Donati, Forese
Nato verosimilmente a Firenze, non sappiamo in che data, e a Firenze vissuto, fu forse più anziano di D. di qualche anno. Era figlio di quel Simone Donati che si sarebbe servito di Gianni Schicchi per falsificare con macabro procedimento il testamento dello zio Buoso (If XXX 31 ss.). Morì a Firenze nel 1296; venne sepolto il 28 luglio in Santa Reparata. Fratello di Corso, probabilmente più anziano di lui, e di Piccarda, senza contare altri figli di Simone e di Contessa (monna Tessa). Appartenne dunque a una delle famiglie più importanti della città per ampiezza di relazioni politiche. Non sappiamo se nella sua condizione ebbe cariche amministrative e se si diede alla vita politica. Siccome nel c. XXIV del Purgatorio è Forese a fare a D. la profezia della morte violenta di Corso come di una punizione giusta (del fratello dice che è colui che ha più colpa se la città è come D. la sta descrivendo: in continuo peggioramento verso la rovina), si penserebbe che non fu favorevole al fratello, capo di Parte nera e tendente a dominare la città; a meno che D., com'è possibile, non gli abbia prestato le proprie passioni politiche e il suo reciso giudizio negativo sull'operato di Corso; Fu amico di D. prima dell'esilio e suo lontano parente dopo il matrimonio di questi con Gemma Donati, che di F. doveva essere cugina in terzo grado. Abbastanza colto per poter tener testa in tre sonetti a D. nella Tenzone (v.), probabilmente scrisse anche altri versi, ma non ci sono giunti; comunque nella spregiudicata altercazione della Tenzone si mostra non soltanto verseggiatore dalla battuta pronta, ma letterato esperto nel giuoco delle violenze verbali caratteristiche del genere ‛ giocoso '. Non dovette essere a ogni modo una personalità di molto rilievo. Volendo noi estrarre il massimo possibile dalle poche notizie, a forza di ipotesi: nonostante che appartenesse a una famiglia chiamata dalla voce pubblica con appellativo impegnato " Malefami " o " Malefa'mi ", il suo soprannome di " Bicci " (anche se era già stato di un suo antenato omonimo) sembra quello di un giovane mondano, amante della vita di piacere.
Ignoriamo la data del matrimonio di F., quindi se egli visse poco o molto con la moglie Nella fino al 1296. Nella dovette appartenere pure a buona famiglia se D. nel primo sonetto della Tenzone ci mostra la madre di lei dispiaciuta di averla data in moglie a F. invece di maritarla in casa dei conti Guidi, che era famiglia notevole, nella quale non sarebbe potuta entrare una ragazza qualunque, e tanto meno per fichi secchi. Questa Tenzone, coi tre sonetti di D. e i tre di F. - sezione del canzoniere dantesco la cui attribuzione e l'ordine delle parti non lasciano più dubbi di rilievo -, è virulenta nel tono e nella sostanza, anche se spesso, negli ultimi tempi, si è cercato con qualche fortuna di attenuarla a esercizio prevalentemente letterario di stile realistico-giocoso o addirittura antifrastico. E siccome spesso nella polemica esplodono, per quanto enfatizzate, certe verità sulla situazione ‛ privata ' dei due antagonisti (e nella Tenzone, testo ‛ documentario ', F. resta persona, sia pure travisata apposta, e non vero e proprio personaggio ‛ artistico '), la figura di F. nei tre sonetti di D., con la sua faccia fessa, cioè sfregiata, marito che trascura fisicamente la moglie, goloso, impoverito a forza di buoni pasti, e che cerca di combinare furti per rimettersi in sesto, sarà forse più accettabile, in una prospettiva meramente materiale, della sua figura ideale nei canti XXIII e XXIV del Purgatorio, dove si presenta come affettuoso marito che ha amato molto la moglie, delicato e garbato, moralista animato da sacro sdegno contro le sfacciate donne fiorentine e contro la politica di Corso, e tanto buon fratello nel parlare di Piccarda, che non si può pensare che abbia a suo tempo cooperato con Corso per toglierla di convento e farla sposare di forza (Pg XXIV 13-15).
