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FOTOGRAFIA

di Aldo FRACCAROLI - Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)
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FOTOGRAFIA (XV, p. 782; App. II, 1, p. 963)

Aldo FRACCAROLI

La caratteristica più notevole nel campo della f. in questi ultimi anni consiste nell'orientamento verso un automatismo sempre più spinto, sia nel campo delle camere fotografiche (e cinematografiche) da presa, sia nelle apparecchiature per laboratorio (sviluppatrici, ingranditori, stampatrici in grande, essiccatrici, ecc.), così che dilettanti e professionisti dispongono di apparati in grado di adempiere quasi da soli le svariate operazioni per impressionare il materiale sensibile e, poi, per il suo trattamento in camera oscura nonché per la rifinitura. La tecnica di presa è stata modificata, oltre che dall'automatismo, dal prevalere del piccolo formato con la conseguente corta lunghezza focale (e quindi ampia profondità di campo) degli obiettivi, dall'aumentata luminosità di questi ultimi e, infine, dall'accresciuta sensibilità delle emulsioni.

Da notare anche l'introduzione di una fotocamera nordamericana (Polaroid), non molto più grande di un comune apparecchio del medesimo formato, che grazie agli speciali rulli negativi-positivi (di 8 pose nei formati 6 × 8 o 8,5 × 10,5 cm, con sensibilità di 24, 27 e 36 °Din) permette di sviluppare e stampare in soli 60 sec le fotografie da essa stessa appena scattate. A tale scopo ogni fotogramma del rullo è dotato della giusta dose di prodotti chimici per il suo trattamento: scattata una fotografia, l'apparecchio si trasforma per così dire, in camera oscura, sviluppando, invertendo e fissando - mediante i prodotti chimici liberati da una manovra dell'operatore - l'immagine, nel tempo appunto di 1 minuto. Esistono (1960) tre modelli di Polaroid nei formati suindicati e con obiettivi 1:8,8 ÷ 1:4,7; ed esiste anche un dispositivo ausiliario per ottenere, mediante il medesimo procedimento negativo-positivo, ulteriori copie da quelle, uniche, eseguite con il vero apparecchio da presa. Del sistema Polaroid può venire dotata (con uno speciale dorso) anche la Linhof Technika, che sarà ricordata più avanti. Un effimero ritorno è stato quello della stereofotografia, che ha scarso séguito nonostante alcune brillanti innovazioni, come quelle della italiana Duplex 120, con la quale si ottengono 24 coppie di stereofotografie formato 23,5 × 25 mm sulla normale pellicola detta 120 (8 pose 6 × 9 cm).

L'ottica è stata influenzata anzitutto dall'uso delle calcolatrici elettroniche, che hanno permesso la progettazione di obiettivi in un periodo di tempo incomparabilmente più breve di quanto necessario in precedenza. Si sono anche ripresi vecchi schemi (per es. il tipo Gauss, usato per fotografia fin dal 1889) ristudiandoli sulla base delle nuove possibilità, mentre l'impiego dei nuovi vetri dotati di elevata rifrazione e il trattamento antiriflettente delle lenti hanno grandemente perfezionato la resa, anche per il colore (v. anche strumenti ottici, in questa App.). Gli obiettivi di lunghezza focale normale (cioè all'incirca pari alla diagonale del formato del materiale sensibile vergine, da impressionare) non hanno invero superato di molto le aperture 1:1,5 e 1:1,4, alle quali si era già giunti prima del 1940, ma ci si è spinti a valori fra l'1:1,1 e l'1:0,9; con obieitivi normalmente in commercio per foto- e cinecamere. Un netto passo verso luminosità più elevate si è avuto nei nuovi obiettivi grandangolari, la cui correzione è tale da permettere aperture di 1:4,5 e 1:4 in obiettivi di 21 mm di focale per il formato 24×36 mm (formato cosiddetto Leica), mentre fino a 10 o 15 anni addietro non si superava la luminosità 1:8 e 1:6,3 per obiettivi di 28 mm di focale. Rispetto all'angolo di allora, 75÷90°, si è arrivati a 90° e perfino a 120° in apparecchi di normale impiego. Anche nel campo degli obiettivi di lunga focale, e in particolare dei teleobiettivi, si sono raggiunte luminosità assai forti, sì che sono ora in commercio, per esempio, ottiche molto incisive da 180 mm di focale con apertura 1:2,5.

