Fotografia
Nell'introduzione di uno dei primi, attendibili manuali storico-tecnici sul cinematografo l'autore, Eugène Trutat, ne loda l'essenza trattando della "meravigliosa sensibilità della pellicola fotografica" in grado di "far rivivere il passato", anzi, addirittura "di simulare la vita". Stampato nel 1899, il libro non poteva che intitolarsi La photographie animée. Cinema, dunque, come estensione dell'uso dei materiali fotografici; cinema che, nella prefazione al volume, lo stesso Étienne-Jules Marey si ostina a definire chronophotographie, ribadendo un'ideale e, in parte effettiva, primogenitura, ma continuando, nel contempo, a celebrarne la scientificità.
Se Marey, nella messa a punto della chronophotographie, non era riuscito ad assicurare né l'equidistanza delle immagini analitiche in sequenza, comunque fissate, né un apparato che ne permettesse la sintesi (ovvero la proiezione), si deve a Émile Reynaud non solo l'idea della perforazione che consentiva la regolarità dello scorrimento delle 'bande pellicolari', ma anche l'intuizione, nel 1888, del possibile utilizzo nel suo Théâtre optique, di "una striscia flessibile di lunghezza indefinita recante una serie di pose successive […] che possono essere disegnate a mano o stampate con un qualsiasi procedimento […] o ottenute dalla natura per mezzo della fotografia" (in Émile Reynaud, peintre de films 1844-1918, 1946, p. 58). Nella prima fase, quella pionieristica, si può parlare quindi di 'fotografia animata'. Tanto più quando, nei primi spettacoli dei fratelli Lumière, la proiezione di ogni film iniziava con il primo fotogramma fisso, evocando un consueto spettacolo di lanterna magica, prima di attivare la 'simulazione della vita'. Consueto in quanto, evolutasi la f. sul binomio negativo/positivo su vetro, i primi a utilizzarla in modo spettacolare erano stati proprio i lanternisti. L'intreccio delle esperienze e delle contaminazioni viene da molto lontano e, spesso, più che realizzato da scienziati o studiosi, è stato intuito e poi attuato da abili e concreti sperimentatori più liberi di spaziare in quel nuovo che, comunque, deriva (come ogni scoperta, ogni invenzione) da una concatenazione di altre esperienze precedenti. Parlare di 'fotografia animata' ne giustificava una squisita vocazione scientifica, mentre parlare di 'cinematografo' poteva evocare altre possibili destinazioni (poi in realtà concretizzatesi). Il principale elemento che ha permesso la diffusione più capillare della f. è stato l'introduzione della celluloide come supporto. Marey, dopo l'uso iniziale della carta sensibile, la adottò, seppur in modo imperfetto, non appena venne immessa sul mercato da Georges Eastman, verso la fine del 1889. William K.L. Dickson la dotò in seguito di un sistema di perforazione regolare nella fase ulteriore della ricerca affidatagli da Thomas A. Edison, in un primo momento (1891) con strisce larghe 3/4 di pollice (19 mm) e, successivamente (1892), privilegiando con un modulo nuovo quei fatidici 1 pollice e 9/16, ovvero 'il 35 mm' che, come supporto di pellicola, è ancora sinonimo del cinema per antonomasia.Vale la pena di ricordare subito quello che, probabilmente, è stato il risultato più alto dell'interscambio fotografia-cinema. Dopo quasi un decennio di sperimentazione, infatti, nel 1925 uscì dalle officine di Ernst II Leitz la prima fotocamera Leica (LEItz CAmera), progettata da Oskar Barnack, per la quale si adottò la stessa pellicola del cinema, facendola però scorrere orizzontalmente e impegnando, per coprire una superficie più ampia, otto perforazioni per lato (nel cinema, il medesimo supporto cammina in verticale e ogni fotogramma corrisponde a quattro perforazioni con un iniziale rapporto, tra base e altezza, di 1,33×1). Nei primi anni Cinquanta, per cercare di contenere la perdita di spettatori dovuta alla televisione, il cinema ricorse a schermi più ampi, recuperando così invenzioni precedenti ma cadute in disuso. Per far concorrenza al Cinemascope della 20th Century-Fox (sistema anamorfizzato), la Paramount brevettò e iniziò a sfruttare il Vistavision, che prevedeva, in ripresa e in proiezione, un uso della pellicola analogo a quello del 'formato fotografico 24×36', con un rapporto che, se nello scorrimento orizzontale arrivava a coprire sullo schermo uno spazio 1,85×1, poteva anche offrire una proiezione con meno ingrandimenti, data l'area maggiore, ottenendo così una definizione superiore. Un'ottimizzazione questa che, tuttavia, imponeva l'introduzione di macchinari incompatibili con gli altri sistemi in uso. Del resto, com'è sempre accaduto di fronte ai nuovi ritrovati tecnologici via via adattati alle strumentazioni consuete, grazie anche alla rinnovata qualità delle emulsioni si è optato per una riduzione ottica del fotogramma, reinserito, in stampa, nella normale pellicola a scorrimento verticale: sullo schermo il rapporto più spinto (semplificando si parlerà solo di 'panoramico') viene confermato da un ingrandimento dell'immagine e dal taglio, con opportuno mascherino, delle porzioni in esubero (i due bandoni neri che si continuano a vedere quando un film passa nel normale schermo televisivo).
