FOTOCHIMICA (dal gr. ϕῶς, ϕωτός "luce" e chimica)
È lo studio dei processi d'indole chimica originati da radiazioni luminose.
Cenno Storico. - Sebbene già dagli Egizî, dai Greci e dai Romani si conoscesse l'azione della luce su certe sostanze coloranti, l'inizio della fotochimica data dal sec. XVIII con la scoperta della sensibilità alla luce del cloruro di ferro, in presenza di sostanze organiche, fatta da Bestužev (1725) e dei sali d'argento, fatta da J.H. Schultze (1727). Quest'ultima portò, dopo un secolo, alla creazione della fotografia (v.). L'assimilazione delle piante, fenomeno d'importanza fondamentale, fu studiata da J. Priestley, e più rigorosamente da J. Ingenhousz (1779); essi dimostrarono l'assorbimento di anidride carbonica da parte delle piante verdi e la contemporanea emissione di ossigeno; a J. Senebier si deve l'osservazione della diversa attività assimilatrice con luci di diverso colore. Molto più tardi Th. Engelmann e K. A. Timirjazev (1869-1877) fecero lavori fondamentali per precisare le zone di maggiore attività. Nel campo più comunemente inteso come fotochimico noteremo la scoperta della scomposizione dell'acqua col cloro fatta da C. L. Berthollet (1785) e quella della combinazione: H2 + Cl2 = 2HCl fatta da W. Cruickshank (1801). Nel sec. XVIII J. Priestley e K.W. Scheele si occuparono di fotochimica, ma soprattutto al loro contemporaneo J. Senebier (1782) si deve la scoperta di molte reazioni e la raccolta di quanto era noto in questo campo. Nel 1817 T. Grotthus enunciò la prima legge fotochimica; a J. W. Draper (1843) e poi a P. A. Favre e J. Th. Silbermann (1853) si deve l'aver precisato l'attività delle varie lunghezze d'onda nella reazione fra cloro e idrogeno. R. W. Bunsen e sir H. E. Roscoe (1854-1857) indicarono metodi rigorosi per la misura dell'attività fotochimica della luce e diedero notevoli conferme della seconda legge fotochimica, enunciata da Wittwer (1855), che stabiliva la proporzionalità fra intensità della luce ed azione fotochimica. Il periodo più moderno s'inizia con gli studî di M. Wildermann (1902) sull'applicazione della legge d'azione di massa e di R. Luther e F. Weigert (1905) sull'equilibrio fotochimico fra antracene e diantracene. Con l'applicazione dei fenomeni fotoelettrici, della teoria dei quanti e dell'ipotesi di N. Bohr, iniziata da J. Stark (1908-1912) e da A. Einstein (1912) si è cercato nei tempi più recenti di mettere in relazione i processi fotochimici con la struttura atomica e il meccanismo di assorbimento e di emissione della luce. Frattanto la fotochimica speciale non rimaneva indietro e mentre si studiavano estesamente l'immagine latente e la fototropia, la fotochimica dei composti organici veniva grandemente sviluppata da G. L. Ciamician e P. Silber (1900-1914), poi, per quanto riguarda l'azione dei raggi ultravioletti, da D. Berthelot e H. Gaudechon (1910-1913). Finalmente la prima sintesi fotochimica della formaldeide e degli zuccheri semplici fu ottenuta da E. C. C. Baly e collaboratori (1922-1924).
Metodi sperimentali. - L'esame dei processi fotochimici, all'infuori dei metodi sperimentali generali per l'analisi e la caratterizzazione dei prodotti, richiede, dal punto di vista chimico-fisico, una serie di nozioni e di corredi che in gran parte sono dominio della fisica. La misura delle intensità luminose, dal punto di vista dell'azione fotochimica, venne fatta da principio in base alle azioni prodotte in determinate reazioni opportunamente studiate; così venne proposto un metodo attinometrico basato sulla quantità di cloro e idrogeno combinati (Favre e Silbermann) e perfezionato da Bunsen e Roscoe (1855). Altri metodi consistono nel misurare la quantità di anidride carbonica svolta dall'ossalato ferrico (Woods, Lipowitz, Marchand), la quantità di cloruro mercuroso deposto dalle soluzioni di cloruro mercurico e di ossalato d'ammonio (J. M. Eder). Poiché però in ogni reazione è caratteristica l'attività di una speciale zona dello spettro, questi metodi non possono dare risultati di valore generale. Restano in uso perciò soltanto quelli basati sul processo fotografico e alcuni altri usati per dosare i raggi ultravioletti, e si debbono considerare rigorosamente esatti soltanto i metodi in cui si misurano l'energia totale della sorgente luminosa e i rapporti fra energia assorbita e quantità di sostanza trasformata. Se la sorgente luminosa presenta uno spettro continuo la sua intensità può essere misurata con la fotometria ordinaria e meglio ancora con la spettrofotometria e i sistemi termoelettrici, tenendo conto della distribuzione dell'energia luminosa nello spettro.