Una tendenza degli ultimi anni, che sembra però ormai superata, consisteva nella possibilità di svitare il gruppo ottico anteriore in alcune macchine del formato Leica, applicando un'aggiunta teleobiettivo, o una aggiunta grandangolo che, in unione col gruppo ottico posteriore, fisso, aumentava o riduceva la lunghezza focale (da 45÷50 mm a circa 75÷80 e rispettivamente 30÷35 mm) mantenendo piuttosto elevata la luminosità del complesso (1:4÷1:5,6). Questa soluzione comportava ingombro e spesa non di molto inferiori a quelli di completi obiettivi con identiche caratteristiche, pur presentando il vantaggio di avere le lamelle dell'otturatore circa a metà lunghezza dell'obiettivo, mentre in altri apparecchi - dotati anch'essi di otturatore centrale, ma con l'intero obiettivo smontabile e sostituibile - la posizione delle lamelle dell'otturatore, dietro l'obiettivo, non è ideale ai fini della sua migliore efficienza e della distribuzione della luce sul materiale sensibile.

L'obiettivo con lunghezza focale variabile, che qualche decennio addietro suscitò vivo interesse per teleobiettivi specialmente inglesi e tedeschi, si è ora diffuso nelle cinecamere anche per dilettanti (di passo ridotto, cioè con 16 e 8 mm di larghezza) ove permette di valersi di un solo obiettivo (anziché tre: normale, grandangolare, lunga focale) e di effettuare, per giunta, "carrellate ottiche", e comincia a introdursi anche nelle fotocamere formato Leica: dopo il Voigtländer Zoomar - 1:2,8 grandangolo, normale e moderatamente di lunga focale, molto complesso (14 lenti) e costoso, che permette un'escursione di 2,28 volte nella lunghezza focale, essendo di 36 mm la sua focale minima e di 82 mm quella massima - si è avuto il teleobiettivo Auto-Nikkor Telephoto Zoom 1:4 con ben 165 focali diverse tra la minima (85 mm) e la massima (250) e un'escursione di 2,95 volte. Da qualche anno sono apparsi obiettivi con montatura elicoidale prolungata che permette ampî movimenti di tiraggio, rendendo così possibile la messa a fuoco fino a 10 e addirittura 5 cm senza sussidio di alcun accessorio.

Gli otturatori centrali sono passati da velocità di 1/400÷1/500″ a quelle di 1/800″ e perfino 1/1000″; e questo tipo viene spesso preferito. anche nel formato Leica, per la possibilità di accoppiamento con il lampo al magnesio e con il lampo elettronico fino alle più elevate velocità. Per contro, l'otturatore a tendina - che raggiunge 1/1000÷1/2000″ - è sincronizzabile soltanto per 1/25÷1/50″, ma tale tipo domina tuttora negli apparecchi sportivi e nei più pregiati apparecchi "24×36" di fabbricazione giapponese, tedesca e svizzera.

Da rilevare l'introduzione della scala dei valori di luce, che in alcuni recenti modelli di otturatore centrale accoppia meccanicamente i comandi del diaframma e dei tempi di otturazione; sicché l'operatore, impostato il giusto "valore di luce" per una determinata ripresa, può modificare la combinazione diaframma-tempo spostando un'unica leva, la quale apre il diaframma e aumenta la velocità di scatto o nell'altro senso, chiude il diaframma e diminuisce la velocità, secondo le necessità di quella data fotografia.

