FOTOCELLE
Per l'effetto fotoelettrico, le sue leggi fondamentali e il significato preciso di certe denominazioni, come "soglia fotoelettrica", v. fotoelettricità (XV, p. 780).
Si può dire che dall'effetto fotoelettrico sia derivata la cella fotoelettrica, oggi di uso così comune e importante nella tecnica e nell'industria moderna, fin da quando Elster e Geitel, nel 1889, poterono ottenere una superficie di zinco amalgamato che nel vuoto serbava a lungo e con una notevole costanza la sua sensibilità fotoelettrica (fin nel visibile). Però dal 1889 fino al 1912 non furono realizzati grandi progressi in questo senso, se si eccettuano gli studî di Hallwachs che nel 1904 costruì la prima cella a ossido (la cella di Hallwachs era di rame coperto di ossido nero e nel vuoto). Nel 1912 invece Elster e Geitel facendo passare la scarica in una cellula alcalina piena d'idrogeno e portando cosi la superficie alcalina allo stato di calcio idruro colloidale, ottennero una superficie fotosensibile molto stabile e avente una sensibilità superiore a quelle fino allora impiegate, per almeno un fattore 100. Molte delle celle oggi usate non differiscono molto dalla prima costruita da Elster e Geitel.
Ma le celle a idruro di calcio, che fino al 1930 circa rappresentarono l'ultimo stadio in fatto di tecnica delle fotocelle, specie per la sensibilità alla luce visibile, sono state recentemente e quasi totalmente soppiantate dalle celle al cesio. Queste furono ottenute la prima volta da Koller, che ispirandosi all'effetto determinato nell'emissione termoionica di un filamento di tungsteno da uno strato superficiale di ossido di cesio o di bario (riduzione del lavoro per estrarre un elettrone e quindi della temperatura necessaria per avere una data corrente per unità di superficie) costruì una superficie fotosensibile composta di cesio e ossido di cesio deposto su argento. Effettivamente tali celle hanno un rendimento da 20 a 50 volte superiore a quelle fatte con i metalli alcalini e, per quanto non in modo uniforme (come del resto le celle alcaline che hanno un massimo di sensibilità per la luce di circa 0,5 micron di lunghezza d'onda) spingono la loro sensibilità fino nell'infrarosso.
La cella fotoelettrica è l'utilizzazione pratica dell'effetto fotoelettrico, ossia della trasformazione diretta di energia luminosa in energia elettrica. La cella fotoelettrica, nei suoi numerosi aspetti, consiste in un bulbo di vetro (per il visibile) o di quarzo (per la luce ultravioletta) saldato alla fiamma, nel quale si trovano la superficie fotosensibile (spesso deposta con processi diversi, in strato sottile, su una delle pareti del bulbo) o catodo, e l'elettrodo collettore di elettroni, o anodo. L'anodo in generale è posto nel centro del bulbo in modo da trovarsi nelle condizioni più favorevoli per realizzare unifomità di collezione del flusso elettronico. Se su di una cella s'invia un fascio luminoso d'intensità variabile, il catodo emette contemporaneamente un flusso elettronico d'intensità variabile proporzionale all'intensità del fascio e con lo stesso ritmo, poiché le celle fotoelettriche (come tutti o quasi tutti i tubi elettronici) non hanno praticamente inerzia.
La fig. 1 indica, qualitativamente, un comune schema di utilizzazione, di una fotocella. S è la sorgente luminosa, C la cella, c la superficie fotosensibile (catodo), a l'elettrodo collettore (anodo) connesso alla batteria di alimentazione AB (quella che fornisce la differenza di tensione fra anodo e catodo) attraverso la resistenza R (dell'ordine del megaohm) e la batteria supplementare B′ che dà la polarizzazione alla griglia della valvola V. Questa è destinata ad amplificare, senza distorsione, la corrente fotoelettronica.
Al variare dell'intensità luminosa, varia la corrente fotoelettronica e conseguentemente la caduta ohmica sulla resistenza R. Le variazioni di potenziale cosi ottenute (sull'estremo della resistenza R, collegato con la griglia della valvola), variazioni che riproducono fedelmente le variazioni del flusso luminoso (a parte il senso, poiché quando il flusso aumenta il potenziale sulla griglia diminuisce e reciprocamente questo aumenta quando il flusso decresce), sono facilmente amplificabili e la valvola V ha precisamente questo scopo. Si può dire che nella possibilità di questa facile amplificazione consiste essenzialmente la praticità delle celle fotoelettriche.
Tale amplificazione consente da una parte di compensare lo svantaggioso rendimento, dall'altra di introdurre a profitto delle celle medesime e del loro impiego tutta la sviluppatissima tecnica dei tubi elettronici e dei sistemi di amplificazione.
Per es., già nel modesto schema di cui alla fig.1, un oscillografo elettromagnetico G, inserito nel circuito di placca della valvola, permette di conoscere con notevole esattezza le variazioni di corrente della cella e quindi della luce che è emessa dalla sorgente (se queste variazioni non sono troppo rapide e l'intensità luminosa troppo esigua), poiché cella e valvola sono o possono essere poste in condizioni di rigorosa proporzionalità.
