FOSCARDI
Famiglia di scalpellini attivi a Modena tra il XV e il XVI secolo. Il capostipite Giacomo fu detto anche Tagliapietra, e così pure il figlio Paolo e i nipoti Silvio e Ambrogio. Ignoti sono gli estremi anagrafici di Giacomo e dei suoi discendenti. La più antica notizia documentaria si rinviene in un contratto del 1510 col quale Giacomo si impegnò a "tagliare le colonne per due chiostri piccoli… con base e capitello posta in opera" (Soli, 1974, p. 112), per il monastero benedettino di S. Pietro in Modena. Su committenza dell'abate Nicolò di S. Benigno, Giacomo, coadiuvato dal figlio Paolo, partecipò dunque a una delle imprese costruttive più ambiziose e feconde di valori innovativi della cultura rinascimentale modenese: l'abbazia con l'annessa chiesa di S. Pietro, vide infatti, tra Quattro e Cinquecento, l'apporto dell'architetto Pietro Barabani, con una ipotizzata consulenza di Biagio Rossetti. Nel 1513 Giacomo aveva quasi ultimato il primo dei due chiostri, detto della Porta; l'altro chiostro, detto delle Colonne, venne invece completato nel 1531 con le ultime otto colonne: le basi e i capitelli vennero forniti dal lapicida Giovannino della Rocca, mentre Bernardino Zetti eseguì le cornici in cotto.
La recente storiografia ha restituito ai due F. un ruolo di preminente importanza nell'ambito del cantiere benedettino, tanto che si possono ritenere "i più influenti consiglieri dei monaci per le scelte tipologiche e stilistiche attuate nel monastero" (Vandelli, 1984, p. 75). Essi dimostrano infatti di aver recepito e rielaborato i contenuti classicistici espressi nel noto chiostro del Capitolo nell'abbazia di S. Giovanni Evangelista in Parma, illustre riferimento per la fabbrica modenese. In particolare, il bellissimo chiostro di levante, d'impianto quadrato, con sette archi a tutto sesto per ogni lato, risulta di derivazione parmense, anche nella soluzione dell'unico ordine di monofore binate e corniciate, sopra l'ariosa sequenza del porticato; ancora, l'impiego dell'ordine ionico nelle basi e nei capitelli emula gli esiti di nobile e sobria eleganza propri del chiostro di S. Giovanni.
Documenti riferiscono di un intervento del 1516 di Giacomo, affiancato da Paolo e da Antonio, un non meglio noto esponente della famiglia, presso la torre dell'Orologio, sulla facciata del palazzo comunale di Modena, verso la piazza Grande (Baracchi Giovanardi, 1986, p. 209). Giacomo in primis appare impegnato a procurare materiali edilizi per la lanterna, d'impianto ottagonale, che sovrasta la torre, invenzione di elettissimo gusto geometrizzante dell'architetto Bartolomeo Bonascia; e ancora Giacomo compare, accanto al Barabani, nei lavori che diedero all'antica mole medievale un aspetto consono all'idea rinascimentale del decoro urbano.
Di Giacomo e dei suoi discendenti il Vedriani (1662) cita anche l'attività scultorea, esplicata in molti lavori presso varie residenze private; memorabile fu l'intervento nel palazzo del nobile Giovanni Andrea Valentini, medico del re di Polonia: nel 1542 i F. scolpirono numerosi "bassi rilievi… dentro, e fuori nel Palagio" (p. 61) che resero la fabbrica, già sull'antica rua Grande, odierna via Farini, uno tra i più sontuosi esempi di edilizia aristocratica nella Modena del sec. XVI.
Il figlio Paolo, oltre che per gli interventi al fianco del padre, è ricordato nel 1521 per aver scolpito uno stemma da apporsi sull'angolo del "Palazzo depinto", ala della residenza comunale abbellita con pitture dai Setti fra il 1520 e il 1521; è presumibile si trattasse di un'insegna papale, oggi scomparsa, che fu in seguito collocata sullo spigolo dell'edificio tra la piazza Grande e la via Castellaro (Baracchi Giovanardi, 1986, p. 224). Del novembre 1527 è inoltre un rogito che affida a Paolo la costruzione, sulla facciata del palazzo comunale, di una nicchia in marmo (distrutta) per la Madonna di piazza, la statua in terracotta della Vergine col Bambino e s. Giovannino di Antonio Begarelli (Bonsanti, 1992, p. 250).