Nelle esperienze fotochimiche è importante poter impiegare sorgenti luminose monocromatiche; questo problema è soltanto in parte risolto coi filtri di luce, destinati a isolare delle bande o zone determinate dello spettro o delle righe spettrali. Importante, ad es., per l'ultravioletto, è il filtro di Wood a base di vetro all'ossido di nichel, che permette d'isolare la riga 366 del mercurio. Esistono ncora altri filtri che permettono d'isolare altre righe, sia nella zona visibile sia nell'ultravioletto, e con notevoli gradi di purezza.
Teoria e leggi delle azioni fotochimiche. - La prima legge fotochimica, consiste nell'affermare che non è possibile azione fotochimica senza assorbimento della luce: tale principio, poco rilevato dai contemporanei, fu ritrovato poi indipendentemente da J. W. Draper (1839) e risponde alle moderne vedute. La seconda legge afferma la proporzionalità fra l'azione fotochimica e l'intensità della luce. Bunsene Roscoe le diedero conferma sperimentale con la reazione fra cloro e idrogeno e con la decomposizione del cloruro d'argento; essi dimostrarono difatti che facendo variare l'intensità luminosa e il tempo d'azione, ma in modo che il loro prodotto sia costante, l'azione fotochimica è sempre la stessa. Per bene intendere ora gli ulteriori sviluppi della teoria fotochimica è necessario enunciare una legge di validità generale, che viene applicata nel nostro caso, cioè la legge di Lambert-Beer. Facendo attraversare dalla luce d'intensità I0 uno strato omogeneo in cui la concentrazione del corpo assorbente sia C e lo spessore l, passerà l'intensità I = I0 e-kCl, dove k è la costante d'assorbimento caratteristica del mezzo assorbente. Di conseguenza la quantità di luce assorbita, che nel nostro caso è quella che produce l'azione fotochimica, è la differenza fra la luce incidente e quella uscente, cioè: I0(i − e-kCl). Ora J. H. Van't Hoff (1904) ha sostenuto che quel che vale per l'azione fotochimica è la luce assorbita e non quella impiegata, e in particolare, se il prodotto kCl è grande, la luce viene assorbita totalmente ed allora si ricade nel caso della seconda legge; se invece kCl è piccolo la luce assorbita si calcola col prodotto I0 e-kCl: soltanto in questo ultimo caso la velocità di reazione dipenderebbe dalla concentrazione del corpo sensibile. Invece in tutti i casi l'azione dovrebbe essere proporzionale all'intensità impiegata.
Quando contemporaneamente alla reazione fotochimica si ha una reazione che avviene all'oscurità, secondo il principio enunciato da J. Plotnikov (1907-1908), le due velocità di reazione dovrebbero essere additive. Questo è vero soltanto in parte, perché vi sono reazioni fotochimiche combinate con reazioni oscure. Però in molti casi il calcolo si può fare come indica Plotnikov; così nella reazione di ossidazione dell'acido iodidrico:
la quale avviene anche all'oscurità ma più lentamente che alla luce.
Per ciò che riguarda la proporzionalità fra azione fotochimica e intensità bisogna dire che secondo i dati più recenti (Chr. Winther, 1925) risulta che le luci deboli agiscono proporzionalmente più di quelle intense. In particolare nella bromurazione dell'acido cinnamico, A. Berthoud (1926-1927) trova che l'azione è proporzionale alla radice quadrata dell'intensità; ma anche questa legge vale soltanto per determinate condizioni di esperienza; così Ghosh e collaboratori (1927) hanno dimostrato che essa è valida nella stessa reazione per certe luci colorate, e non per altre. Successivamente risultò da esperienze di M. Padoa e N. Vita (1930) che in reazioni dei sistemi liquidi le leggi di dipendenza fra intensità e azione fotochimica sono diverse per le diverse lunghezze d'onda.