Se si pensa a quanto si era ormai potuto vedere da anni su positivi fotografici, sui relativi cliché da stampa e, soprattutto, sugli schermi, è paradossale che ancora nel 1912 si tentasse di offrire scientificità a fenomeni legati alla trascendenza diffondendo un Contributo sperimentale alla constatazione dei fenomeni medianici con prefazione […] e numerose fotografie stampate dalle negative originali, come fecero i Fratelli Bocca di Torino, nel libro Fotografie di fantasmi di Enrico Imoda. Paradossale perché esisteva già a fine Ottocento un'ampia e circostanziata manualistica che insegnava dettagliatamente a truccare le fotografie. Era chiaro il metodo di riesporre, anche più volte, un negativo, magari mascherandolo in parte, dato che l'emulsione non colpita da radiazioni luminose rimane sensibile fino al momento dello sviluppo. Era peraltro chiaro che sempre nelle medesime zone non colpite dalla luce, durante la fase dello sviluppo, l'emulsione si scioglie rendendo palese il supporto trasparente. Infine c'era la consapevolezza che, sia riesponendo le zone ancora sensibili sia sovrapponendo più negativi con porzioni reciprocamente trasparenti, era possibile combinare immagini realizzate in situazioni diverse e in scala diversa, creando assemblaggi perfino fantasiosi e irreali, simili a quelli ottenibili ritagliando particolari da più stampe, incollandoli nei punti opportuni e poi rifotografando il tutto, per quanto la tecnica del fotomontaggio, fino all'era del digitale, sia stata sempre la meno invisibile tra tutte le possibili manipolazioni. Questo patrimonio tecnologico (che sul piano del principio è tuttora in uso) venne gradualmente trasferito nel nascente cinematografo.
I primi film duravano quanto la tecnologia della fabbricazione dell'infiammabilissimo supporto di nitrato di cellulosa permetteva: poco più di un minuto, cioè quanto 50 piedi, circa 17 m, impiegano a occupare lo schermo alla frequenza di 16 fotogrammi al secondo. E fu a causa dell'inceppamento di un rullino di pellicola che Georges Méliès si accorse, nel 1896, che la marcia continua della sua cinepresa poteva essere interrotta e ripresa senza che ciò fosse percepito durante la proiezione dallo spettatore. O meglio, lo spettatore si accorgeva di un repentino cambiamento (per es., poteva avvenire una mutazione uomo-donna), ma l'espediente lo stupiva e lo divertiva molto più di quanto facessero gli ormai ingenui, anche se sempre efficaci, prodigi della lanterna magica. Méliès, dunque, trasferì nel cinema ‒ con il primo, fondamentale 'effetto speciale', la 'sostituzione' (arrêt de caméra) ‒ alcuni trucchi di palcoscenico del suo teatro illusionistico, semplificandone peraltro la dinamica. Passaggio cui fece seguire subito un potenziamento, reso possibile dalle manipolazioni fotografiche, delle diverse fantasticherie; materializzazioni di alter ego, visioni di mostri e fantasmi e ingrandimenti o miniaturizzazioni di corpi o di loro porzioni; compimento di viaggi ritenuti allora impossibili, come volare sulla Luna o immergersi nelle profondità marine (si pensi a Le voyage dans la Lune, 1902, Il viaggio nella Luna). Méliès pose le pietre miliari sulla via di una finzione da lui materializzata mediante codici (scenografie, trucco, costumi) di derivazione teatrale (lavorando, del resto, dal 1897 in quel suo teatro di posa di Montreuil, il primo per il cinema, provvisto di un perfetto palcoscenico con botole, tiri e praticabili, ricoperto, come gli studi fotografici del tempo, da enormi vetrate). L'unica fonte d'illuminazione possibile per le emulsioni (fotografiche o cinematografiche, tutte ortocromatiche, cioè non sensibili al rosso della nascente