follia
Termine utilizzato comunemente per indicare stati generici di alienazione mentale, siano essi direttamente riconducibili a specifiche configurazioni patologiche o legati a comportamenti incomprensibili. Il termine si applica quindi indifferentemente a contesti diversi (f. come malattia, f. d’amore, ecc.) che evidenziano l’impossibilità di ridurlo a un unico significato.
Accanto alle forme buone di f. (profetica, purificatoria, poetica, amorosa) la cultura greca individuava anche una forma di f. che ha origine nel corpo ed è quindi, per l’appunto, una malattia. Quest’antinomia tra l’origine psichica e quella somatica della f. non è mai stata completamente risolta ed è una delle ragioni della sovradeterminazione del termine stesso. Il sapere filosofico e medico, infatti, non è mai riuscito a definire in modo univoco e continuativo la f. e, con essa, i folli, oscillando, di volta in volta, tra spiegazioni religiose, mentali, corporee, spirituali, comportamentali e sociali. Questo dualismo nell’interpretazione della f. ne ha percorso tutta la storia ed è stato risolto solo con scissioni brusche e unilaterali, legate più all’approccio per affrontare la f. che non a interpretazioni della stessa di carattere medico o scientifico.
Se da un lato la f. costituisce un fenomeno universale, dall’altro il modo in cui è stata definita la peculiarità dell’essere folle e il modo in cui i cosiddetti folli sono stati trattati si differenziano profondamente da un luogo all’altro e da un’epoca all’altra, mostrando un fattore di inconciliabile relatività. Così l’inglobamento della f. nella devianza portò alla reclusione dei folli durante il Rinascimento, mentre le riflessioni culturali sull’origine della f. hanno fatto sì che dalla possessione demoniaca (una delle interpretazioni adottate per spiegare l’insorgere della f.) si sia approdati a una progressiva medicalizzazione della f. che ha trovato il suo culmine agli inizi dell’Ottocento con J. P. Pinel. La separazione dei folli dagli altri reclusi e la loro liberazione dai ceppi hanno portato alla nascita del manicomio e della psichiatria. La f., considerata fino a quel momento una perdita della ragione, diventa problema declinato sull’asse volontà-passione e, come tale, affrontabile con un trattamento ‘morale’, una sorta di ‘ortopedia rieducativa’ capace di ripristinare il corretto rapporto con la realtà.
Pinel rifiutò il concetto di f., considerato troppo generico, a favore di quello di malattia mentale, inaugurando una linea nosografica e classificatoria. Il sapere medico, da allora, ha usato in misura estremamente ridotta il termine f. che, invece, tende a ricomparire in aree sempre più vaste della cultura. Infatti, il termine non designa uno stato universale-oggettivo quanto un costrutto teorico, elaborato per caratterizzare determinati modi di essere e di agire dell’uomo in determinati contesti. Da tale punto di vista la f. appare l’espressione sintetica di un giudizio formulato in stretto rapporto con principi convenzionali e mutevoli. Approfondendo questo tema molti studiosi hanno sottolineato il carattere non tanto naturale quanto culturale della follia.
L’impossibilità di trovare una genesi per la f. ha spostato lo sguardo sulle profonde interazioni bio-psico-sociali che ne sono alla base. Se il sapere medico ufficiale ha mostrato l’impossibilità a comprendere la f. e ha deciso di aggirarla con la classificazione dei sintomi, un sapere più critico si interroga sul giudizio di f. e sui criteri che, di volta in volta, determinano ciò che è norma e ciò che è devianza. Nel 20° secolo, F. Basaglia, riprendendo M. Foucault, affermò che «la storia della follia è storia di un giudizio, quindi della graduale evoluzione dei valori, delle regole, delle credenze, dei sistemi di potere su cui si fonda il gruppo sociale e su cui si iscrivono tutti i fenomeni nel processo di organizzazione della vita associata». La storia della f. è quindi, per Basaglia, la storia del giudizio della ragione sulla follia. Ma «quando la ragione comincia a giudicare la follia, la distanza tra ragione e sragione è già fissata ed è la distanza che si crea tra il soggetto del giudizio e l’oggetto giudicato».