Nonostante la passata disputa, nel Purgatorio appare come grande amico di Dante. Così nasce il problema della data della Tenzone, dopo la quale D. e Forese devono essersi rappacificati, ma si tratta di questione insolubile, almeno fin che non venga in luce qualche documento preciso. Siccome sembrerebbe che accuse così infamanti non vengano perdonate facilmente in vita, le parole di D. a F. in Pg XXIII 55-56 (La faccia tua, ch'io lagrimai già morta, / mi dà di pianger mo non miglior doglia) si sarebbe tentati di leggerle come se alludessero a una resipiscenza e a un perdono verificatisi con la morte di Forese o qualche tempo prima. La quale morte, e forse già prima la malattia, avrebbero ricondotto il superstite D. a pietosi sentimenti di sodalitas anteriori alla tenzone. Ma d'altro lato l'incontro di D. con F. nei due canti della seconda cantica sembra riflettere un'amicizia prolungata e che si è andata anzi accentuando negli ultimi tempi. In tal senso ebbero a pronunziarsi anche gli antichi commentatori, i quali non si limitano a mettere in rilievo la strettissima amicizia terrena dei due personaggi (" amicus et affinis nostri poetae, cum quo vixerat ad tempus familiariter ", Benvenuto), ma stabiliscono un chiaro collegamento tra l'incontro nel Purgatorio e la precedente esperienza di avversari per mezzo dei versi (" et molti sonetti et cose in rima scrisse l'uno all'altro; et fra gli altri l'Auttore, riprendendolo di questo vizio della gola, gli scrisse uno sonetto in questa forma: Ben ti faranno il nodo Salomone ecc. ", Anonimo).
Le offese aspre e grossolane, delle quali la Tenzone è piena, non erano certamente rimaste ignote nella società letteraria fiorentina di fine Duecento, e una gran parte della responsabilità della zuffa doveva esser rimasta legata alla reputazione dell'Alighieri presso i suoi concittadini. Quindi, si siano i due amici rappacificati o no prima della morte di F., l'incontro di questi con D. nel Purgatorio non può non venire interpretato oltre tutto come esplicita palinodia, per soddisfare la coscienza dell'autore e riscattarlo moralmente agli occhi del suo pubblico.
Insomma l'episodio di F. nel Purgatorio riposa su una motivazione biografica e psicologica da un lato e su una artistica dall'altro, fatta salva la generale esigenza di ripristinare i termini di quell'amara esperienza di vita nel grande quadro penitenziale del Purgatorio, come simbolo esemplare della necessità di ‛ confessare ' le personali colpe terrene del poeta e di mostrarne contrizione.
Dove l'aria di palinodia si fa più evidente è nei versi nei quali D. dice, come sopra pensiero, a F.: Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e qual io teco fui, / ancor fia grave il memorar presente (XXIII 115-117), e in quelli nei quali F. parla a D. della propria vedovella che ha tanto pianto sospirato e pregato per lui morto, da farlo passare prima del tempo dall'Antipurgatorio al Purgatorio vero e proprio. La Nella mia, dice il verso 87: colei che nella tenzone era stata solo, in bocca a D., la malfatata, qui in bocca di F. ha il suo nome, nella forma diminutiva familiare, accompagnato dal possessivo affettuoso posticipato, secondo un sintagma molto significativo. Ancora più del vezzeggiativo vedovella conta per la ritrattazione l'inciso relativo che molto amai, staccato dalle due virgole, che si trovano pure nell'edizione critica a cura del Petrocchi. Come dire: " l'ho tanto amata, non trascurata come appariva dalla tenzone ". E nell'insieme è un bel caso che i canti dell'amicizia per antonomasia nel poema siano i due di F., di colui che era stato il F. osteggiato e offensivo della tenzone.
Perché appunto F. come personaggio del Purgatorio è il grande amico dei tempi fiorentini. D. non riconosce F. al primo istante, data la sua magrezza estrema che rappresenta la punizione dei golosi in Purgatorio. Ma quando F. è lui a riconoscere D., la sua esclamazione di piacere non meno che di sorpresa: Qual grazia m'è questa? la grida forte (XXIII 42), come D. pronuncia volentieri il suo nome, in apostrofe o in rilievo (XXIII 48 e 76, XXIV 74). E allo stesso modo che D. esce in affermazioni molto impegnate di affetto (XXIII 55-56 La faccia tua, ch'io lagrimai già morta, / mi dà di pianger mo non minor doglia), così pure F. manifesta il suo attaccamento (Quando fia ch'io ti riveggia?, XXIV 75) al momento della separazione. Come nella Tenzone aveva avuto il predominio D., essendone stato l'iniziatore e, sempre, quello che attaccava con più virulenza, così qui F., appena lo ha riconosciuto, vorrebbe