incandescenza elettrica) era in effetti la luce del Sole, al limite filtrata da teli di mussola di cotone bianco per ammorbidire le ombre (la cosiddetta diffusa). Per controllare le tonalità di grigio, Méliès gestiva ogni elemento in quella sola gamma cromatica (il 'colore' del bianco e nero). La prassi continuò nel tempo come negli altri studi edificati e funzionanti sugli stessi principi, con in più, eventualmente, l'ausilio di tabelle che aiutavano chi volesse utilizzare i colori a progettarne le risultanti nella codificazione in bianco e nero. E la stessa prassi, infine, si consolidò quando, soprattutto per gli sfondi visibili attraverso le aperture (finestre, balconi, porte) degli interni ricostruiti in teatro di posa, come del resto per gli esterni indispensabili nella loro rapida ma sicura ambientazione realistica (palazzi storici, scorci particolari ecc.), vennero privilegiati gli ingrandimenti fotografici ritoccati ad arte, anche di notevoli dimensioni. Per quanto riguarda gli effetti speciali come le doppie esposizioni con mascherature fisse o mobili, che 'appiccicavano' gli attori su sfondi non 'dal vero' ‒ sfondi che, invece di assumere una dimensione di libera o strumentale fantasia così da poter essere dipinti da un bravo specialista (glass shot, ossia pittura su vetro), invocavano ancora verosimiglianza ‒ si adottarono, nella sovrapposizione controllata, anche positivi fotografici su carta o su vetro. E questo persino, sebbene con risultati meno efficaci, nell'era dell'introduzione del colore nel cinema.
Ritornando all'evoluzione storica, si può dire che un altro elemento fondamentale che la pratica fotografica poté offrire alla nascente Decima Musa fu appunto il colore. Il mondo nella rappresentazione figurativa, prima dell'utilizzo più diffuso della f. e della sua riproducibilità tipografica, non era stato generalmente in bianco e nero, salvo che per i pochi, raffinati cultori dell'arte grafica e incisoria. Pigmenti e cromatismi costituivano da sempre l'essenza delle opere degli artisti. Già sul fronte più popolaresco, i lanternisti dipingevano a mano con lacche, coloranti organici e acquerelli prima le loro miniature su vetro e successivamente le stampe positive fotografiche; la serialità delle 'vedute d'ottica' prevedeva almeno la loro tinteggiatura prima di essere offerte nei 'mondi nuovi', ossia negli spettacoli basati su repertori di vedute animate da giochi di luce. La stessa arte della stampa produceva immagini xilografiche colorate a matrice, ora profane ora di devozione, facilmente accessibili perché realizzate in tirature altissime. Fu così quasi ovvio, dall'era della dagherrotipia in poi, mentre si avviavano le complesse ricerche per la codifica diretta del colore, applicare manualmente tinture che dessero, uno per uno, maggiore verosimiglianza ai positivi fotografici. Operazione che per similitudine venne effettuata sulla pellicola cinematografica, a partire dal 1894, con le Serpentine dances prodotte da Edison per il cinetoscopio ed eseguite da Annabelle Whitford Moore. Quest'ultima, ispirandosi alla danzatrice Loïe Fuller, aveva introdotto negli Stati Uniti numeri teatrali spettacolarizzati con proiezioni di fasci di luce colorata. Se, nella pratica fotografica, si cercò di ricavare numerosi monocromi attraverso l'immersione delle stampe in bagni colorati (imbibizione) o provocando, con sali, reazioni sull'argento delle emulsioni (viraggi), nella prassi cinematografica intervennero le medesime dominanti, spesso combinate tra loro per creare una maggiore suggestione, soprattutto quando, con l'allungarsi dei tempi della narrazione, la manualità cominciava ad avere dei costi troppo elevati.