Dalle predette considerazioni del Van't Hoff derivano in sostanza i lavori di Stark (1909-1912) e di Einstein (1912) coi quali venne stabilita la legge degli equivalenti fotochimici. Rinviando per la teoria di M. Planck alla voce quanti e per la teoria di N. Bohr alla voce atomo, ci limitiamo a dire che la teoria di Bohr è stata applicata da Stark e da Einstein: l'atomo o la molecola del componente fotochimicamente sensibile assorbe un quanto di luce della frequenza ν, e pertanto l'energia espressa dal prodotto hv (h è la costante di Planck e ha il valore di 6,548 × 10-27 erg × sec.). Ciascun atomo o molecola che ha assorbito un quanto, e che è pertanto così attivato, può dar luogo ad un processo fotochimfco elementare e quindi per un complesso di N atomi (o molecole) si provocherà la trasformazione fotochimica con l'assorbimento di N quanti. Questa è la legge degli equivalenti fotochimici, così chiamata perché analoga alla seconda legge di M. Faraday che regge i processi elettrochimici. Tre lustri di sperimentazione fotochimica hanno portato però alla conclusione che la legge degli equivalenti si verifica soltanto in qualche caso particolare. Ciò risulta chiaro dai dati raccolti nella seguente tabella:
Si noti che, mentre le reazioni che implicavano un assorbimento d'energia danno luogo al verificarsi più frequente della legge, o per lo meno indicano un numero di molecole trasformate minore o anche di poco maggiore del numero di quanti assorbiti, nelle reazioni esotermiche, come le quattro ultime annotate nello specchietto, spesso l'assorbimento di un quanto determina la trasformazione di molte molecole. Il primo caso denota l'accordo tra i fenomeni fotochimici e la legge generale della conservazione dell'energia: dato che, ove i corpi non traggano dal calore ambiente l'energia, non potremo ritrovare in essi accumulata, sotto forma di energia chimica, più di quanto sia stato loro fornito sotto forma di energia luminosa, il secondo caso si spiega, secondo l'opinione prevalente, ammettendo che alla reazione fotochimica primaria facciano seguito reazioni consecutive che avrebbero l'effetto di moltiplicare il rendimento senz'alcuna limitazione per ciò che riguarda l'energia disponibile. Abbiamo accennato all'ipotesi che l'atomo o la molecola che ha assorbito un quanto risulti attivato; in alcuni casi l'attivazione della molecola implica la sua . dissociazione in atomi, in altri la molecola si può attivare anche senza dissociarsi (O. Stern e M. Volmer 1920). La teoria dell'attivazione è stata enunciata da O. K. Rice (1915), il quale formulò l'ipotesi che in qualsiasi reazione, anche non fotochimica, un atomo o una molecola non possa entrare n reazione se non contiene un minimo di energia che chiamò energia critica; questo concetto è stato esteso alle reazioni fotochimiche e il più importante contributo sperimentale alla teoria della attivazione fotochimica venne dato da G. Cario e J. Franck (1922). Un arco elettrico a vapore di mercurio dà luogo, come si è visto, alla emissione di numerose righe spettrali (fra cui importante quella di lunghezza d'onda 253,6), che a loro volta, assorbite dai vapori di mercurio contenuti in un separato apparecchio, li attivano. Questi atomi attivati possono riemettere sotto forma di luce i quanti assorbiti, ma si può immaginare che essi cedano, ai corpi in contatto con essi, parte della loro energia in vario modo, per urto o per irraggiamento: ora sta di fatto che Cario e Franck, mettendo a contatto questo mercurio attivato con idrogeno gassoso (molecolare), ottennero dell'idrogeno atomico secondo l'equazione H2 + hν = 2H. Il quanto hν che dev'essere fornito, corrisponde a 101 calorie per grammo-molecola, e l'idrogeno atomico è chimicamente attivo, essendo capace di reagire chimicamente assai meglio di quello molecolare. È bene notare che la dissociazione dell'idrogeno non avviene per irraggiamento con la luce del mercurio, ma bensì per contatto, ciò che parla a favore dell'attivazione per urto.
La durata della vita media delle molecole attive del mercurio e del cloro è stata calcolata di circa 10-7 secondi. Oltre queste molecole attive si conoscono molecole metastabili (azoto, idrogeno) la cui durata può essere molto maggiore (10-2 a 10-1 sec.).
L'applicazione della cinetica chimica alle reazioni fotochimiche ha naturalmente condotto alla considerazione degli equilibrî fotochimici. Per esempio: idrogeno e iodio si combinano fra loro all'oscurità a temperature piuttosto alte (200°-300°) e dànno luogo a un equilibrio che risponde alla condizione
la quale significa che la combinazione avviene proporzionalmente alle concentrazioni molecolari, e così pure la decomposizione.
Se interviene la luce. la combinazione, in luogo di avvenire secondo l'equazione: H2 + J2 = 2HJ, ha luogo secondo H + J = HJ, com'è dimostrato dal fatto che nel primo caso la velocità di reazione è proporzionale al quadrato della concentrazione dell'acido iodidrico, nel secondo caso soltanto alla prima potenza di questa concentrazione (M. Bodenstein 1897); se si fa agire su questa miscela la luce di lunghezza d'onda inferiore a 250 si costituisce uno stato d'equilibrio, diverso da quello che si ottiene alle stesse condizioni all'oscurità. A. Coehn e Stuckard (1916) hanno dimostrato che le lunghezze d'onda fra 330 e 250 decompongono completamente l'acido iodidrico e E. Warburg (1918) ha fatto vedere che per ogni quanto assorbito, qualunque sia la lunghezza d'onda impiegata, vengono decomposte due molecole di acido iodidrico: ciò egli spiega ammettendo che un quanto dissoci la molecola in atomi e che questi successivamente reagiscano con altre molecole aumentando il rendimento: HJ = H + J; H + HJ = H2 + J; ecc. Analogamente si comporta l'acido bromidrico.
L'equilibrio fotochimico non è un vero equilibrio, perché ciò presupporrebbe la completa reversibilità del processo fotochimico primario qual'è stato considerato da Einstein e quale occorrerebbe perché il rendimento delle reazioni fotochimiche salisse realmente al 100% in energia accumulata. Quindi la reazione realizzata con illuminazione costante, di un sistema come quello dianzi prospettato, si chiamerebbe più opportunamente condizione stazionaria.