Scarse sono anche le notizie riguardanti Silvio, figlio di Paolo, che, nel 1539, fu all'opera presso l'antico Castello estense di Modena, anteriore all'odierno palazzo ducale, per sistemare la porta castellana, al fine di regimentare le acque del fossato che circondava la rocca (Biondi, 1987); mentre due anni dopo lo troviamo al fianco del fratello Ambrogio impegnato nei lavori di palazzo Rangoni, sull'attuale corso Canalchiaro.
Ambrogio, anch'egli figlio di Paolo, è ricordato per la prima volta nel documento dotale del 1° luglio 1530, quando ricevette dallo scultore Begarelli la somma di lire 100, oltre a "bona mobilia", a titolo di dote della sorella Margherita, sua futura sposa (Bonsanti, 1992, p. 251). Tra i primi lavori documentati di Ambrogio si colloca la partecipazione a un importante cantiere della Comunità di Modena, le nuove beccherie, edificate nel 1537, su disegno dell'ingegnere comunale Cesare Cesi, ma andate distrutte nel 1882. L'apporto di Ambrogio, testimoniato da vari pagamenti nel luglio del 1537, non pare individuabile in un'impresa particolare, ma dovette piuttosto esplicarsi nella decorazione lapidea (Martinelli Braglia, 1985, p. 82). L'anno seguente Ambrogio fu impegnato in un'altra impresa edilizia municipale, le cosiddette Caselline, costruite, sempre dal Cesi, come alloggio per le truppe.
Ambrogio vi scolpì lo stemma in marmo con le armi della Comunità modenese, dipinto in oro da Girolamo Comi, e quindi posto nello spigolo della diciannovesima casa (Soli, 1974, p. 68); scomparso nell'Ottocento, lo spigolo con la targa si uniformava alla tipologia locale dei cantoni di palazzi, pubblici o residenziali, evidenziati da conci marmorei e decori lapidei, con numerosi riscontri nell'edilizia della Ferrara estense di Biagio Rossetti.
Nel novembre del 1542 Ambrogio, coadiuvato dal fratello Silvio, eseguì le decorazioni lapidee nel palazzo del conte Ercole Rangoni, dove era impegnato il Cesi. Ancora nel quinto decennio del sec. XVII consta che Ambrogio scolpisse, insieme con il ferrarese Giovan Pietro Pellizzoni e altri, i marmi a ornamento della nuova porta Erculea, nella cinta delle mura cittadine da poco ampliate per volere del duca Ercole II d'Este.
Il nome di Ambrogio è soprattutto legato agli interventi presso la torre dell'Orologio, nel complesso del palazzo comunale di Modena. Un impegno che, a detta del Vedriani (1662), si sarebbe protratto per decenni, concludendosi nell'agosto del 1549. Esso si esplicò nella decorazione marmorea che riquadra, con cornici marcapiano e lesene, i tre piani superiori della torre, che si impone come fulcro ottico della facciata principale del municipio sulla piazza Grande.
I tre ordini di paraste - con capitelli rispettivamente ionici, corinzi e compositi, nell'osservanza della trattatistica rinascimentale - recano elementi di raffinata estrosità, come il serto che si svolge nella fascia del capitello corinzio per concludersi con due rosette nelle volute; ancora, i capitelli corinzi palesano foglie dall'intaglio vibrante, quasi lamine di metallo, che danno vita a risentiti esiti chiaroscurali. Una tensione quasi elastica sembra percepibile nel motivo, di fonte classica, dei festoni di frutta, trattenuti da nastri, che percorre l'ultima cornice marcapiano. Cospicui anche lo stemma della Comunità modenese, entro un'elaborata cartella sottostante l'orologio, nonché i volti dei quattro venti, nei tondi agli angoli del quadrante.
È ora perduto il pristino effetto cromatico, determinato soprattutto dall'utilizzo della pietra nera di paragone in cui Ambrogio eseguì le ore, le quali dovevano così risaltare sul fondo, già azzurro, della mostra, ove si accampavano i dodici segni dello Zodiaco dipinti in oro, pure scomparsi (Sandonnini, 1897). Ma dove l'estro di Ambrogio s'esprime nei toni più suggestivi è nel fregio ad altorilievo che sovrasta l'orologio. Qui, al centro, un'anfora baccellata, con evidenti rimandi al repertorio rinascimentale di matrice archeologica, è posta fra una coppia affrontata di draghi alati; dai draghi si diparte un racemo dalle esuberanti volute, con boccioli, rosette, profili di mascheroni - topoi del vocabolario manieristico - e protomi caprine e leonine, che si conclude in due teste di delfini contro due anfore di foggia antichizzante; sopra ai delfini si stagliano una lonza alata e un uccello favoloso, che paiono desunti dai più fantasiosi "bestiari" medievali.