Nelle fotocamere si nota la quasi totale scomparsa del medio formato e la grande voga degli apparecchi adoperanti pellicola perforata di 35 mm di larghezza che fornisce negativi di 24×36 mm netti (Leica, in commercio dal 1925, e derivate), 24×24 mm (Robot) e anche 18×24 (dimensioni identiche a quelle del fotogramma cinematografico). Si arriva perfino a minicamere che usano pellicole di 16 e di 9,5 mm di larghezza, con negative di 10×14 mm e meno. Dall'altro lato esistono grandi apparecchi di tipo professionale (9×12 cm o 4×5 pollici [10,2×12,7 cm], 13×18 e 18×24 cm o 8×10 pollici [20,3×25,4 cm]), dotati di decentramenti, basculaggio e altri perfezionamenti che consentono riprese di architetture, scientifiche, pubblicitarie in condizioni difficili o che sarebbero addirittura impossibili per le Leica. A metà sta il formato quadrato 6×6 cm, notevolmente usato per la grande diffusione di una macchina a specchio riflettore (reflex), con 2 obiettivi (Rolleiflex, introdotta nel 1929), di cui quello superiore funge da pilota (inquadratura e messa a fuoco), mentre quello inferiore impressiona il materiale sensibile. Moderatamente adoperati il formato 4,5×6 cm (16 fotogrammi su pellicola 6×9) e quello 4×4 cm (12 fotogrammi su pellicola 4×6,5). È stato infine recentemente introdotto il formato 56×72 mm, in pellicola, da usarsi con speciali adattatori per una macchina professionale di grande formato (Linhof Technika). Il formato 6×6 cm - che permette 12 fotogrammi sulla normale pellicola 120 - è impiegato anche da alcune reflex classiche (cioè a un solo obiettivo, che serve per l'inquadratura e la messa a fuoco, e poi, al momento dello scatto, impressiona la pellicola, grazie al ribaltamento dello specchio). La reflex monobiettivo offre i vantaggi della mancanza di parallasse e della possibilità di cambiare l'obiettivo e di inserire - tra esso e la camera - anelli, tubi o soffietti che rendono possibile eseguire fotografie a breve distanza e macrofotografie, nonché, nel formato 24×36 mm, di fornire, grazie al pentaprisma inserito tra lo specchio e l'oculare, una visione con i lati non invertiti: tali pregi sono determinanti per la grande diffusione delle reflex 24×36 mm di cui la prima fu la Kine-Exakta del 1936. Si può infatti stimare superato il telemetro negli apparecchi tipo Leica, poiché questo congegno, avendo una base necessariamente ridotta (massimo 8 cm circa), non è in grado di fornire dati sufficientemente precisi per le focali superiori ai 15÷18 cm, stanti inoltre le elevate luminosità dei recenti teleobiettivi, le quali esigono una messa a fuoco assai accurata. Salvo alcune fotocamere di grande formato per usi particolari, le più perfezionate - e costose - macchine del 1960 appartengono appunto al tipo reflex monobiettivo, costruite non soltanto dall'industria tedesca, svizzera e svedese, ma anche da quella nipponica cui spetta il merito di ulteriori migliorie: per es., lo specchio che, subito dopo lo scatto, ritorna nella posizione inclinata per consentire all'operatore una visione praticamente continua attraverso l'obiettivo e il prisma. L'automatismo delle più perfezionate fotocamere è ora tale che, con il movimento di una leva, si: avanza la pellicola, arma l'otturatore, avanza il numeratore contapose, apre il diaframma. Inoltre, al momento dello scatto, il diaframma (che nelle reflex viene tenuto spalancato, durante la messa a fuoco, affinché quest'ultima riesca molto accurata) assume in via automatica il valore preventivamente stabilito (prediaframma).

Gli esposimetri a fotocellula, in uso dal 1932 circa, sono stati montati nel corpo di molti apparecchi e poi accoppiati al diaframma dell'obiettivo in modo che, facendo combaciare un indice a un controindice (talora visibili nel campo del mirino, per assicurare all'operatore maggiore immediatezza), il diaframma venga regolato al giusto valore per quella determinata ripresa. Se ciò va bene per le cinecamere (nelle quali le velocità normali sono fisse: 16 fot./sec per il muto, 24 per il sonoro), per le fotocamere la regolazione del diaframma in rapporto al tempo di posa (oltre, beninteso, in rapporto alla sensibilità della pellicola, alle condizioni di luce, al soggetto che si vuol ritrarre, ecc.) equivale a snaturare l'impiego del diaframma, che dovrebbe servire non tanto per regolare la quantità di luce che entra attraverso l'obiettivo, quanto per dosare la profondità di campo. Appare quindi indovinata la soluzione dell'Agfa Optima, nella quale si ha l'inserimento automatico di diaframmi (da 1:3,9 a 1:22) e di tempi (da 1/30 a 1/250″) mediante un complesso sistema elettromeccanico asservito a una cellula al selenio e attuato con il movimento di una leva. La messa a fuoco - unico valore che l'operatore deve regolare - è semplificata anche dalla corta focale dell'obiettivo (39 mm): ritratti, gruppi, paesaggi.

Il materiale sensibile negativo in bianco e nero è passato, nello spazio di pochi anni, dai 18÷21 °Din a 27, 30 e perfino 40 °Din, secondo il contrasto del soggetto. Il potere risolutivo è giunto a 75÷85 linee per mm nelle emulsioni di media e alta sensibilità, e addirittura a 150÷180 nelle speciali emulsioni per microfilm, a bassa sensibilità. Notevoli progressi sono stati conseguiti anche per le emulsioni a colori, e non solo nella sensibilità (13÷18 °Din), ma nella resa cromatica e nella latitudine di posa. Questo materiale viene prodotto in prevalenza nel tipo invertibile (cioè per diapositive) ma anche in quello negativo, dal quale si ricavano copie a colori per contatto o ingrandimenti. Le diapositive sono le sole usate per la riproduzione in libri e riviste, e da esse si possono ottenere copie positive su printon o altri speciali supporti.