Un equilibrio importante è quello relativo alla trasformazione dell'ossigeno in ozono e viceversa: 2O3 ⇄ 3O2. L'ozono si forma per azione della luce ultravioletta sull'ossigeno e d'altra parte esso viene decomposto dai raggi visibili: certe radiazioni agiscono in entrambi i sensi, come la riga del mercurio di lunghezza d'onda 253 (Warburg 1912-13-14-1921). Poiché il quanto di questa radiazione è insufficiente a decomporre l'ossigeno in atomi, si ammette che a determinare la reazione basti la formazione di molecole attive di O2; perciò si potrebbe spiegare il processo con gli schemi:
di cui il terzo è il meno probabile, perché venne osservato che il rendimento quantico decresce con l'aumentare della concentrazione (pressione) dell'ossigeno. Il rendimento massimo di due molecole di ozono per ogni quanto assorbito venne ottenuto dal Warburg soltanto a pressioni non troppo alte con la lunghezza d'onda 207. Per la reazione inversa 2O3 = 3O2 sono stati fatti interessanti studî anche in presenza di altri gas: così la presenza di cloro (F. Weigert 1907) accelera questa reazione; il cloro funziona qui come un sensibilizzatore fotochimico. Il meccanismo di questa reazione si può rappresentare con gli schemi:
In ambo i casi si ammette la formazione del cloro attivo e nel secondo caso quello d'un ossido di cloro come prodotto intemmedio.
Molto studiato e discusso è l'equilibrio tra antracene e diantracene. Il primo è un idrocarburo ciclico Ci4Hio che si polimerizza a diantracene quando venga illuminato con luce ultravioletta. Soluzioni di questi idrocarburi in benzolo, toluolo, ecc., sono state esaminate da R. Luther e F. Weigert (1905) e ne risultò un equilibrio, dovuto alla reazione inversa o depolimerizzazione del diantracene che avviene anche all'oscuro.
Una delle caratteristiche più interessanti per la cinetica chimica delle reazioni in genere e particolarmente per quelle fotochimiche è il coefficiente di temperatura. Facendo avvenire una reazione a una temperatura T per un tempo assai piccolo, ma finito, potremo scrivere con approssimazione per una reazione monomolecolare:
dove Δx è la quantità del corpo che reagisce nel tempo Δt e c la sua concentrazione. Aumentando la temperatura di 10° avremo:
e dividendo membro a membro
Questo rapporto viene comunemente assunto come coefficiente di temperatura. Nelle reazioni termiche il coeffciente di temperatura vero è, secondo l'espressione di S. A. Arrhenius (1889), una funzione logaritmica
l'energia A secondo le teorie chimico-cinetiche svolte da R. Marcelin, O. K. Rice (1915) e altri non è equivalente al calore di reazione, ma lo supera, intendendosi che la condizione di reagibilità d'una molecola sia quella di possedere un'energia critica relativa uguale alla differenza fra l'energia totale ε″ e l'energia ε″ media alla temperatura considerata. Questo concetto è stato applicato per primo da U. Pratolongo (1918) alle reazioni fotochimiche e svolto ulteriormente da R. C. Tolman (1920-1923). Il coefficiente di temperatura vero K per la frequenza di luce ν è legato alla relazione
per una reazione monomolecolare il suo valore può essere ottenuto dal coefficiente usuale KT+10/KT con un semplice calcolo. L'energia ε″ è quella delle molecole capaci di assorbire un quanto di luce della frequenza ν. Se tutte le molecole avessero le stesse probabilità di assorbire la luce e di reagire, sarebbe ε″ = ε′ e il coefficiente logaritmico sarebbe zero, mentre quello usuale avrebbe il valore 1. Ora l'esperienza ha dimostrato che effettivamente in certe reazioni fotochimiche il coefficiente di temperatura è vicino all'unità: così nella decomposizione dell'acido iodidrico e nella formazione dell'ozono. In molte altre le è superiore, come accade per la formazione dell'acido cloridrico dagli elementi, per la decomposizione dell'acqua ossigenata e per l'alogenazione di molti composti organici. D'altra parte le esperienze di M. Padoa e dei suoi collaboratori (1914-1917) hanno dimostrato, ancor prima degli accennati sviluppi teorici, che i coefficienti di temperatura delle reazioni fotochimiche variano con la frequenza della luce: così andando dall'ultravioletto al verde il coefficiente per la formazione dell'acido cloridrico assume i valori di 1,17 per l'ultravioletto, 1,21 per il violetto, 1,31 per il blu e 1,50 per il verde. Analogamente si comportano altre reazioni in mezzi liquidi e solidi (lastre fotografiche). Se ne dovrebbe dedurre, conformemente ai valori qui sopra riportati, che l'energia di attivazione varia con la frequenza, e precisamente cresce in generale con l'aumentare della lunghezza d'onda.
