Formato
Nel lessico cinematografico, il termine formato designa da un lato la larghezza della pellicola, indicata in millimetri e in maniera ellittica, dall'altro, in modo estensivo, le dimensioni dell'immagine proiettata sullo schermo.
Nel corso dei suoi cento e più anni di storia, il cinema, attraverso l'evoluzione della tecnica, ha subito drastici cambiamenti, come testimoniano l'avvento del sonoro, del colore e del digitale: ma il f. della pellicola considerato standard è stato fin dalle origini il 35 mm. Tale f. nacque nel maggio 1899, quando Thomas A. Edison e William K.L. Dickson, per le prime immagini in movimento del loro cinetoscopio, ridussero a metà la larghezza della pellicola a 70 mm, prodotta in quegli anni dalla Eastman Kodak Company per gli apparecchi fotografici in uso. La pellicola aveva una doppia perforazione, su entrambi i lati del fotogramma, che consentiva il suo regolare scorrimento sia in fase di ripresa, sia in fase di proiezione. Anche i fratelli Auguste e Louis Lumière fecero uso di una pellicola delle stesse dimensioni, con una sola perforazione circolare ai due lati dell'immagine, contro le quattro rettangolari adottate da Edison. Il 35 mm si affermò definitivamente come f. standard nel 1909, in seguito alla decisione assunta in tale direzione dall'associazione dei maggiori produttori americani (Motion Picture Patent Company), cui si adeguarono rapidamente anche i produttori europei. Nonostante ciò, diversi altri f., dagli 8 ai 70 mm, furono prodotti in quegli anni, senza però che nessuno di questi fosse davvero in grado di imporsi sul mercato.
Un fatto importante avvenne tuttavia nel dicembre del 1922, quando la francese Pathé Frères introdusse una pellicola a 9,5 mm, con relative macchina da presa e proiettore: si trattava del cosiddetto Pathé-Baby, "le cinéma chez soi", come lo definì la stessa casa di produzione, il primo vero e proprio sistema pensato per il cinema amatoriale. La maneggevolezza e l'economicità del sistema garantirono a quest'ultimo, almeno in Europa, un notevole successo, che tuttavia non in-taccò minimamente l'uso del 35 mm nell'ambito del cinema professionale. In risposta all'operazione della Pathé, la Kodak immise allora sul mercato, nel 1923, un sistema a 16 mm, più costoso ma anche più affidabile di quello dei rivali. La competizione fra le due società terminò alla fine degli anni Venti, quando la Kodak acquistò gli stabilimenti per la produzione di pellicola della Pathé. Il 9,5 mm fu sostanzialmente soppiantato nel 1932, con l'introduzione da parte della Kodak di una pellicola a 8 mm. L'8 e il 16 mm conquistarono così una decisa supremazia nell'ambito del cinema amatoriale e il 16 mm fu frequentemente utilizzato anche per il documentario, il cinema didattico e scientifico, nonché, in anni successivi, per la realizzazione di film di finzione a basso costo da parte di produzioni indipendenti. I due f. conobbero poi un ulteriore perfezionamento fra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, quando furono immessi sul mercato il super 8 e il super 16 che permettevano di estendere lo spazio del fotogramma ‒ e quindi di migliorare la qualità dell'immagine in sede di proiezione ‒ su un f. di pellicola che rimaneva, in un caso, di 8 e, nell'altro, di 16 mm. Ancor più del 16 mm, il super 16 garantiva dei risultati di notevole qualità e non furono pochi i film professionali girati in questo f. ‒ anche se poi spesso stampati in 35 mm per la distribuzione ‒, fra i quali è possibile citare The draughtman's contract (1982; I misteri del giardino di Com-pton House) di Peter Greenaway e Come back to the 5 & dime, Jimmy Dean, Jimmy Dean (1982; Jimmy Dean, Jimmy Dean) di Robert Altman.
