foreigner talk
L’espressione foreigner talk (dall’ingl. foreign «straniero» e talk «parlata»), introdotta come termine tecnico da Ferguson (1971), indica il modo semplificato con cui si parla a interlocutori stranieri che si suppone non conoscano la nostra lingua, o non la conoscano a sufficienza; all’espressione inglese si affianca, più di rado, il termime xenoletto (dal gr. xénos «straniero» e [diá]lektos «modo di parlare», coniato dapprima in ambito tedesco: cfr. Roche 1989). Essendo una maniera di adattarsi alla competenza linguistica dell’interlocutore, il foreigner talk ha qualche aspetto in comune col ➔ baby talk, che si distingue però per l’età e l’acquisizione linguistica precoce del destinatario.
Il ricorso a un foreigner talk ha in genere la funzione di promuovere la comunicazione, dato che aiuta l’interlocutore straniero a interpretare il nostro messaggio. In altri casi, per contro, può segnalare un atteggiamento di superiorità (Ferguson 1975; Clyne 1981) da parte dell’interlocutore nativo nei confronti dello straniero, come mostra il fatto che nel foreigner talk come allocutivo (➔ allocutivi, pronomi) si usa generalmente il tu invece del lei, sentito come formale.
In tutte le sue forme, il foreigner talk manifesta modalità di enunciazione che lo distinguono dal modo di rivolgersi a nativi della stessa lingua. Sul piano della prosodia, per es., la pronuncia è lenta e cadenzata, le parole sono staccate, le pause lunghe e numerose, il volume più alto del normale; appaiono picchi intonativi particolari, le sillabe toniche sono messe in rilievo e le vocali allungate (Berruto 1993). Ciascuno di questi dettagli può ritrovarsi anche nelle conversazioni tra nativi quando si tratti, per es., di superare momenti di incomprensione; il fatto che nel foreigner talk essi siano più fitti e numerosi permette di suddividere la struttura informativa del messaggio in blocchi minori e dare salienza ai punti importanti, aiutando l’interlocutore non nativo a interpretare il messaggio (Schmid 2003).
Accanto a tali peculiari modalità di enunciazione e al possibile ricorso a mezzi paralinguistici (➔ gesti), il foreigner talk è caratterizzato da strategie di adattamento che si riconducono a due tipi. Il primo consiste nell’introdurre nel messaggio alcune peculiarità:
(a) allungamento delle frasi;
(b) uso di parafrasi in luogo di parole ritenute difficili;
(c) aggiunta di informazioni che permettano di contestualizzare meglio un elemento;
(d) uso della deissi (per es., quando tu + quando tu eri piccolo ++ giocavi a calcio cioè giocavi con una palla +++ football «quando eravate ragazzi, giocavate a calcio?»).
Il secondo tipo di strategie di adattamento, che può sovrapporsi al primo, consiste nel ridurre la complessità del messaggio a livello lessicale e morfosintattico. In tal modo si può arrivare a produrre perfino enunciati agrammaticali, contrassegno estremo del foreigner talk rispetto al modo di parlare che si usa coi nativi. Il seguente esempio, in cui un parlante nativo riformula il proprio enunciato per renderlo più comprensibile a due stranieri, illustra il particolare intreccio di strategie di elaborazione:
(1) ma, se voi vi trovaste, o tu A. o tu M., nella stessa situazione che cosa fareste? mettiamo che voi arrivate in un campeggio, volete affittare una roulotte e non trovate più i documenti. Cosa fareste?
Qui si notano, per es.: contestualizzazione (campeggio, roulotte rispetto a situazione) e semplificazione (mancanza della subordinazione, indicativo al posto del congiuntivo in arrivate).
Oltre a evitare la subordinazione, la semplificazione nel foreigner talk italiano comporta in genere i seguenti aspetti (Berruto 1993):
(a) sono cancellati il verbo essere e le preposizioni (io Natale casa «a Natale sono stato a casa»);
(b) è usato il pronome tonico soggetto (➔ soggetto) e i ➔ clitici sono sostituiti con pronomi tonici:
(2) lui a me detto ieri «me ne ha parlato ieri»
(c) l’articolo è omesso:
(3) aprire porta, fare luce «apri la porta e accendi la luce!»
(d) l’infinito e il participio passato sono sovraestesi e la temporalità è espressa con avverbi:
(4) cosa fare tu ora, adesso? «cosa stai facendo?»