Uno degli oggetti d'uso comune nati con la f. è la cartolina illustrata, finalmente non più solo disegnata, ma realizzata anche con riprese dal vero. La sua diffusione fu tale che, intorno al 1895, negli Stati Uniti nacquero i primi processi automatici per stamparla a ciclo continuo. Rielaborando questi procedimenti, che permettevano il trasporto della carta sensibile dallo sviluppo al fissaggio, all'asciugatura e alla ribobinatura, Cecil Hepworth brevettò in Gran Bretagna, nel 1898, la prima sviluppatrice continua che avrebbe consentito al cinema di ottimizzare lo sviluppo dei negativi e la stampa delle copie. Rispetto al colore, la Pathé Frères, ispirandosi ai processi in uso da anni per la tinteggiatura delle stampe a larga diffusione e la decorazione delle stoffe (processi poi estesi anche alla decorazione delle stesse cartoline fotografiche), introdusse nel cinema (1906) il pochoir, la colorazione a matrici: a ogni colore corrispondeva una copia del film ritagliata nelle zone deputate, e ogni positivo bianco e nero, con sovrapposte, in sequenza, le varie matrici posizionate a registro, scorreva con procedimenti sempre più automatici mediante un'apparecchiatura dotata di rulli o pennelli costantemente inchiostrati. Con questo sistema che giocava, come la pittura a mano, sui vari grigi sottostanti per ampliare la gamma delle tonalità, vennero tinte, fino alla fine degli anni Venti, quando il cinema cominciò a parlare, opere di finzione, dai primitivi film da un rullo (300 m, per circa 15 minuti di proiezione a 16 fotogrammi al secondo) ai lungometraggi e, soprattutto, ai brevi filmati di sapore documentaristico dedicati all'illustrazione di ogni angolo del mondo.
Prima della scoperta degli agenti cromogeni, che avrebbe portato alla messa a punto dei sistemi di colore monopack (ovvero con gli strati di reagenti compattati in un'unica emulsione), era tuttavia possibile riprodurre immagini colorate d'après nature. Se, tipograficamente, dalla metà del Settecento (con Jacques-Christophe Lebon), era praticabile la stampa in tricromia basata sulla complementarità dei colori, nel 1855 l'inglese James Clerk Maxwell ne definì e allargò a sua volta il campo d'indagine ottenendo immagini di sintesi additiva, fotografando oggetti attraverso tre filtri (blu, rosso, verde) e proiettandone le risultanti coincidenti tramite i medesimi filtri. Non va dimenticato che l'intento che aveva mosso Joseph-Nicéphore Niépce nelle ricerche che lo portarono all'invenzione dell'eliografia (1825) era quello di avere delle 'matrici automatiche' per stampare immagini ottenute dal vero. Iniziò con lui l'epoca della fotoincisione, perfezionata, poi, da altri pionieri della f., primo tra tutti William Henry Fox Talbot, che avrebbe portato presto alla messa a punto dei procedimenti di fotomeccanica, permettendo agli editori di riprodurre tipograficamente immagini statiche a colori ricavate da una serie di lastre in bianco e nero, ottenute con filtri colorati con i colori primari e poi stampate con i complementari (ciano, magenta e giallo). Il 17 dicembre del 1897 il berlinese Hermann Isensee depositò un brevetto che proponeva di produrre "sullo schermo in una sequenza veloce immagini rosse verdi e blu, corrispondenti ai negativi realizzati tramite l'uso dei citati raggi colorati". In realtà, questo sistema, che prevedeva di accoppiare un disco rotante composto dai tre settori colorati all'otturatore di una normale cinepresa, non andò con ogni probabilità oltre la descrizione del brevetto. Nel momento in cui si semplificarono per ragioni percettivo-meccaniche i cromatismi ridotti a due dominanti (rosso-arancio e blu-verde), divenne possibile filmare e riprodurre (con il sistema Kinemacolor, 1906) sequenze a colori con sufficiente approssimazione, ma anche prendere una strada, quella della bicromia, che con altri svariati sistemi avrebbe permesso al cinematografo di iniziare il suo cammino verso i colori naturali. Nel Kinemacolor i due filtri colorati erano alloggiati nei settori non occludenti degli otturatori di cinepresa e proiettore, permettendo così di codificare e riprodurre coppie di fotogrammi successivi nelle