Come era accaduto per i f. di pellicola più stretti del 35 mm, anche quelli più larghi furono ideati già negli ultimi anni dell'Ottocento: la pellicola utilizzata dai fratelli Max ed Ernst Skladanowsky nel 1895 misurava, per es., 54 mm. Fra i primi ad approntarne una di 70 mm vi fu, nel 1914, l'italiano Filoteo Alberini, che la chiamò Panoramica. Nel 1929 fu la volta della Grandeur della Fox Film Corporation (Happy days, 1930, Giorni felici, di Benjamin Stoloff; The big trail, 1930, Il grande sentiero, di Raoul Walsh), l'anno successivo, della Real Life della Metro Goldwyn Mayer (Billy the kid, 1930, di King Vidor) e del Vitascope della Warner Bros. (A soldier's plaything, 1931, di Michael Curtiz). Queste prime pellicole di 70 (o 65) mm ‒ che consentivano una maggiore definizione dell'immagine e nitidezza dei dettagli ‒ erano state approntate per consentire la proiezione di film le cui immagini fossero sullo schermo più larghe di quelle del f. tradizionale. La moda, tuttavia, si esaurì nel volgere di un paio d'anni. Il 70 mm si affermò solo negli anni Cinquanta, quando l'avvento della televisione spinse l'industria cinematografica a potenziare la natura spettacolare del mezzo. Ma a questo punto il discorso sui f. della pellicola si fonde con quello dei f. dell'immagine.
Il f. dell'immagine cinematografica proiettata su schermo ‒ ovvero dell'inquadratura così come la vede lo spettatore ‒ è definito in base al rapporto sussistente tra l'altezza e la larghezza. Fissata l'altezza a una misura standard pari a 1, la larghezza può variare ‒ salvo casi eccezionali ‒ da 1,33 a 2,35. Il rapporto fra queste due dimensioni è solitamente designato con l'espressione aspect ratio. Il f. standard, quello più utilizzato nel periodo che va dai primi film dei fratelli Lumière alla fine degli anni Cinquanta, ha un aspect ratio di 1:1,33 (il che significa che a un'altezza pari a 1, la larghezza dell'immagine è di 1,33 volte superiore). Sino agli anni Trenta quasi tutti si attennero a questo f., anche se ci furono importanti esempi di film con immagini quasi quadrate (Sunrise ‒ A song of two humans, 1927, Aurora, di Friedrich Wilhelm Murnau, e Le million, 1931, Il milione, di René Clair hanno un aspect ratio di 1:1,20) o, al contrario, tentativi di proiezione che già anticipavano gli effetti del Cinemascope, con immagini molto allargate come accadeva ‒ oltre che negli esempi visti sopra ‒ in Napoléon (1927; Napoleone) di Abel Gance. Per questo film era prevista la presenza di tre macchine che proiettavano in sincrono tre diverse immagini di f. standard, le quali, affiancate l'una all'altra, davano come risultante un'immagine rettangolare estremamente larga.
Nel 1930, con l'avvento del sonoro, la Motion Picture Producers and Distributors of America stabilì in modo definitivo che il f. standard (academic ratio) sarebbe stato di 1:1,33, ratificando così di fatto quel che accadeva da anni. Negli anni Cinquanta, tuttavia, la concorrenza della televisione spinse il cinema, come si è già visto, a potenziare la propria natura spettacolare: si diffusero così, insieme al colore, i cosiddetti sistemi o schermi panoramici (widescreen). Il primo fra questi, poi caduto in disuso, fu il Cinerama, brevettato nel 1946 da Fred Walzer e utilizzato dal 1952. Il sistema, simile a quello usato da Gance per Napoléon, consisteva nell'uso di tre proiettori a 35 mm, ognuno dei quali aveva una propria porzione di schermo; l'immagine proiettata che ne risultava aveva un aspect ratio pari a 1:3. La macchinosità del Cinerama rese possibile la produzione di un numero limitato di film, per lo più documentari; nell'ambito del cinema di finzione si possono comunque ricordare The wonderful world of the brothers Grimm (1962) di Henry Levin e George Pal, How the West was won (1962; La conquista del West) di John Ford, Henry Hathaway e George Marshall.