È molto interessante avvicinare a questo fatto la nozione già data, che cioè il quanto luminoso decresce con l'aumentare della lunghezza d'onda e pertanto apparisce evidente che l'incremento che si può dare col riscaldamento a una reazione fotochimica risulta tanto più grande quanto più debole è l'energia propria alla frequenza impiegata. Se però ci si attiene strettamente alla legge di Einstein, mal si comprende che i coefficienti di temperatura siano superiori all'unità e che siano variabili con la frequenza.
Per conciliare le cose è stato pertanto formulata l'ipotesi (M. Bodenstein 1913 e 1925) che i coefficienti di temperatura superiori all'unità siano dovuti alle reazioni secondarie o consecutive al processo fotochimico primario (reazioni a catena) e alla necessità che anche i componenti non fotochimicamente sensibili vengano attivati: ipotesi giustificate dalla constatazione che per le reazioni che obbediscono alla legge degli equivalenti i coefficienti di temperatura sono spesso vicino all'unità. Un altro fatto che merita considerazione è la variazione dell'assorbimento della luce col variare della temperatura (H. Wartenberg 1910, Ribaud 1919, Kuhn 1926): tuttavia questa non è abbastanza forte per spiegare da sola i fatti esposti.
Nel caso di reazioni in mezzi liquidi le cose sono indubbiamente complicate dai processi di diffusione, che aumentano col crescere della temperatura, e da altri fatti. Comunque, fra le cause che fanno aumentare la velocità di reazione con la temperatura appariscono degne tuttora di considerazione l'apporto di energia calorifica in soccorso dei quanti più bassi e la variazione del limite di predissociazione (St. W. B. Young e Style, 1931).
Reazioni fra composti minerali. Altre reazioni degli alogeni e loro teoria. - Numerosi sono i corpi minerali sensibili all'azione della luce: citeremo i composti del ferro che sono suscettibili di trasformarsi da bivalenti a trivalenti o viceversa. Della prima specie è la reazione:
importante perché è endotermica e reversibile, dando luogo a uno stato di equilibrio (Chr. Winter 1911). Fra le numerose reazioni dei composti azotati citeremo la decomposizione fotochimica dell'anidride nitrica: N2O5 = 2NO2 + 1/2 O2 (Daniels e Johnston 1921) e le reazioni: 2NO → 1/2 O2 + N2O; 4N2O → 2NO2 + 3N2, interessanti specialmente come ossidazioni-riduzioni perché raffrontabili con reazioni organiche di cui si vedrà in seguito. I cromati agiscono da ossidanti alla luce, sia su composti minerali (N. L. Vauquelin 1798), sia su composti organici: il cromo passa da esavalente a trivalente, e questa proprietà è utilizzata in certi processi fotografici. Importanti anche dal lato teorico sono le reazioni degli alogeni. In questo senso la formazione del fosgene CO + Cl2 = COCl2 fu studiata a lungo e così pure la decomposizione dell'acqua col cloro, che dipenderebbe dalla decomposizione fotochimica ClOH → HCl + O.
La reazione di gran lunga più studiata è la formazione dell'acido cloridrico dagli elementi: Cl2 + H2 = 2HCl; i primi a esaminarla rigorosamente furono R. W. Bunsen e H.E. Roscoe (1855): se la miscela dei due gas viene esposta a luce intensa, ha luogo una combinazione esplosiva, mentre con luce debole si osserva un periodo d'induzione durante il quale la reazione è nulla o lentissima, a causa della presenza di tracce di ammoniaca che occorre sia decomposta (D. L. Chapman e G. K. Burgess 1905) perché la reazione proceda poi, con luce costante, a velocità costante; questa velocità di reazione è proporzionale all'intensità della luce. L'apparecchio immaginato da Bunsen e Roscoe per esaminare questa reazione è il titonometro (fig.1), che consiste in un bulbo di vetro parzialmente riempito d'acqua in cui viene introdotta da un tubo laterale la miscela di cloro e idrogeno che viene prodotta per elettrolisi dell'acido cloridrico. Il bulbo porta pure un secondo tubo capillare graduato, che termina con una chiusura idraulica. L'acido cloridrico che si forma sotto l'azione della luce si scioglie immediatamente nell'acqua che si trova nella bolla: di . conseguenza, illuminando la bolla, si ha una contrazione di volume che viene misurata dallo spostamento dell'acqua formante chiusura idraulica nel capillare.
La luce agisce sulla miscela cloro-idrogeno con le frequenze visibili, da verde-blu (540) all'estremo violetto (380); A. Coehn e collaboratori (1924-1926) hanno trovato che la reazione non va con la luce visibile, se non in presenza di tracce di umidità (la tensione di 10-8 mm. è il limite inferiore). L'acqua è dunque un catalizzatore positivo, mentre l'ossigeno rallenta la reazione. La presenza d'acqua non è invece necessaria per far agire i raggi ultravioletti: pertanto s'intuisce la necessità di formulare differenti ipotesi nei differenti casi. È ammesso generalmente che il corpo fotochimicamente sensibile sia il cloro, che si dissocierebbe in atomi con l'assorbimento della luce: l'energia raggiante occorrente per tale processo deve essere almeno quella che corrisponde al quanto di 57 calorie, ma l'esperienza ha dimostrato che con tale energia entrano in combinazione non una sola molecola ma molte migliaia. Di conseguenza è stato immaginato W. Nernst, 1918) che abbiano luogo reazioni consecutive come:
Recentemente da Franck e Rabinovitsch (1930) sono state prospettate anche reazioni derivanti da collisioni trimolecolari che potrebbero venire a spiegare l'azione catalitica dell'acqua. Grande interesse presentano per il meccanismo del processo fotochimico la teoria (M. Trautz 1917) e le osservazioni degli spettri d'assorbimento nei gas; da questi è stato dedotto (J. Franck 1925, W. Turner 1926) che ad es. H2, Cl2, Br2 possono subire la dissociazione per assorbimento della luce.