rispettive dominanti. L'optimum ovviamente sarebbe stato quello di gestire tutti e tre i colori fondamentali. La procedura venne messa in opera solo a partire dal 1911 dalla Gaumont, che chiese e ottenne dalla Kodak un'emulsione finalmente pancromatica, cioè capace di ridurre al grigio tutti i colori (emulsione già, eccezionalmente, di-sponibile in f. e che, dati i costi, il cinema avrebbe adottato, gradualmente, solo a partire dai primi anni Venti, consentendo così ai direttori della fotografia, autentici scultori con la luce, l'adozione dell'incandescenza). Grazie alla nuova pellicola la Gaumont progettò apparecchiature di ripresa e proiezione in grado di trascinare tre fotogrammi alla volta: durante l'esposizione tre ottiche convogliavano sulle rispettive porzioni di pellicola (ridotte, il fotogramma perdeva in altezza, con un rapporto di 1,71:1, con 3 perforazioni per lato e non 4) la risultante delle tre filtrature colorate, mentre in proiezione le tre immagini venivano a loro volta inviate verso i rispettivi filtri andando a coincidere, sovrapponendosi, sullo schermo. Si trattava di un sistema additivo assai complesso, il Chronochrome (conosciuto anche come Gaumont Color), legato ad apparecchiature particolari e, per poco più di un decennio, a eventi, più che a regolari programmazioni. Il principio attuato (i tre monocromi) era comunque quello corretto, tanto che successivamente, ritrovate copie d'epoca, se ne è ricostruita la grande, potenziale, qualità. Di fatto il sistema prefigura il punto di arrivo più alto della conquista del colore nel cinema: il Technicolor tripack. Ci vollero quasi vent'anni di esperimenti e di faticosi tentativi, ma poi, nel 1934, il procedimento, diventato sottrattivo, entrò a regime, con una macchina da presa che impressionava, contemporaneamente, tre negativi bianco e nero nel codice dei colori primari, e i tre, relativi, positivi, la cui gelatina veniva indurita e leggermente ispessita, che diventavano tre serie di cliché. Queste ultime, inchiostrate, trasferivano (dye transfer), perfettamente a registro sul supporto trasparente, le impressioni cromatiche complementari, ricostruendo il colore, come accade in tipografia. L'era del 'Glorious Technicolor', quello dei colori saturi e vivaci, sarebbe durata un ventennio, prima che questo fosse riconvertito nel monopack, il quale stava a sua volta evolvendosi positivamente più o meno negli stessi anni. Si tratta di brevetti o prodotti che non solo hanno funzionato ma che sono entrati stabilmente nella produzione industriale e quindi nel mercato, mentre vengono tralasciate qui volutamente le centinaia di tentativi e sperimentazioni che sia nella f. sia nel cinema, e spesso in modo originale e non scambievole, hanno provato a stabilizzare procedimenti affidabili. Il primo supporto monopack, invertibile, venne commercializzato dalla Kodak nel 1935: si trattava di un 16 mm (la pellicola per gli amatori esigenti) che riprendendo un marchio già in uso da anni con tecnologie diverse, venne chiamato Kodachrome. Questa sua nuova e definitiva struttura, che venne resa accessibile anche in f. l'anno successivo, derivò in parte dagli studi effettuati in Germania da Wilhelm Schneider, ricercatore dell'Agfa. L'Agfa, sempre nel 1936, lanciò a sua volta una pellicola ancora amatoriale e ancora invertibile: l'Agfa Neu. Tuttavia non si accontentò di questo e, nel 1939, concluse finalmente la messa a punto dell'Agfacolor, procedimento monopack per il cinema professionale basato su un negativo/positivo che, poco dopo, venne adattato anche per la f., rimanendo alla base di ogni ulteriore, e originale, sistema sottrattivo per la gestione del colore.Copie a contatto di carta sensibile dai negativi dei film (paper prints) rappresentarono l'escamotage trovato negli Stati Uniti per iniziare a ottenere (1894-1912), in analogia con la f., il deposito per la tutela del diritto d'autore. Ritrovate in buona parte e ben conservate negli anni Cinquanta alla Library of Congress (LOC) di Washington, una volta riportate su pellicola permisero di recuperare alcune opere altrimenti perdute. Ancora stampe su carta, ma questa volta dei