Nel campo della fotografia scientifica vanno ricordati gli apparecchi per riprese ultrarapide (fino a 25.000÷160.000 immagini/sec), panoramiche (da 180 fino addirittura a 360°) e lo speciale complesso usato per fotografare la faccia a noi invisibile della Luna. Montato sulla "stazione interplanetaria automatica Lunik III", lanciata dall'Unione Sovietica il 4 ottobre 1959, il congegno consisteva essenzialmente: in 2 obiettivi (da 20 e da 50 cm di focale) che impressionavano alternamente un medesimo nastro di pellicola 35 mm perforata; in una massa porosa imbevuta del bagno sviluppatore e fissatore; e in una stazione radiotrasmittente televisiva che inviò le 400 immagini impressionate (di 25×25 mm ciascuna; "lettura" max. 1000 linee per immagine) sulla Terra, ove esse furono registrate e stampate su pellicola fotografica. Da rilevare il fatto che la ripresa delle fotografie fu effettuata su radiocomando da Terra allorché il Lunik III risultò nella posizione voluta tra Luna e Sole, alla minima distanza dalla Luna ed esattamente orientato grazie a giroscopî; e anche la trasmissione televisiva dal Lunik alla Terra fu comandata da impulsi radio al momento opportuno.

Tra gli accessorî, di fronte alla quasi totale scomparsa delle lenti addizionali - le quali esigono, oltre all'uso del vetro smerigliato, quei rilevanti spostamenti nel tiraggio della fotocamera che la sostituzione del soffietto con un corpo rigido ha reso impossibili - si nota l'impiego sempre più frequente delle lampadine al magnesio, di costo molto tenue ma che durano solamente per una fotografia, e dei lampeggiatori elettronici, che, alimentati da una batteria o dalla rete-luce, sono dotati di una lampadina che può dare decine di migliaia di lampi intensissimi, di durata tanto breve (1/2000÷1/8000 sec.) da non abbagliare gli occhi dei soggetti, e con una temperatura di colore (circa 5600 °K) praticamente identica a quella solare. Per contro, le pellicole a colori esigono speciali filtri se usate con luce diversa (troppo "fredda" o troppo "calda") da quella per cui sono tarate.

Molto diffusi e perfezionati i proiettori di diapositive, nei quali l'automatismo permette la visione consecutiva di decine di immagini senza intervento dell'operatore, ma con la possibilità di arresti, ritorni e rifiuti.

Una innovazione assai importante per il laboratorio è data dall'introduzione della carta a contrasto variabile (mediante filtri opportunamente interposti tra la sorgente luminosa o l'obiettivo e l'emulsione sensibile). Ciò permette l'uso di bobine di una sola gradazione di carta, invece delle 4÷6 finora in uso, accelerando grandemente le operazioni di stampa - per contatto o per ingrandimento - (fino a 700÷3000 copie/ora) grazie alle stampatrici automatiche dotate di lampadine fortissime e di cellule fotoelettriche che, esplorando le negative, determinano il tempo di posa. Anche lo sviluppo delle pellicole è stato reso automatico, e i varî rulli, congiunti uno dietro all'altro, vengono fatti passare nei differenti bagni (sviluppo, arresto, fissaggio, lavaggio) a una velocità che è stata preventivamente regolata.

Bibl.: R. Kingslake, Lenses in photography, Garden City 1951; C. Marin, la fotografia a luce-lampo, Trieste 1954; A. Ornano, Il libro della Leica, Genova 1955; H. Freytag, La pratique du Contax, Parigi 1955; Eastman Kodak Company, Kodak filters and polarsreens, 4ª ed., Rochester 1956; F. Ferrero, Il procedimento "Schlieren", in Il Corriere fotografico, n. 62, Torino 1958; F. Ferrero, Come fu fotografata la faccia per noi invisibile della Luna, in Il Corriere fotografico, n. 73, Torino 1959; O. F. Ghedina, Il libro del fotocolore, Milano 1959; S. Guida, Il nuovo fotolibro, Milano 1959; A. Ornano, Il libro della foto, 4ª ed., Milano 1959; P. Pollack, Storia della fotografia dalle origini a oggi, Milano 1959; O. F. Ghedina, Foto ricettario, Milano 1960.

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