FORMULA
. Storia del Diritto. - Le formule processuali romane. - Formula è espressione tecnica del processo fra privati, praticato in Roma nell'ultimo secolo e mezzo della repubblica e per tutta l'età del principato. In tale processo si chiama formula (o anche iudicium) un documento nel quale sono definiti i termini della lite ed è designata la persona dell'arbitro alla cui decisione i litiganti si rimettono. Vi sono schemi astratti di formule che il pretore - in dipendenza da una promessa edittale, o con riferimento a norme del ius civile - tiene esposti nell'albo a disposizione dei privati per le varie specie di liti possibili. Essi sono il risultato di una lunga elaborazione compiuta nella pratica giudiziaria. Ma la redazione della formula relativa alla singola lite concreta è opera concorde delle parti litiganti e frutto di un dibattito che si svolge fra loro con l'assistenza dei rispettivi giuristi consulenti e sotto l'ingerenza del pretore (in iure). Compito del pretore è quello di controllare le proposte definitive dell'attore e del convenuto, e di permettere o no che le questioni controverse vengano formulate e sottoposte all'arbitro nei concreti termini che l'una o l'altra parte propone. Nel che consiste il dare (o rispettivamente, il denegare) actionem (formulam, iudicium), exceptionem. La decisione della lite, poi, non è di competenza del magistrato, ma di un arbitro fiduciario delle parti (iudex privatus). E perciò, oltre che a formulare i termini della lite, le parti debbono procedere d'accordo a scegliere da un albo apposito una persona di loro fiducia e a nominarla arbitro: nomina che il pretore è parimenti chiamato ad approvare (dare iudicem). Riportata sopra ogni punto l'approvazione del magistrato giusdicente, le parti manifestano l'accordo fra loro raggiunto, sia circa la formulazione dei termini della lite, sia circa la nomina dell'arbitro, con un atto bilaterale solenne, che consiste nella formale proposta e accettazione della formula concordata (edere et accipere iudicium): la litis contestatio del processo formulare.
La formula concreta, pertanto, è il documento di un atto di compromesso che si conclude con l'intervento del pretore. Compito del quale, avvenuta che sia la litis contestatio, è poi quello di comunicare all'arbitro scelto dalle parti la formula concordata e d'investirlo della decisione nei termini in quella fissati (iudicare iubere). Così la formula non ha soltanto la funzione giuridica di esprimere l'accordo delle parti circa i termini della lite, ma assume inoltre - in quanto comunicata all'arbitro mercé il iussum iudicandi che corre parallelo alla litis contestatio - la funzione pratica di segnare all'arbitro precise istruzioni e direttive per la decisione. In quanto viene proposta e accettata con la litis contestatio, essa non è altro che un documento contrattuale. In quanto viene comunicata all'arbitro in una col decreto d'investitura (iussum iudicandi), essa serve a lui da istruzione vincolante nell'esercizio del suo ufficio.
Non è da credere che il processo formulare sia una creazione della lex Aebutia né che esso si sia svolto dalla legis actio. Le sue origini vanno cercate fuori della legis actio, nel processo degli stranieri (peregrini), ai quali la legis actio non era accessibile. Un processo così agile nel suo congegno e aperto, nei criterî di decisione, alle esigenze dell'equità, non doveva poi tardare ad estendersi anche alle liti di cittadini romani fra loro. Certamente la riforma operata dalla lex Aebutia verso l'anno 130 a. C. si comprende assai meglio ove si ammetta che essa, anziché trasportare dagli stranieri ai cittadini un procedimento rimasto a questi per l'innanzi inaccessibile, si limitasse a legalizzare un procedimento che era già praticato nelle liti fra essi e i cittadini: conferisse, cioè, al processo formulare carattere e valore pari a quello della legis actio contenziosa.