singoli fotogrammi, perfezionando l'idea dei 'libretti animati' (folioscopes ma anche flick-books, dal 1868), furono alla base di apparecchiature manuali (Mutoscope, 1894; Kinora, 1900), diventate poi automatiche, che permisero la visione singola (con tutti i possibili sottintesi licenziosi) della riproduzione di brevi filmati (non più di 1000 immagini), mandando definitivamente in pensione il cinetoscopio di Edison.Fin dagli inizi, altri strumenti derivarono da quelli fotografici già in uso (gli obiettivi, per es., il cui progresso in definizione e luminosità sarebbe avvenuto di pari passo). Una sola invenzione fece fatica a imporsi: l'ottica a focale variabile (detta anche trasfocatore), poi diventato l'onnipresente zoom. Realtà controversa per la sua complessità d'uso già nel 1890, si trasformò in una variabile cinematograficamente interessante all'inizio degli anni Trenta, anche se non erano state superate tutte le difficoltà ottico-meccaniche della sua gestione, mentre il suo impiego venne consigliato soprattutto in proiezione. Utilizzato molto saltuariamente, lo zoom riapparve nei primi anni Sessanta trovando in Roberto Rossellini uno dei suoi più strenui sostenitori (lo utilizzò con abilità in Era notte a Roma, 1960). Perfezionato e affidabile, entrò allora nel corredo base di ogni macchina da presa, passando presto, come ottica unica, nelle apparecchiature amatoriali e in televisione. Quasi contemporaneamente (1959) la Voitgländer cominciò a renderlo disponibile anche per le reflex fotografiche (Zoomar), iniziando una diffusione che diventerà presto capillare. E se è rimasta famosa la scelta di Stanley Kubrick di adottare un'ottica fotografica Zeiss (50 mm, focale: 0.95, concepita per la NASA, più luminosa dell'occhio umano) per girare senza (o quasi) luce artificiale lo splendido Barry Lyndon (1975), per filmare l'interno di modellini in scala si è arrivati a dotare di marcia continua, per le sue dimensioni ridotte, una normale fotocamera reflex, ottenendo così, a ogni ciak, manciate di secondi altrimenti impossibili (cfr. Indiana Jones and the temple of doom, 1984, Indiana Jones e il tempio maledetto, di Steven Spielberg). Anche il cavalletto (o treppiede) fu uno strumento prestato subito dalla f. al cinema. Dagli inizi del Novecento venne però munito di una 'piattaforma panoramica' comandabile da manovelle che consentivano alla cinepresa una mobilità sull'orizzontale, sulla verticale o combinata.Nei primi anni del cinematografo ricostruzioni spesso sommarie pretesero perfino di documentare l'attualità. Modellini tridimensionali per battaglie navali o eruzioni, ma anche celebri processi (L'affaire Dreyfus, 1899, nella versione di Méliès e in quella prodotta da Pathé), incoronazioni (Le sacre d'Édouard VII, noto anche come Le couronnement du roi Édouard VII, 1902, di Méliès), eventi bellici e quant'altro, scenograficamente ambientati sia in studio, con pitture prospettiche, sia in esterno, con arredi approssimativi, accontentarono il desiderio ingenuo del pubblico di vivere la notizia. Quel minimo di verosimiglianza comunque riscontrabile, a posteriori, non poté che derivare dall'osservazione e dalla rielaborazione di quei materiali fotografici autentici che, introdotti successivamente come inserto, sarebbero stati utilizzati per contestualizzare epoche o avvenimenti.Il primo film 'moderno', per costruzione drammaturgica e stilistica, ma anche per la correttezza dell'ambientazione storica, The birth of a nation (1915; Nascita di una nazione) di David W. Griffith si ispirò all'opera di un team di pionieri riconducibili alla multiforme attività di Matthew Brady, il fotografo per antonomasia della guerra di secessione americana. Visionario ma, al contempo, attento fino ai più minimi particolari, Griffith costruì il suo film politicamente inquietante ma cinematograficamente straordinario, addirittura citando tagli e inquadrature di f. giustamente definite, nelle didascalie, storici facsimili. E da allora la documentazione fotografica è rimasta alla base del lavoro di scenografi e costumisti alla ricerca di autenticità, anche nell'ipotesi trasgressiva della reinvenzione creativa.