Le celle oggi correntemente usate sono di due tipi: a vuoto spinto e a gas inerte. Le prime erogano una corrente (almeno in luce monocromatica) rigorosamente proporzionale (o quasi) alla intensità luminosa, le seconde invece sono soggette a fluttuazioni dovute ai processi di ionizzazione che i fotoelettroni determinano nel gas di cui sono riempite.
Le prime, aumentando gradualmente la tensione applicata agli elettrodi, erogano una corrente fotoelettronica (per un determinato flusso luminoso incidente) che cresce fino a un valore massimo al dilà del quale la corrente è indipendente dalla tensione applicata, e non aumenta ulteriormente con l'aumentare della tensione medesima (corrente di saturazione); le seconde invece (poiché il gas di cui sono riempite viene in parte ionizzato dagli elettroni che la luce libera dal catodo e questa ionizzazione è tanto più grande quanto più elevata è la tensione applicata agli elettrodi) non raggiungono una corrente di saturazione indipendente dalla tensione medesima e sono soggette a fluttuazioni, anche per una tensione determinata, perché a queste va soggetta la corrente di ionizzazione.
La fig. 2 mostra l'andamento della corrente, in funzione del potenziale applicato agli elettrodi, per i due tipi di celle. Per la seconda più che una linea sarebbe una striscia progressivamente allargantesi che dovrebbe disegnarsi, data la presenza delle fluttuazioni di cui abbiamo ora parlato. Le celle costruite dall'industria hanno gli aspetti più disparati. Le fig. 3 a, a′; b, b′ indicano due tipi molto comuni di celle. Possono variare poi e in generale variano, e sono coperti da brevetti, i metodi di fabbricazione delle superficie fotosensibili, ma le differenze fra metodo e metodo non sono in generale grandi.
Le fotocelle moderne con metalli alcalini sono a strati sovrapposti di platino e metallo, l'ultimo dei quali monoatomico (alcalino puro attivo). Le celle al cesio sono a strati di argento, ossido di argento e ossido di cesio, coperti da uno strato sottile (assorbito) di cesio puro. Il campo di applicazione delle fotocelle si va sempre più estendendo, dalle applicazioni scientifiche, come la microfotometria, alle applicazioni correnti come i relais fotosensibili. Fra le più importanti ricordiamo quelle della sonorizzazione del film e quelle della televisione. Per i particolari su queste rimandiamo agli articoli speciali, ricordando qui solo che nei film sonori, sulla pellicola, al bordo della medesima e sincrona con questa, vi è la cosiddetta banda sonora che può essere a trasparenza variabile, o ad occultazione parziale variabile. Nel primo caso la luce è modulata dalla trasparenza della banda, nel secondo dalla superficie opaca, più o meno estesa sulla banda medesima rispetto alla superficie trasparente. La corrente modulata della fotocella viene amplificata fino alla regolazione di un altoparlante. Nella ripresa della pellicola il processo è naturalmente invertito; per la modulazione della banda si utilizzano i cosiddetti relais luminosi.
Nella televisione, in quella a fotocelle, è la luce modulata del raggio esploratore riflesso dal soggetto che viene convertita dalle fotocelle, per essere poi amplificata, trasmessa e riconvertita in fascio luminoso modulato all'arrivo per mezzo dei relais luminosi.
Il rendimento delle celle fotoelettriche è molto basso perché la massima parte della radiazione incidente viene o riflessa o assorbita (e trasformata in calore) o l'una e l'altra cosa insieme. Sotto questo aspetto la cella fotoelettrica è estremamente meno sensibile dell'occhio umano e non si può dire che la possibilità di amplificare le correnti fotoelettriche annulli questa differenza perché anche l'amplificazione ha dei limiti, che sono determinati dalle condizioni di stabilità dei circuiti, limiti che allo stato attuale delle cose difficilmente si vede come superare. Così mentre con l'occhio si può ritenere di apprezzare una intensità luminosa (nel verde) di circa 25-30 fotoni al secondo, con le celle non si riesce a oltrepassare il limite di circa 1000 fotoni al secondo.
È quindi un pregiudizio il ritenere le celle fotoelettriche degli strumenti ultrasensibili e capaci di raggiungere limiti che la vista umana non si è mai sognata. È esattamente il contrario, ma in compenso le celle fotoelettriche non hanno un campo di sensibilità così estremamente limitato come quello delle frequenze dello spettro visibile e si prestano a tutte le trasformazioni che l'energia elettrica consente (vedi, per es., il caso tipico della televisione). Inoltre posseggono una fedeltà e riproducibilità fenomenologica, che l'occhio umano non può evidentemente garantire.