La struttura logica della formula, nel suo schema generale, è quella di un giudizio ipotetico alternativo, nel quale, posta una premessa o una serie di premesse, la cui sussistenza in fatto forma oggetto dell'accertamento arbitrale, si afferma come conseguenza - per l'ipotesi che risultino accertate - che il giudice dovrà condannare il convenuto: mentre per l'ipotesi contraria si afferma che dovrà assolverlo (si paret, iudex Numerium Negidium Aulo Agerio condemnato: si non paret, absolvito). Precede la nominativa designazione dell'arbitro (Titius iudex esto). La questione fondamentale della lite - e per essa la ragione che l'attore fa valere in giudizio (v. cosa giudicata) - è formulata in una premessa che non può mai mancare perché è essenziale a ogni giudizio, e che prende il nome di intentio. Essa vale a fissare criterî e limiti al potere dell'arbitro nell'accertamento del rapporto giuridico controverso, e va tenuta ben distinta dalla conseguenza che vi si ricollega e che si denomina condemnatio. Solo in taluni giudizî, che sono di mero accertamento - in quanto l'arbitro non è chiamato che a stabilire l'esistenza di uno status di una persona o il modo di essere di un rapporto giuridico - la formula consta della pura intentio e il giudizio si dice praeiudicium.
Si distinguono diverse figure di formule secondo il modo come è posta nella intentio la questione fondamentale della lite e sono fissati i criterî e i limiti dell'apprezzamento dell'arbitro. In ius concepta si dice la formula nella cui intentio la questione è posta in termini di diritto (p. es., la formula petitoria: si paret rem q. d. a. ex iure Quiritium A.i A.i esse: o la formula dell'actio certae creditae pecuniae: si paret N.m N.m A.o A.o XS X millia dare oportere). In factum concepta si dice invece la formula nella cui intentio la questione è posta in termini di fatto (p. es.: si paret A.m A.m apud N.m N.m mensam argenteam deposuisse eamque dolo malo Ni. N.i redditam non esse). L'impostazione della questione in termini di fatto è indice di una tutela giuridica meramente pretoria: laddove in termini di diritto si possono formulare tanto ragioni riconosciute dal ius civile quanto ragioni riconosciute solo dal diritto pretorio (queste ultime nelle formulae utiles). Nei varî atteggiamenti della intentio si rispecchiano in modo plastico e intuitivo con le loro intrinseche differenze le varietà dei rapporti giuridici che si possono dedurre in giudizio.
La intentio redatta in termini di diritto può essere, secondo la terminologia romana, certa oppure incerta. È certa, quando propone una ragione con oggetto specificamente determinato, prescindendo dall'indicazione del fatto che le ha dato vita (come negli esempî di formule testé addotti); è incerta quando propone una ragione con oggetto indeterminato, ma determinabile secondo un dato criterio di valutazione giuridica (p. es.: quidquid ob eam rem N.m N.m A.o A.o dare facere oportet ex fide bona; quam ob rem N.m N.m A.o pro fure damnum decidere oportet). La intentio incerta ha sempre bisogno, appunto per questa sua indeterminatezza, di una previa indicazione del fatto che - secondo quanto afferma l'attore - valse a costituire il rapporto giuridico da accertare: indicazione che si denomina demonstratio (p. es.: quod A.s A.s N.o N.o rem q. d. a. vendidit, quidquid etc.). L'apprezzamento dell'arbitro nelle formule con intentio incerta può essere più o meno esteso. Esso raggiunge la maggiore ampiezza nei iudicia bonae fidei, ai quali le formule con intentio certa si contrappongono come iudicia stricta.
Anche la condemnatio - sempre diretta a una quantità di denaro, il che si spiega come reliquato storico del primitivo uso di convenire fra le parti un prezzo di riscatto o composizione (damnum), per il torto recato dall'una all'altra - può essere certa o incerta. È certa quando la condanna prevista ha per oggetto una somma determinata (p. es.: XS X millia condemnato). È incerta, quando designa una quantità di denaro determinabile solo mediante una previa litis aestimatio (p. es.: quanti ea res erit; o: quanti ea res est, condemnato: espressioni che riferiscono la stima della cosa controversa rispettivamente al valore che essa avrà al momento della sentenza, oppure a quello che la medesima ha all'atto della litis contestatio).