La vera svolta avvenne nel 1953 con la messa a punto del Cinemascope da parte della 20th Century-Fox. Il Cinemascope, in realtà, non faceva altro che riprendere un sistema ideato nel 1928 da Henri Chrétien, che utilizzava lenti anamorfiche in grado di comprimere le immagini in fase di ripresa e riespanderle in quella di proiezione. Il Cinemascope, contrariamente al Cinerama, non comportava per le sale cinematografiche l'acquisto di particolari attrezzature (era sostanzialmente sufficiente montare uno schermo più largo e munirsi di una lente anamorfica), il che contribuì indiscutibilmente al suo successo. Molte case di produzione finirono così con l'adottarlo, mentre altre, per non pagare i diritti alla 20th Century-Fox, ne misero a punto uno proprio (come il Totalscope, il Tohoscope ecc.). L'aspect ratio di questo f. variava tra l'1:2,35 e l'1:2,55 a seconda che la pista sonora fosse o no presente sulla pellicola. Il primo film realizzato in Cinemascope fu The robe (1953; La tunica) di Henry Koster, cui seguì How to marry a millionaire (1953; Come sposare un milionario) di Jean Negulesco. Il sistema non era del tutto esente da difetti. La distanza fra la posizione della macchina da presa e gli oggetti fotografati poteva alterare in modo innaturale le dimensioni di questi ultimi (i volti in primo piano, per es., tendevano a essere più larghi del dovuto). Le lenti a 50 mm e la bassa emulsione dei colori della pellicola utilizzata tendevano inoltre a ridurre la profondità di campo rispetto alla media. Sta di fatto che alcuni registi, fra i primi a utilizzare il Cinemascope, approfittarono dello 'schermo largo' per ridurre il numero degli stacchi e ricorrere con più frequenza ai long take, inquadrature, cioè, di maggior durata rispetto alla media. Ne sono esempi i film del 1954 di Otto Preminger (Carmen Jones) e Vincente Minnelli (Brigadoon), in cui la durata media delle inquadrature è pari, rispettivamente, a 43 e 26 secondi, contro i 13 secondi che rappresentano la durata media dei singoli piani dei film girati in quel periodo. Altri, invece, si mossero in direzione opposta, dimostrando che si poteva girare in scope con un montaggio anche molto rapido, come fece Robert Aldrich in Vera Cruz (1954), film in cui la durata media di ogni inquadratura è pari a soli 5 secondi (Salt 1992², p. 246). Il widescreen, inoltre, determinava un radicale mutamento nella composizione del quadro che poteva consentire, secondo i casi, un maggiore sfruttamento espressivo dei margini dell'inquadratura, un uso più frequente di immagini decentrate, una moltiplicazione dei punti d'interesse all'interno di uno stesso piano.Si è già ricordato che il Cinemascope non era l'unico sistema widescreen in voga negli anni Cinquanta: altri, come il Vistavision (supportato dalla Paramount Pictures), il Todd-Ao e il Technirama, godettero di una certa fortuna. Nel 1960 i laboratori dell'italiana Technicolor inventarono a loro volta un nuovo dispositivo widescreen, il Techniscope. I film realizzati con questo sistema usavano una pellicola a 35 mm e lenti normali. Solo in fase di stampa si ricorreva al processo di anamorfizzazione. Il Techniscope consentiva l'uso di lenti a focale corta, garantendo così la possibilità di una maggiore profondità di campo rispetto ad altri tipi di widescreen. I film girati con questo sistema non furono molti, ma fra essi ci sono tutti i western di Sergio Leone, da Per un pugno di dollari (1964) a Giù la testa (1971).
Il f. Cinemascope entrò in difficoltà nel corso dei primi anni Sessanta ‒ parallelamente alla crisi che colpì tutto il sistema hollywoodiano ‒ e fu sostituito dal simile ma più perfezionato Panavision, che molti continuano erroneamente a definire Cinemascope. Il widescreen aveva comunque segnato una nuova epoca nella storia del cinema, tanto che il f. 1:1,33 cadde rapidamente in disuso per essere sostituito dai più larghi 1:1,65 e, soprattutto, 1:1,85, considerato agli inizi del 21° sec. il f. standard (academic ratio, che alcuni chiamano panoramico). Entrambi questi f. utilizzano una normale pellicola a 35 mm e non ricorrono a lenti anamorfiche. L'allargamento dell'immagine è permesso grazie all'uso di un mascherino, applicato alle lenti della cinecamera, che delimita il campo di ripresa secondo le dimensioni desiderate. Un mascherino analogo è successivamente usato in fase di proiezione.