Il rendimento delle celle si misura dal rapporto fra energia elettrica emessa ed energia luminosa incidente, o fra intensità di corrente e illuminazione. Per es., le fotocelle a idruro di calcio hanno una sensibilità di circa 1-5 microamp-lumen e quelle al cesio una sensibilità di 20-60 microamp-lumen. La forma del catodo e dell'anodo e la loro disposizione hanno un'influenza essenziale sull'andamento della cosiddetta caratteristica, ossia sulla curva dell'intensità di corrente in funzione del potenziale applicato agli elettrodi. Per elettrodi molto vicini, o quando il catodo quasi avvolge l'anodo, si raggiunge presto la corrente di saturazione, anzi si possono avere (in virtù dell'energia propria dei fotoelettroni) delle correnti apprezzabili e vicine a quella di saturazione anche con una differenza nulla di tensione fra i due elettrodi.
In questo caso la cella fotoelettrica si comporta come una íorza elettromotrice derivata direttamente dalla conversione di energia luminosa in energia elettrica.
Quando invece gli elettrodi sono lontani o poco favorevolmente disposti si raggiunge la corrente di saturazione solo per potenziali applicati, fra catodo e anodo, di qualche diecina di volt. Per es., negl'impianti per la radiovisione si usano celle che hanno un potenziale di saturazione (potenziale necessario per raggiungere la corrente di saturazione) dell'ordine di 100 volt.
La fig. 4 dà le caratteristiche tipiche di due fotocelle a vuoto; la curva a per elettrodi vicini, la b per elettrodi lontani.
Per quanto riguarda la relazione fra intensità luminosa e corrente fotoelettronica, si può considerare che per le cellule a vuoto, come abbiamo già detto, questa relazione sia quella della proporzionalità. Per certi ipi di celle la cosa è rigorosa, per altre il discostarsi un po' dalla proporzionalità è dovuto essenzialmente alle condizioni reciproche degli elettrodi.
Per le cellule a gas, a parte le fluttuazioni di ionizzazione, sussisterebbe ugualmente la proporzionalità, ma solo se la tensione applicata agli elettrodi restasse rigorosamente costante. Questa condizione invece, lavorando in regime di saturazione, non è necessaria per le cellule a vuoto spinto (v. fig. 2).
In generale si può scrivere per ogni tipo di cella una relazione del tipo
dove i è la corrente fotoelettrica in generale espressa in microampere, K una costante che dipende dal tipo di cella usato e che è tanto più grande quanto maggiore è la sensibilità della fotocella, n una costante molto prossima all'unità, dipendente anch'essa dal tipo di cella e in particolare dalle dimensioni degli elettrodi e dalla loro posizione, I l'intensità d'illuminazione in lumen.
Un tipo nuovo di fotocella, escogitato per ovviare alla scarsa sensibilità, è quello di Zvorikin, basato sull'emissione secondaria elettronica.
Un elettrone accelerato con una tensione di circa 100 volt urtando contro una superficie metallica provoca in generale l'emissione, da parte del metallo, di una diecina di elettroni secondarî. Se questi vengono nuovamente accelerati da una tensione di circa 100 volt e spinti a urtare in una seconda superficie metallica, il processo si ripete e ogni elettrone ne genererà una nuova diecina. In questo modo l'elettrone iniziale, per es., un fotoelettrone, liberato da una superficie fotosensibile, può dare origine a un centinaio di elettroni secondarî, e tutta la corrente fotoelettronica iniziale essere cosi moltiplicata per un fattore 100.
La proporzionalità non è rigorosa naturalmente e le fluttuazioni sono piuttosto rilevanti, ma ugualmente questo tipo di cella può riuscire in molti casi utilissimo e sembra destinato a un notevole sviluppo.
Nello stesso senso può essere considerato come una fotocella molto sensibile il contatore di fotoni.
Simile a quello di Geiger e Muller, così largamente impiegato nelle ricerche di radioattività, fisica nucleare e raggi cosmici, consta di un elettrodo interno (anodo) a forma di filo o di punta, circondato da un elettrodo esterno (catodo) fotosensibile. Fra i due è stabilita una differenza di tensione di circa 1000 volt e il tutto è chiuso in un involucro a tenuta (in vetro e quarzo) che permette di mantenere nell'interno, fra i due elettrodi, una pressione di qualche cm. di mercurio. Quando un fotone libera dalla parete fotosensibile un elettrone, questo, accelerato dalla tensione, provoca, nel gas rarefatto di cui è pieno il contatore, una ionizzazione progressivamente crescente fino alla scarica. La scarica però determina, con gli ioni positivi, una tale carica spaziale nelle immediate vicinanze dell'anodo, che la scarica medesima, subito dopo l'innesco si interrompe, e il contatore è di nuovo pronto a rivelare un altro fotone. In questo modo si può pensare di rivelare e contare i fotoni uno per uno, ma attualmente anche il rendimento di questi apparecchi (del resto di uso un po' delicato data la loro relativa instabilità) non è del 100/100 e a dire il vero, per quanto sicuramente molto elevato, non ancora ben noto, nemmeno nei suoi inevitabilmente larghi limiti di indefinizione dovuti all'alea delle realizzazioni sperimentali.