sapere il ver di D. e chi siano le due anime che gli fanno scorta (Virgilio e Stazio). Ma D. non lo accontenta. Intende sapere prima lui da F. che forza sia quella che così sfoglia i golosi, e come mai l'amico sia già passato dall'Antipurgatorio al Purgatorio vero e proprio. Solo dopo che gli ha dato le due spiegazioni, F. ripete la domanda iniziale, e D. lo informa. In compenso, solo a lui fa il nome, a tutte lettere, di Virgilio e di Beatrice, che fin qui ai richiedenti aveva sempre indicati con perifrasi vaghe. Virgilio è questi che così mi dice; poi: Tanto dice di farmi sua compagna / che io sarò là dove fia Beatrice (XXIII 127-130). Come dire: " quel Virgilio del quale tu Forese sei degno di udire il nome, avendomelo sentito citare più volte quando ci frequentavamo, da amici che si facevano confidenze ". E, in quanto a Beatrice, come dire: " quella Beatrice che anche tu a Firenze hai conosciuta, e così pure la conobbe la tua Nella. La tua Nella, che era degna di stare con lei ". Come probabilmente sarà avvenuto. Si ricostruisce anche, per un istante, una cerchia passata: un gruppetto fiorentino, uomini e donne dell'aristocrazia o della buona borghesia. Più realistico di quello del sonetto Guido, i' vorrei. Eppure intriso di ricordo: quel ricordo dei tempi fiorentini, che si diffonde in tutto l'incontro del Purgatorio, secondo la bella interpretazione di U. Bosco che tra l'altro ha affermato: " l'episodio è il più specificamente autobiografico del poema. Egli [D.], che non ci ha parlato mai direttamente di suo padre, di sua madre, di sua moglie, dei suoi figli, anche se dall'affetto per essi nascono alcuni degli episodi più grandi del poema, qui, contraddicendo alla sua stessa teoria che giudicava indegno dell'alta poesia ogni riferimento personale troppo concreto, nel rievocare il periodo della giovinezza, torna alla confessione che era stata tanta parte delle sue pagine di allora " (Dante vicino, p. 171).
D. fa di F. nel poema uno dei suoi personaggi più importanti, sotto il riguardo simbolico (cioè come momento essenziale nell'itinerario ascetico del poema), e per l'importanza storico-documentaria che rivestono le sue profezie. F. rimane in scena a lungo, e poche altre anime della Commedia hanno tante e così varie funzioni e svolgono tanta copia di argomentazioni. Espone all'amico vivo il meccanismo della pena dei golosi. Nello spiegargli come mai sia passato così presto dall'Antipurgatorio al Purgatorio, gli parla della propria moglie Nella. Scaglia un'invettiva contro le donne fiorentine scostumate, seguita da una profezia di mali cittadini. Informa D. che la propria sorella Piccarda si trova in Paradiso. Gli presenta altre anime di golosi. Profetizza e stigmatizza la morte di Corso. Mentre D. nel c. XXIV s'intrattiene a lungo con Bonagiunta da Lucca, indicatogli da F. stesso, questi sembra scomparso dalla scena. Ma l'ultima parola di personaggio è sua e non dei compagni, quando i due amici si separano. Così quello stare in disparte ha finito per prolungare la sua presenza nella Commedia. La separazione di lui e D. è tra le più tristi del poema (dove tante ne avvengono tra il pellegrino e le anime), prima di quella di D. e Virgilio. È da citare ad esempio per il ‛ topos ' della separazione nella Commedia. Basta ascoltare il tono dei versi: sì lasciò trapassar la santa greggia / Forese, e dietro meco sen veniva, / dicendo: " Quando fia ch'io ti riveggia? ". / " Non so ", rispuos'io lui, " quant'io mi viva; / ma già non fïa il tornar mio tantosto, / ch'io non sia col voler prima a la riva... ". Finché F. conclude: Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caro / in questo regno, sì ch'io perdo troppo / venendo teco sì a paro a paro (XXIV 73-78, 91-93).
F. figura ideale è nel Purgatorio gentile e malinconico, coi suoi deh! (XXIII 49 e 112); con le parole con le quali accarezza quasi mentalmente la sua vedovella, parole che sembrano anch'esse devote e con sospiri; con le espressioni spesso di grande semplicità familiare e di musicalità abbandonata: non rimaner che tu non mi favelle! (v. 54); O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica? (v. 97); Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! (v. 112). E D. si adegua a questo dolce parlato diffuso: La faccia tua, ch'io lagrimai già morta (v. 55); non mi far dir mentr'io mi maraviglio (v. 59); qual fosti meco, e qual io teco fui (v. 116). Si tratta di espressioni che si accordano con la relativa soavità della seconda cantica, ma qui concordano anche con l'incontro di due spiriti ideali.