I tentativi di rendere più spettacolare l'immagine cinematografica tuttavia non si fermarono qui. Il f. 1:2,55 sembrò non bastare più e il cinema parve voler arrivare ad avvolgere il suo spettatore o a porlo di fronte a schermi grandi come la facciata di un palazzo. Fu quello che accadde per es. con il sistema IMAX, messo a punto in Canada negli anni Settanta. L'IMAX ‒ in grado di proiettare con una nitidezza assoluta immagini su una superficie di 720 m², con un rettangolo di 24×30 m ‒ si avvale anch'esso di una pellicola a 70 mm che non scorre più verticalmente bensì orizzontalmente, consentendo ai fotogrammi di arrivare a una larghezza pari a dieci volte quella di un ordinario film a 70 mm. Fino ai primi anni del 21° sec. le pellicole girate con questo costosissimo sistema si sono limitate a semplici dimostrazioni, che, puntando sulla spettacolarità dell'evento, vanno dalle riprese effettuate dallo Shuttle in orbita attorno alla Terra a un concerto dei Rolling Stones. Nel 2000 esistevano nel mondo duecento sale attrezzate per la proiezione in IMAX, in venti diversi Paesi.
È soprattutto sul piccolo schermo che è possibile vedere i film del passato. Lo schermo televisivo tradizionale ha un f. standard pari a 4:3 per il rapporto larghezza/altezza. Si tratta di un f. sostanzialmente adattato alla visione dei film girati nel vecchio academic ratio di 1:1,33. Se tuttavia il f. del film è più largo, da 1:1,66 in poi, possono allora sorgere dei problemi. Quando tale f. è rispettato, su uno schermo televisivo standard si vedrà il film fra due bande nere, sopra e sotto l'immagine vera e propria. Il problema è risolto con i monitor in 16:9 che consentono una visione a schermo pieno per i film di f. 1:1,85. Se tuttavia il film è un vero e proprio widescreen (per es. un 1:2,35) e il suo f. originale è rispettato, anche su un monitor a 16:9 saranno presenti le due bande nere. Per evitare ciò, accade spesso che i film programmati dalle emittenti televisive o distribuiti in videocassetta siano adattati al f. dello schermo televisivo eliminando semplicemente una parte dell'inquadratura a destra e una parte a sinistra. In questo modo è possibile vedere il film a schermo pieno, penalizzando però la sua natura estetica ed espressiva e senza rispettare le inquadrature originarie (ciò che si vede è di fatto solo una sua parte, e ogni sua singola inquadratura è qualcosa di ben diverso dal modo in cui l'aveva pensata il suo autore). Però a volte in un'inquadratura di un film in widescreen può accadere qualcosa di importante, per la comprensione del racconto, proprio ai lati dello schermo, cioè in quello spazio dell'inquadratura eliminato dall'adattamento al 4:3. Per ovviare a tutto questo si è ricorsi a una soluzione che è quasi peggiore del male da curare: il sistema pan&scan. Con tale sistema il tecnico che cura il trasferimento elettronico sposta l'area inquadrata a destra o a sinistra per mostrare quello che ritiene in quel momento l'aspetto più importante dell'inquadratura originale (il volto di un personaggio, o una mano che afferra una pistola).
In questo modo però, non solo si vede quello che il tecnico, e non il regista, vuole mostrare, ma inoltre il film si riempie di movimenti di macchina assenti nell'originale. Il diffondersi dei DVD ‒ e di una più matura coscienza da parte degli spettatori ‒ pone rimedio a questi scempi, ed è sempre più facile vedere sullo schermo televisivo i film del passato e quelli del presente nel loro f. originale, con le necessarie, e ancora quasi imprescindibili, bande nere.
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