lotte per la pace, evidenziando il nesso fra le «tre idre che chiamiamo sessismo classismo razzismo» e che impediscono di passare «dalla preistoria alla storia» (Introduzione inedita, 1983, in Motti - Savelli, 1998, pp. 410 s.). Di qui l’importanza assegnata alla ‘fase eroica’ dell’Associazione internazionale delle donne (Berna, 1868-80), diretta dall’indomita Maria Goegg e in vario modo legata all’Internazionale dei lavoratori prima e alla Lega per la libertà e la pace poi, ma anche la cura con cui ricostruiva i congressi divisivi in tema di pace, condizione femminile e socialismo tenutisi a Parigi e Londra nell’anno centenario della rivoluzione francese, progenitori della «aperture e distrazioni» (p. 246) che avrebbero scandito nel primo Novecento i rapporti fra femminismo e socialismo, l’uno e l’altro sensibili alle istanze portate avanti dal contemporaneo movimento per la pace, ma – vista la superficialità dell’adesione – pronti anche a ‘tradirlo’, come sarebbe accaduto – dopo le crepe del 1911 – nella drammatica estate del 1914.
Un improvviso aggravamento della malattia le impedì di occuparsi dell’ultima revisione del volume, uscito pochi giorni prima della sua morte (avvenuta a Firenze il 24 novembre 1985) e destinato ad avere scarsa circolazione, nonostante il crescente interesse per i suoi scritti da parte della generazione di storiche formatasi negli anni del femminismo, come di lei per loro.
Nell’ultima lettera, mai spedita (inizio ottobre 1983), commentando un fascicolo di una rivista emblema di quella generazione – Memoria. Rivista di storia delle donne – Pieroni ammetteva che era pieno di «cose interessanti […] che varrebbe la pena di approfondire», al di là del tono «ancora un po’ disinvolto e sentenzioso» (in Motti - Savelli, 1998, p. 409). E per converso, sarebbe stata proprio una esponente di quel femminismo degli anni Settanta a cui ella aveva guardato a lungo con sospetto, Annarita Buttafuoco, a far sì che Pieroni venisse riconosciuta come fondatrice, in Italia, degli studi di storia politica delle donne.
Fonti e Bibl.: Roma, Fondazione Istituto Gramsci, Fondo Franca Pieroni Bortolotti (si compone di 354 fascicoli e 333 scatole, relativi agli anni 1935-1983. Fondamentali per la comprensione dei nodi intorno a cui ruotò la sua riflessione storiografica e politica sono i due volumi di inediti curati e introdotti rispettivamente da A. Buttafuoco, F. P. Bortolotti. Sul movimento politico delle donne. Scritti inediti (Roma 1987) e da L. Motti - L. Savelli, Ma tu voce festiva della speranza. Scritti inediti di F. P. Bortolotti (Pisa 1998). Altri inediti sono stati pubblicati subito dopo la sua morte con il titolo Appunti sulle origini del movimento femminile tra ’800 e ’900. Due lezioni, testi e lettere sulle lotte delle donne in Italia e in Europa, Roma 1986. L’Archivio dell’INSMLI (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia) di Milano conserva, nel Fondo Franca Pieroni Bortolotti, la biografia di Gianfranco Sarfatti e le carte relative a tale ricerca. L’Elenco delle pubblicazioni più completo è in calce al volume a cura di Motti - Savelli (pp. 422-427).
Oltre agli ampi saggi introduttivi ai volumi di inediti curati da Buttafuoco (pp. VII-LXIII; ripubblicato con il titolo ‘La trama di una tradizione’. Leggere F. P. Bortolotti, Siena 2001) e da Savelli - Motti (pp. 11-45, 46-108), sono da vedere le considerazioni di P. Di Cori, Impadronirsi del linguaggio. Lettera da Londra sulle parole delle donne e i vocabolari degli uomini, in Storia e problemi contemporanei, 1989, n. 4, pp. 35-44; N. Capitini Maccabruni, Socialismo e questione femminile, in Italia contemporanea, 1990, n. 178, pp. 145-150; A. Rossi Doria, L’intreccio tra la vita e l’opera di una storica, in Studi storici, 1999, n. 4, pp. 1161-1172; M. Pacini, F. P. Bortolotti: alla ricerca delle origini, in Genesis, 2014, n. 1, pp. 157-170. Utili spunti di analisi del suo lavoro nell’autobiografia di L. Bortolotti, Memorie di un piccolo borghese comunista dal 1926 al 2012, Roma 2013.