Una fisionomia particolare assumono le formule dei giudizî detti divisorî. In esse il compito che le parti assegnano al giudice dopo proposta la questione della divisione, consiste essenzialmente nella ripartizione e attribuzione della cosa (adiudicatio): non comprende una condanna se non in ordine a eventuali obblighi o conguagli fra condividenti.
Può darsi che dal pretore - in origine, anche qui, dietro suggerimento della giurisprudenza - una formula con la intentio improntata al ius civile fosse messa a profitto per servire, con opportune modificazioni, alla tutela giuridica di situazioni di fatto più o meno diverse da quella cui il ius civile ricollegava il sorgere di un certo tipo di rapporto giuridico. Orbene, le formule adattate a presupposti di fatto diversi da quelli proprî della intentio iuris civilis della formula originale che fa da paradigma, si dicono formulae utiles. La modificazione che serve più spesso per adattare la formula a un'ipotesi di fatto diversa da quella per cui è destinata la formula originale, è la fictio. Per essa l'arbitro deve prescindere dal rilevare che nel caso sottoposto al suo esame manca uno di quei presupposti di fatto da cui il ius civile fa dipendere il sorgere di un dato rapporto giuridico: deve, cioè, considerare quel presupposto come presente e, astraendo da esso, applicare quanto al resto i principî del ius civile. Altra modificazione che vale ad adattare la formula a una fattispecie diversa, è la trasposizione di soggetto dalla intentio alla condemnatio. Per essa l'arbitro, una volta riconosciuto che il rapporto giuridico dedotto nella intentio sussiste in confronto di una persona ivi indicata, deve pronuciare la condanna all'indirizzo della parte che in giudizio prende il posto di quella persona, sia in virtù di una sostituzione processuale (p. es., quale procurator, tutor, curator), sia in virtù di un'accessione nella legittimazione passiva: accessione, che il diritto pretorio ammette nelle cosiddette azioni adiettizie che concede contro il paterfamilias per negozî di soggetti a potestà, da lui autorizzati. Nella struttura logica della formula la intentio costituisce, come s'è detto, la premessa costante e fondamentale della condemnatio. Questa, tuttavia, può esser fatta dipendere, inoltre, da altre premesse che di solito vengono formulate come condizioni negative della condanna. Così in una serie di formule (che si soglion chiamare iudicia arbitraria) si trova sempre inserita fra la intentio e la condemnatio una clausola, per la quale l'arbitro, una volta accertata la sussistenza in fatto della ragione fatta valere nella intentio, deve anzitutto dare al convenuto facoltà di restituire all'attore la cosa controversa da lui posseduta.
Di frequente, poi, accade che dietro iniziativa del convenuto, e naturalmente con l'approvazione del pretore, venga inserita dopo la intentio una clausola denominata exceptio: la funzione della quale è quella di mettere in rilievo circostanze di fatto tali da paralizzare l'efficacia della ragione fatta valere; circostanze che altrimenti non potrebbero esser tenute in conto, dati i limiti che il tenore della intentio pone al potere di apprezzamento dell'arbitro. In particolare, di fronte a una intentio improntata al ius civile, la exceptio serve per conferire a circostanze di fatto, irrilevanti secondo quel diritto, il valore giuridico di fatti impeditivi o estintivi del rapporto controverso alla stregua del diritto pretorio. Prima delle exceptiones sembra fossero in uso le praescriptiones pro reo: clausole che si premettevano al corpo della formula e che precludevano all'arbitro l'esame del merito della causa, ove riscontrasse fondata l'affermazione in esse dedotta.