Se però il quanto hν è insufficiente a produrla, l'assorbimento può tuttavia portare le molecole in condizioni di reagibilità mediante la predissociazione (Henry 1925). Pertanto il cloro può agire fotochimicamente anche con l'assorbimento di quanti di luce inferiori alle 57 calorie di cui sopra; lo stesso meccanismo serve a spiegare l'addizione degli alogeni a corpi organici non saturi, cui si accennerà più oltre.
Per il grandissimo interesse, sia teorico sia pratico, che presentano sono da esporre a parte le azioni della luce sui sali d'argento. I composti alogenati d'argento vengono decomposti, dando luogo in ambiente chiuso, a sistemi stazionarî: così il cloruro d'argento svolge cloro decomponendosi parzialmente (K. W. Scheele, 1777). Secondo M. Carey Lea (1887), A. N. Guntz (1891) e altri si formerebbero dei sottosali, come AgpFl che è stato isolato. Secondo altri, come Guthrie (1851) e dai risultati di moderne indagini spettrografiche (P. D. Koch e H. W. Vogel, 1926) la luce farebbe direttamente decomporre il sale d'argento nell'alogeno e nell'argento metallico.
Nei procedimenti fotografici è da distinguere l'immagine visibile, che viene ottenuta illuminando strati di cloruro d'argento per lo più emulsionato nella gelatina e mescolato a composti organici come l'acido citrico, che hanno la proprietà di aumentare la sensibilità perché si combinano col cloro, dall'immagine latente non visibile, ottenuta generalmente con degli strati di bromuro d'argento con poco ioduro d'argento. Tali composti alogenici sono emulsionati in gelatina che agisce come colloide protettore. Quando l'emulsione è stata maturata convenientemente, essa acquista una sensibilità straordinaria, per modo che l'immagine latente si forma con illuminazioni debolissime e brevissime; essa è sviluppata mediante soluzioni riducenti. Ne consegue la formazione di argento ridotto in misura entro certi limiti proporzionale all'intensità della luce.
Il rimanente del composto alogenato non ridotto vien disciolto con soluzioni di iposolfito sodico, e l'immagine resta così fissata. Secondo le più recenti vedute, la causa di questa sensibilità starebbe nei piccolissimi grani d'argento che si trovano nell'emulsione maturata (F. Weigert e Luhr, 1927) oppure secondo S.E. Sheppard (1925) da solfuro d'argento. In base ad altre esperienze è però probabile che molte altre sostanze possano sensibilizzare l'emulsione. Fra le proprietà più salienti delle emulsioni noteremo: a) che l'estensione della zona dello spettro che agisce, dipende dal modo di preparazione dell'emulsione, e così pure la sensibilità; b) che i raggi a breve lunghezza d'onda fatti agire per tempi assai brevi predispongono la lastra ad essere più facilmente impressionabile dalle maggiori lunghezze d'onda (luce gialla); c) che per estendere la zona di sensibilità è necessario adoperare dei sensibilizzatori, sostanze coloranti organiche di varia natura fra cui la più comune è l'eosina; si può così portare la sensibilità delle emulsioni nella regione del rosso e anche dell'infrarosso, e abbreviare fortemente i tempi d'esposizione. Sull'azione dei sensibilizzatori sono state esposte varie teorie basate, sia sopra effetti fisici (trasformazione di frequenze inattive in frequenze attive, modificazione della zona di assorbimento), sia su processi di catalisi, ma il problema non è risolto.