(5) piovuto tanto, vedi, acqua terra «deve aver piovuto molto, perché le strade sono ancora piene di pozzanghere»
(e) niente e no sono generalizzati come particelle negative:
(6) qui no fumare «in questo scompartimento non si può fumare»
(7) niente visto uomo che tu dici «non ho visto l’uomo di cui stai parlando»
(f) sono usati termini concreti invece che astratti e si ricorre a parole di lingue di maggiore diffusione, come francese e tedesco:
(8) bisogna mettere il dito a gauche a sinistra links «bisogna premere il pulsante di sinistra e non quello di destra»
(g) si usano onomatopee al posto di elementi lessicali:
(9) drin drin drin ha visto te «mi ha detto al telefono che l’aveva vista»
Le strategie del foreigner talk fanno parte della competenza dei parlanti, che le dichiarano esplicitamente se si chiede loro di adattare certi messaggi a potenziali stranieri (Berruto 1993). Esse vengono adottate effettivamente o no in misura variabile secondo una varietà di fattori (Larsen-Freeman & Long 1991: 120):
(a) il basso livello di competenza attribuito all’interlocutore straniero;
(b) lo status sociale alto (vero o presunto) del nativo;
(c) la pregressa esperienza di uso di foreigner talk non grammaticale;
(d) la spontaneità della conversazione.
La mancanza di alcune di queste condizioni favorisce forme meno agrammaticali di foreigner talk, caratterizzate da omissione di clitici, ma non dalla drastica semplificazione della morfologia verbale (Valentini 1994):
(10) [che cosa sono i ravioli?] abbiamo mangiato ristorante cinese «li abbiamo mangiati al ristorante cinese».
Sebbene le strategie di foreigner talk siano prevalentemente individuali, quando si realizzano le condizioni qui indicate esse possono manifestarsi sotto forma di comportamenti di gruppo. Ciò vale in particolare quando siano in gioco rapporti fortemente asimmetrici, come nei contesti di colonizzazione (cfr. il tentativo di codificazione di un Kolonial-Deutsch: Carli 1995) e nella formazione di stereotipi, quali traspaiono anche da testi letterari e paraletterari (Hinnenkamp 1982).
In contesti di colonizzazione l’impiego diffuso di strategie di foreigner talk agrammaticale limita fortemente l’input nei processi di apprendimento come L2 della lingua dei colonizzatori, favorendo così la formazione di lingue pidgin. Nel caso dell’➔italiano come pidgin, è indizio di foreigner talk la riduzione del sistema verbale ai soli infinito e participio passato e l’uso di niente come particella negativa.
D’altronde, l’uso accorto di strategie di semplificazione ed elaborazione nei limiti della grammaticalità fornisce ad apprendenti di L2 un input comprensibile e favorisce i processi di acquisizione. Quando si usano strategie di questo tipo nella scuola, si ottiene una varietà particolare di foreigner talk chiamata teacher talk («modo di parlare dell’insegnante»: Henzl 1979), caratterizzata da eloquio più lento, frequenti ripetizioni di parole, ristretto numero di subordinate e maggiore chiarezza sintattica, quale si manifesta con una prevalenza di riprese anaforiche lessicali su quelle pronominali (Berretta 1988).
Berretta, Monica (1988), ‘Che sia ben chiaro ciò di cui parli’: riprese anaforiche tra chiarificazione e semplificazione, «Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’università di Cagliari» 7, pp. 367-389.
Berruto, Gaetano (1993), Italiano in Europa oggi: ‘Foreigner talk’ nella Svizzera tedesca, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, Editoriale Programma, p. 2275-2290.
Carli, Augusto (1995), Il ‘Kolonial-Deutsch’: lingua semplificata o xenoletto?, «Quaderni dell’Università degli Studi di Bari» 6, pp. 75-92.
Clyne, Michael G. (edited by) (1981), Foreigner talk, «International journal of the sociology of language», 28 (special issue).
Ferguson, Charles A. (1971), Absence of Copula and the Notion of Simplicity, in Pidginization and creolization of languages, a cura di D. Hymes, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 141-150.
Ferguson, Charles A. (1975), Towards a characterization of English foreigner talk, in «Anthropological Linguistics» 17, pp. 1-14.
Henzl, Vera (1979), Foreigner talk in the classroom, in «International review of applied linguistics» 18, pp. 159-167.
Hinnenkamp, Volger (1982), Foreigner talk und Tarzanisch, Hamburg, Buske.
Hymes, Dell (edited by) (1971), Pidginization and creolization of languages. Proceedings of a conference held at the University of the West Indies, Mona, Jamaica (April, 1968), Cambridge, Cambridge University Press.
Larsen-Freeman, Diane & Long, Michael H. (1991), An Introduction to second language acquistion research, London, Longman.
Roche, Jörg (1989), Xenolekte: Struktur und Variation im Deutsch gegenüber Ausländern, Berlin, de Gruyter.
Schmid, Stephan (2003), Aspetti prosodici del ‘Foreigner Talk’ italiano, in Ecologia linguistica. Atti del XXXVI congresso internazionale di studi della Società di linguistica italiana (Bergamo, 26-28 settembre 2002), a cura di A. Valentini et al., Roma, Bulzoni, pp. 347-368.
Valentini, Ada (1994), Un caso di comunicazione esolingue: il ‘foreigner talk’, «Quaderni del Dipartimento di linguistica e letterature comparate dell’Università degli Studi di Bergamo» 10, pp. 397-411.