Se il motivo del delfino, qui araldicamente stilizzato, rinviene un precedente nell'affresco di Alberto Fontana nel fregio delle beccherie nuove (1537: Modena, Galleria Estense), altri riscontri iconografici sono praticabili con i rilievi nel portale e nel fregio del camino nella sala grande del palazzo dei Principi in Correggio, riferibili all'ambito del Rossetti. Altri rimandi sono possibili con l'ancona scolpita in arenaria nella cappella di S. Sebastiano nella cattedrale modenese, databile intorno al 1510; qui pure compare il serto vegetale arricchito da anfore, uccelli, mascheroni, palmette, ma articolato secondo un'euritmia - sotto l'egida del classicismo rinascimentale - che Ambrogio sembra aver superato per soluzioni nell'ambito della maniera. Affinità, nella fantasia del repertorio archeologizzante, si colgono invece con il fregio in terracotta dei fratelli Bisogni, sulla facciata della chiesa modenese di S. Pietro, situabile poco dopo il 1530.
Non va escluso che il contributo di Ambrogio nei lavori della torre dell'Orologio fosse più complesso di quello di un maestro lapicida, intento ai soli - benché superbi - rilievi ornamentali; il Vedriani (1662), basandosi sulla Cronaca coeva del Lancillotto, estende l'intervento di Ambrogio sulla torre anche ai lavori della lanterna, attribuendo a lui per errore quanto eseguito da Giacomo e da Paolo. Le esperienze nel settore architettonico sono del resto comprovate dal fatto che Ambrogio, insieme con Andrea Barabani, risulti nominato "fabbriciere" della torre dell'Orologio negli atti della Comunità di Modena del giugno 1556 (Baracchi Giovanardi, 1979, p. 88).
Fonti e Bibl.: Tomasino de' Bianchi (detto Lancillotto), Cronaca modenese(XVI sec.), in Monumenti di storia patria delle prov. modenesi, VIII (1869), pp. 157, 274; L. Vedriani, Raccolta de' pittori, scultori modonesi…, Modena 1662, pp. 61 s.; G. Tiraboschi, Biblioteca modenese…, VI, Modena 1786, pp. 546 s. (s.v. Tagliapietra); L.F. Valdrighi, Diz. storico-etimologico delle contrade e spazii pubblici di Modena, Modena 1880, p. 60; T. Sandonnini, Del palazzo comunale di Modena, in Atti e mem. della Deputaz. di storia patria per le antiche prov. modenesi, s. 4, VIII (1897), p. 120; G. Soli, Chiese di Modena, a cura di G. Bertuzzi, Modena 1974, III, pp. 68, 112, 200; A. Leonelli, Guida di Modena, Modena 1976, p. 154; O. Baracchi Giovanardi, La "piazza Grande" negli atti della Comunità di Modena dal 1412 al 1580, in Atti e mem. della Deputaz. di storia patriaper le antiche prov. modenesi, s. 11, I (1979), pp. 85, 88; V. Vandelli, in S. Pietro di Modena…, Modena 1984, pp. 67, 75; O. Baracchi Giovanardi, ibid., p. 172; G. Martinelli Braglia, in Il palazzo comunale di Modena, a cura di G. Guandalini, Modena 1985, pp. 75-78, 82 s.; O. Baracchi Giovanardi, ibid., p. 266; Id., Notizie inedite di storia artistica modenese fra '400 e '500, in Atti e mem. della Deputaz. di storia patria per le antiche prov. modenesi, s. 11, VIII (1986), pp. 209, 218, 224; G. Biondi, Prima del palazzo: la memoria dei castelli, in Il palazzo ducale di Modena, a cura di A. Biondi, Modena 1987, p. 161; O. Baracchi, Tradizioni del primo Cinquecento: matrimoni, figuli, mascherari e "veludari", in Atti e mem. della Deputaz. di storia patriaper le antiche prov. modenesi, s. 11, XIV (1992), pp. 91 s.; G. Bonsanti, A. Begarelli, Modena 1992, pp. 11, 250 s.; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXXII, p. 405 (s.v.Tagliapietra).