Fotochimica del processo d'assimilazione delle piante. - La enorme importanza dell'assimilazione clorofilliana sta nel fatto che è il processo biologico mediante il quale le piante soltanto sono in grado sulla terra di opporsi alla dispersione dell'energia solare accumulandone una parte sotto forma di energia chimica e rendendo possibile la vita agli animali. Sulle basi della chimica del pirrolo, dovute in gran parte alle geniali ricerche di G. L. Ciamician (1890-1900), con un potente sforzo R. Willstätter (1908-1918) riuscì a mettere in evidenza la struttura della clorofilla (v.). Si tratta di una miscela di due corpi: clorofilla a: C32H30ON4 Mg(COOCH3)COOC20H39 e clorofiila b: C32H26O2N4Mg − (COOCH3) COOC20H39. L'aggruppamento in C32 contiene quattro gruppi pirrolici, quello in C20 è il radicale alcoolico del fitolo. Nel processo fotosintetico entrerebbero in giuoco secondo Willstätter anche la carotina, che è un idrocarburo C40H56 e la xantofilla che ne è un prodotto di ossidazione C10H56O2. È provato che l'assimilazione non avviene nelle piante verdi che in presenza di clorofilla, e che questa sostanza si forma per azione della luce. Schematicamente si può esprimere l'assimilazione con la semplice equazione CO2 + H2O = CH2O + O2 intendendosi che l'anidride carbonica con l'acqua diano formaldeide e ossigeno; oggi prevale l'opinione che la prima si formi per trasformarsi subito in prodotti zuccherini, amido, cellulosa, e altri, tanto più che la sintesi fotochimica in vitro della formaldeide e degli aldoesosî (non individuati) che ne derivano è riuscita al Baly e collaboratori (1922-1924), facendo agire la luce ultravioletta sopra soluzioni di bicarbonati alcalini o alcalino-terrosi.
È ammesso generalmente che la clorofilla prenda parte alla reazione senza venire distrutta, e che pertanto la stessa clorofilla possa servire un gran numero di volte alla fotosintesi: secondo Willstätter avrebbe importanza fondamentale la presenza del magnesio nella clorofilla e le reazioni seguirebbero secondo lo schema:
Questa ipotesi e altre che sono state emesse, vanno prese con molta prudenza, dato che anche per altri indizî il processo apparisce assai complicato: secondo la teoria dei quanti ogni quanto di luce di lunghezza d'onda 587-589 (riga D del sodio) corrisponde a 49.000 calorie; per formare una molecola di aldeide formica occorrono 112.300 calorie; di conseguenza bisognerebbe che una sola molecola assorbisse tre quanti di luce gialla per trasformarsi. Per evitare questa ipotesi poco rispondente alle vedute teoriche E. Warburg (1922) ammette che la reazione possa andare per gradi, nel qual caso l'immissione di luce potrebbe avvenire in tre volte successivamente.
Dal punto di vista del rendimento è da notare che il Warburg lavorando con la luce gialla del sodio riuscì a ottenere che certe alghe accumulassero sotto forma di composti assimilati il 70% dell'energia luminosa ricevuta. Questo però non si può ottenere che in condizioni particolari, e generalmente la energia accumulata nelle piante in natura è compresa fra il 0,5 e il 6% di quella che esse ricevono dal sole.
È molto interessante rilevare che l'attività assimilatrice si compie mediante la luce visibile, e più precisamente con quella dal giallo al rosso e che appunto in questa zona si trova la maggiore quantità di energia della luce solare. Nella fig. 2 sono riportate le misure di Langley, riferentisi all'energia della luce solare al livello del mare. La superficie tratteggiata misura l'energia appartenente al campo visibile; essa supera molto quella del campo ultravioletto. Nel campo infrarosso l'utilizzazione in un processo così fortemente endotermico non è possibile, benché esso contenga un'energia ragguardevole, perché a causa dei quanti molto piccoli non si ha l'attivazione delle molecole.
Fototropia. - La caratteristica di questo fenomeno è il cambiamento di colore prodotto su certe sostanze cristalline dalla luce; più precisamente la luce tende a far divenire più cupo il colore. Il processo è reversibile e all'oscurità il corpo fototropo riprende il colore primitivo; ciò può ripetersi molte volte, finché non prevalgono alterazioni profonde. Come negli equilibrî fotochimici, è stato verificato per alcune classi di corpi fototropi (fulgidi, basi di Schiff) che alle frequenze che producono la colorazione si contrappongono altre che agiscono inversamente e che un'elevazione di temperatura sposta l'equilibrio parzialmente o totalmente a favore della forma stabile all'oscurità. È stata formulata da H. Stobbe (1908) l'ipotesi che molto spesso la fototropia consista in un equilibrio fotochimico; secondo ulteriori esperienze di M. Padoa (1912-1916) parrebbe più precisamente che avvenissero polimerizzazioni reversibili; così per il fenilidrazone della benzaldeide e per la saliciden-β-naftilammina. In altri casi, come in certi derivati stilbenici, studiati da H. Stobbe, la fototropia avrebbe origine da prodotti labili di ossidazione. Si conoscono relazioni fra la struttura chimica e la fototropia: i fulgidi preparati da Stobbe (1908-1911) sono derivati dell'acido succinico, del tipo
Cambiando i radicali R, R1 è stato trovato che su 52 fulgidi 28 sono fototropi. Fra gli idrazoni, M. Padoa e collaboratori (1909-1913) trovarono che sovente sono fototropi quelli derivanti da fenilidrazine anche sostituite nel nucleo, ma non in posizione orto rispetto all'azoto, e che non sono fototropi i metilfenidrazoni. Sopra 173 idrazoni esaminati 57 risultano fototropi. Gli osazoni del tipo
osservati da H. Biltz (1899) e da M. Padoa e collaboratori (1910-1911) non sona fototropi se dei radicali R, R1 uno è l'idrogeno; sopra 34 osazoni, 23 risultarono fototropi. Molte basi di Schiff (anili) del tipo R • C6H4 • CH = N • C6H4 • R1, furono esaminate da A. Senier e collaboratori (1909-1918), ma sopra 242 soltanto 19 risultarono fototrope. Sono anche fototropi alcuni altri corpi organici fra cui il cloridrato di chinochinolina e la β-tetracloro-α-chetonaftalina, in cui W. Marckwald (1899) osservò per primo la fototropia; diversi corpi minerali, fra cui il lithopon, alcuni solfuri alcalinoterrosi, alcuni ossicloruri di mercurio.