La f., insomma, come elemento definitivo, come frammento di vita congelato; il cinema, invece, simile alla vita perché si sviluppa nel tempo, perché non rimane statico alla vista, ma viene immediatamente consegnato al meccanismo del ricordo, della memoria. Sarà allora per questo che sin dai primi anni, ma anche in epoche successive, le f. promozionali dei film più che essere semplici ingrandimenti di fotogrammi o scatti rubati sul set durante le riprese, ebbero bisogno di una sorta di messa in scena autonoma che prevedeva, in qualche caso, addirittura il riposizionamento di attori e luci, per ottenere sintesi ideali ed esemplari di quan-to solo la narrazione temporale poteva offrire. Quella temporalità sperimentata proprio come valore aggiunto della memoria, con l'utilizzo, al cinema, di immagini fisse, come fece, nel 1963, Chris Marker in La jetée. Quella fissità che Andy Warhol recuperò nel cinema con i suoi estenuanti, immobili piani-sequenza (Empire, 1964), rimettendo in gioco, lucidamente e ludicamente negli anni Sessanta, l'essenza dell'interscambio tra f. e mezzo cinematografico.Interscambio che, d'altra parte, era iniziato con la nascita del cinema, se si considera l'attenzione compositiva e luministica degli operatori Lumière, e che se annovera pochi registi realmente capaci anche di fotografare (in Italia, Alberto Lattuada e, soprattutto, Francesco Pasinetti; all'estero, il Kubrick degli esordi nel fotogiornalismo, e più tardi, forse, Werner Herzog e Abbas Kiarostami), trova ancora saltuariamente fotografi professionisti passati dietro la macchina da presa. Esempi illustri furono, negli Stati Uniti, Paul Strand che iniziò, sperimentalmente, nel 1921 (con Charles Sheeler) con il corto Manhatta e poi continuò, da solo, o in collaborazione, a firmare, anche come operatore, civilissime opere (The plow that broke the plains, 1936; Native land, 1942) concepite in seno alla progressista Frontier Film; in Europa, durante la guerra di Spagna (Victoire sur la vie, 1937) ma, soprattutto, alla fine del secondo conflitto mondiale (Le retour, 1945), Henri Cartier-Bresson, che espresse una straordinaria e coerente omogeneità di stile. Come fece lo statunitense Ralph Steiner, cogliendo dal vero astrazioni ritmiche (H₂O, 1929; Mechanical principles, 1931), e, in Francia, Raymond Depardon, anche lui in grado di dar vita (San Clemente, 1980) alla tensione morale delle sue foto. Mentre tre sono gli artisti che hanno concepito f. e cinema come elementi di una ricerca più vasta, seppure sempre ispirata e coerente. Man Ray, ricercatore inesauribile e geniale, segnò gli anni dell'avanguardia storica sul versante fotografico (assemblaggi, solarizzazioni, rayographes) ma anche con straordinarie prove sia di sapore dada (Le retour à la raison, 1923) sia surrealista (L'étoile de mer, 1928). Anche László Moholy-Nagy lavorò in parallelo con i due mezzi, confidando nel cinema per una ricerca teorica sulla città, A nagyváros Dinamikája (Dinamica della grande città), scritta tra il 1921 e il 1922 e pubblicata la prima volta su "MA" nel 1924, che non passò mai dalla sceneggiatura-storyboard alla realizzazione. Egli affidò al cinema una sua visione apparentemente soggettiva e asettica del reale (Berlin stilleben, 1926; Grossstadtzigeuner, 1932), costruendo una 'macchina della luce' per ricavarne il film Lichtspiel Schwarz Weiss Grau (1930) che ricrea effetti illuminotecnici in movimento, mentre teorizzò tutto ciò nel testo Malerei Fotografie Film (1925). Molti anni più tardi Paolo Gioli avrebbe azzerato la tecnologia, esaltandone l'essenza con gli 'strappi' da Polaroid, ma anche con le gigantografie su carta invertibile, sempre tramite quel foro stenopeico adattato anche al cinema in L'uomo senza macchina da presa (filmstenopeico) (1973-1981-1989). Nelle sue opere egli ha analizzato alla radice il movimento con i fotofinish ma, nel contempo, con materiali sempre poveri (la pellicola scaduta), ne ha verificato la sintesi ripartendo dai materiali storici (L'assassino nudo [dedicato a Muybridge], 1984; Piccolo film decomposto [dedicato alla cronofotografia], 1986), risultando il più isolato e coraggioso ricercatore e rielaboratore delle immagini d'aprés nature di fine secolo.
E. Trutat, La photographie animée, Paris 1899.
L. Moholy-Nagy, Malerei fotografie film, München 1925 (trad. it. Torino 1987).
Émile Reynaud, Peintre de films 1844-1918, Paris 1946.
C. Montanaro, Il cammino della tecnica, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 5° vol., Teorie strumenti memorie, Torino 2001, pp. 81-163.