Le parti hanno anche la possibilità di limitare il tema della lite mediante una praescriptio (pro actore). In taluni casi, infine, nei quali non si tratti di escludere la condanna (come con la exceptio), ma di ridurne o di limitarne l'ammontare, si provvede a ciò inserendo nella condemnatio apposite clausole. Sotto ogni aspetto le formule romane si rivelano capolavori di tecnica giuridica per l'arte di esprimere in termini brevi e precisi i lineamenti essenziali di ogni rapporto giuridico e di porre criterî e limiti ai poteri dell'arbitro così nell'accertamento del rapporto controverso come nella valutazione dell'oggetto della condanna.
I Formularî medievali. - Formularî si sogliono denominare le raccolte di schemi preparati per servir di guida alla redazione degli atti processuali o dei documenti giuridici. Non li trascurarono i Romani che dapprima li intesero sotto la voce monumenta. E la tradizione romana continuò nel Medioevo. A modelli più antichi si ispirò certamente il formulario visigotico che si crede redatto fra il 613 e il 621. Ma specialmente la Francia appare come il paese classico dei formularî: quasi una trentina si conservano ancora, scaglionati tra il secolo sesto e il nono. Si sogliono chiamare talvolta dal nome della regione in cui furono adoperati, come avvenne p. es. per le Formulae andegavenses che sembrano fra tutte le più antiche (c. 580), per le senonenses (768-793), per le flaviniacenses. Talaltra, con minore perspicuità, dal nome dello scopritore o dell'editore, come, per es. per le formule bignonianae, le lindenbrogianae, le merkelianae, ecc. Le sole che portano il nome del loro autore sono le marcolfine scritte dal monaco Marcolfo a istruzione dei pueri che si fossero voluti dedicare al notariato, probabilmente agl'inizi del sec. VIII. Le formule romane si sono adattate al diritto germanico, in qualche modo barbarizzandosi, non pur formalmente, ma materialmente. L'Italia non ha conservato, all'infuori del Chartularium langobardicum del sec. X, opere che si possano esattamente assimilare alle francesi, ma le ha certamente avute. I documenti stessi redatti sopra determinati tipi ne dimostrano l'esistenza, così nella parte longobarda come nella bizantina.
Quando risorse il diritto romano Irnerio stesso non disdegnò di soccorrere alla pratica con un rinnovato formulario. E si ebbe in seguito una rifioritura amplissima di letteratura formulare che si mostra in continuo progresso da Corradino di Padova a Ventura da Verona, a Raniero d'Arezzo e ai bolognesi Salatieleto e Rolandino dei Romanzi. La rinomanza dei nostri maestri di arte notaria fece penetrare le loro opere oltralpe: e sui loro si formarono, in Francia prima e in Germania e in Spagna più tardi, altri formularî. Furono dunque un potente veicolo di romanizzazione del diritto. Con Rolandino la letteratura formulare raggiunse in Italia l'apogeo. Le formule bolognesi tennero il campo dappertutto. Ma non si può dire che la letteratura sia rimasta del tutto stagnante. Nella seconda metà del sec. XV si consolidarono, fra gli altri, il formulario vaticano e il fiorentino. Ed ebbero in seguito grande vitalità il formulario senese, reso in qualche modo ufficiale, e il piacentino. Ogni regione ebbe il suo. Solo la codificazione li antiquò tutti, rendendone necessaria la revisione. L'alta scienza mostrò poi disdegno per quella forma letteraria legata alla realtà, ma i pratici sentirono ancora la necessità di continuarla.
Le formule medievali si consulteranno specie nelle raccolte di Rozière, Rec. gén. des formules usitées dans l'empire des Francs du Ve au VIIe siècle, Parigi 1859 e di Zeumer, in Mon. Germ. hist. Parecchi formularî del periodo bolognese furono editi nella Bibl. iuridica medii aevi del Gaudenzi. Per la lett. su di esse cfr. E. Besta, St. del dir. ital., I, Milano 1923, p. 259, n. 1.