Fotochimica dei composti organici. - La fotochimica dei composti organici apparisce importantissima, specialmente in relazione coi processi di fotosintesi delle piante; essa è stata straordinariamente arricchita dal geniale e indefesso lavoro di G. L. Ciamician e P. Silber (1900-1914). Le numerosissime reazioni fotochimiche organiche si possono raggruppare in varî tipi, di cui ecco i principali:
Ossidazioni-riduzioni. - Nota da tempo la reazione Fe2(C2O4)3 → Fe(C2O4) + 2CO2, in cui il ferro da trivalente passa a bivalente a spese dell'acido ossalico che viene ossidato; analogamente il chinone si riduce, in soluzione alcoolica, a idrochinone, mentre l'alcool si ossida ad aldeide acetica; l'acetone passa a pinacone:
Autossidazioni. - Molte sostanze organiche in presenza dell'ossigeno dell'aria vengono ossidate alla luce; così molti coloranti organici e le leucobasi dei coloranti. Con l'autossidazione fotochimica si spiega l'indurimento dell'olio di lino. Avviene anche la formazione di perossidi, come nell'ossidazione dell'etere dietilico e della benzaldeide. Fra le reazioni di Ciamician e Silber citeremo l'ossidazione dell'idrochinone a chinone, del toluolo ad aldeide benzoica e acido benzoico.
Idrolisi. - L'acetone passa ad acido acetico e metano, il cicloesanone, aprendosi, ad acido capronico.
Isomerizzazioni e polimerizzazioni. - L'orto-nitrobenzaldeide passa ad acido orto-nitrosobenzoico (Ciamician-Silber)
e così molti derivati analoghi; l'acido maleico passa all'isomero fumarico (Ciamician e Silber); così pure molti altri derivati dello stesso tipo si trasformano alla luce, specie in presenza di tracce di bromo o di iodio (Liebermann 1896, Wislicenus 1896, R. Stoermer 1909). Fra le polimerizzazioni citeremo il passaggio dell'acido cinnamico ad acido a-trussillico (Rÿber 1902, Ciamician e Silber 1902) e la trasformazione dell'isoprene e del dimetil-butandiene in caucciù sintetico (C. D. Harries 1913). Finalmente le aldeidi, come la benzaldeide, si polimerizzano alla luce.
Fotolisi. - Come quella degli acidi carbossilici che in presenza di nitrato di uranile si scompongono secondo R • COOH → CO2 + RH.
Formazione di composti azotati. - Da alcune reazioni nelle quali si formano composti azotati sembra logico arguire che anche la formazione dei composti organici azotati nelle piante sia di carattere fotochimico. Citeremo la reazione fra nitrito potassico e formaldeide (O. Baudiseh 1912) in cui si forma acido formidrossammico
e anche un alcaloide simile alla nicotina. Interessanti anche le reazioni di Ciamician e Silber che permettono di ottenere (dall'acido cianidrico e corpi chetonici) amminoacidi e pirroli.
Alogenazioni. - Il cloro e il bromo agiscono sulle sostanze organiche come sostituenti dell'idrogeno, in reazioni come:
e così pure nei derivati benzenici.
Reazioni prodotte dai raggi ultravioletti. - Sono state di proposito tenute a parte perché le fotosintesi naturali vengono prodotte dai raggi visibili che, a un livello basso, arrivano alla superficie terrestre quasi soli. In molti casi le reazioni sono dello stesso tipo di quelle prodotte dalle radiazioni visibili: decomposizione dell'acido ossalico e di altri acidi organici (D. Berthelot e H. Gaudechon 1910-1913), autossidazioni, polimerizzazioni (etilene, acetilene, cianogeno). Sono notevoli poi le reazioni di decomposizione profonda delle aldeidi e dei chetoni
e quelle delle sostanze zuccherine in CO, CO2, H2 CH4, ciò che spiega come le piante non possano vivere con luce ultravioletta.
Bibl.: A. Berthoud, Photochimie, Parigi 1928; G. B. Kistiakowsky, Photochemical processes, New York 1928; J. Plotnikov, Allgemeine Photochemie, Berlino 1920; M. T. Slater Price, La sensibilité photographique (III Conseil de Chimie, Solway 1928); H. Stobbe, Phototropieerscheinungen, in Ber. Sächs. Akad. d. Wissenschaften, LXXIV (1922); M. Padoa, Relazione fra costituzione e fototropia, in Gazz. Chim. It., II (1914); Trans. Faraday Society, 1925, 1931.