Però quasi tutti i personaggi della Commedia sono complessi (non si esclude nemmeno una certa loro incongruenza; o almeno si abbandonano con naturalezza esistenziale ai momenti vari della situazione e degli argomenti), e lo è anche Forese. Il quale, sempre in clima d'idealizzazione, ma su altro piano, non più solo mite ma quasi fosse un altro carattere, sa spiegare filosoficamente e fisicamente come agisca sui golosi penitenti l'etterno consiglio per mezzo della vertù che cadendo si diffonde nell'odore dei pomi e dello sprazzo liquido sugli alberi della cornice. E, si è visto, lancia ben due invettive e profezie. Come se fossimo al cospetto di una sublimazione del polemista della tenzone. E mostra a tratti come una resipiscenza del suo antico umore bizzarro ma simpatico, come nella presentazione pittoresca e ironica degli altri golosi intorno a lui, quando li indica a Dante nel c. XXIV. Alla fine raggiunge il suo gruppo correndo con maggior valchi di un cavallo al galoppo: piuttosto, di nuovo, il F. imbizzito e bistrattato della Tenzone, e non uno dei personaggi-chiave del processo penitenziario di tutta la Commedia, portatore di " uno dei momenti di maggior abbandono sentimentale che il poeta abbia rappresentato "; tutto condotto sopra un sottile scambio di stati d'animo: da un lato F. con la sua forte carica patetica, e dall'altro " la desolata tristezza del poeta, la sua grave stanchezza del vivere, la sua aspettazione della morte come un approdo di quiete " (Del Monte). Del resto la stessa collocazione dell'incontro di D. con F. nella topografia morale della seconda cantica (in un finale simile a quello dell'incontro con Brunetto Latini, e potrebbe trattarsi semplicemente di una costante dantesca), fa sì che questa occasione narrativa si presenti come un proficuo antefatto narrativo della scena di salvazione e di liturgico emendamento del Paradiso terrestre.
Bibl. - Per la famiglia Donati, col padre Simone, i fratelli Corso e Piccarda, oltre alle voci nei diversi dizionari danteschi e alle notizie nei commenti più autorevoli ai canti XXIII e XXIV del Purgatorio, si veda: Davidsohn, Storia, ad indicem; I. Del Lungo, I Bianchi e i Neri, Milano 1921; ID., Dino Compagni e la sua Cronica, Firenze 1879-1880; B. Barbadoro, La condanna di D. e le fazioni politiche del suo tempo, in " Studi d. " II (1920) 5-74.
Per la tenzone con D. si v. la voce relativa e la rispettiva bibliografia, dai cui titoli citeremo qui: I. Del Lungo, La tenzone di D. con F., in D. ne' tempi di D., Bologna 1888, 435-461; F. Torraca, La tenzone di D. con F. Donati, in Nuovi studi danteschi, Napoli 1921, 1-40; e soprattutto M. Barbi, La tenzone di D. con F. Donati, in Problemi n 87-214 (e cfr. l'opposizione alla tesi di D. Guerri, in La corrente popolare del Rinascimento. Berte, burle e baie nella Firenze del Brunellesco e del Burchiello, Firenze 1931), ora rifuso come commento in Barbi-Maggini, Rime 275 ss. Delle molte edizioni commentate della tenzone si cita qui solo Contini, Rime 81 ss.
Sul tema di D. e F. in genere, non importano più molto gli articoli di F. Eusebio (in " Rivista europea - Rivista internazionale " giugno 1880), G. Barzellotti (in " Medusa " I [1902]), G.A. Venturi (in " Rivista d'Italia " 1904). Notevoli invece gli accenni del Carducci e del D'Ovidio. Ma per una moderna esposizione complessiva personale, v. L. Russo, La tenzone di D. con F. Donati, in Ritratti e disegni storici, serie 3, Bari 1951, 192-233 (La letteratura comico-realistica nella Toscana del Duecento).
Studi sull'intero episodio di F. nella Commedia: V. CapettI, I canti di F., in L'anima e l'arte di D., Livorno 1907, 307-337; A. Del Monte, F., in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 572-589. Si vedano inoltre le ‛ lecturae ' del c. XXIII di: C. Trabalza (Firenze 1909; poi in Lett. dant. 457-478); G.A. Venturi, in " Giorn. d. " XVIII (1910) 1-12; L. Fassò, Firenze, s.d. [ma 1922]; C. Jannaco, in " Lettere italiane " IX (1957) 337-341; A. Sacchetto, Torino 1962; U. Bosco, in Lect. Scaligera II 863-890, poi in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 150-171; e quelle del c. XXIV di F. Novati, Golosi in Purgatorio, in Freschi e minii del Dugento, Milano 1908, 177-204 (rist. in Lett. dant., cit., 479-497); G. Federzoni, Firenze 1910; G. Cottone, Trapani 1955 (Pubblicaz. dell'Accad. di Studi " Cielo d'Alcamo "); E. Sanguineti, in Lect. Scaligera II 891-925.