DOLFI (Dolfo, Dolfoli), Floriano
Nacque Bologna intorno al 1445, da Luca e Giovanna del Grugno, una famiglia della piccola nobiltà cittadina. Conseguita la laurea in diritto canonico nell'agosto del 1466, iniziò immediatamente la pratica di lettore legista presso lo Studio bolognese. Questa attività, svolta anche presso l'università di Pisa tra il 1473 e il 1475, non fu mai abbandonata dal Dolfi.
Dell'insegnamento del D. oggi si conservano le tracce in una trentina di quaderni autografi che raccolgono le sue lezioni (Bologna, Bibl. dell'Archiginnasio, Mss. B 2098-2125).
A partire dal 1475, anche per gli impedimenti di una salute cagionevole e di una menomazione alle gambe, il D. non lasciò più lo Studio di Bologna, dove andò crescendo la sua fama di canonista. Presi gli ordini sacri, nel 1485 si laureò anche in teologia.
Nonostante che spendesse interamente a Bologna la sua vita, il D., piuttosto che appoggiarsi ai Bentivoglio, signori della città, preferì guadagnarsi altrove le protezioni, trovandone soprattutto in Giuliano Della Rovere e in Francesco I Gonzaga, marchese di Mantova. Da quest'ultimo il D. fu addirittura gratificato del privilegio di aggiungere l'arma della casa di Mantova al suo stemma. Conseguenza di questo atteggiamento fu che il D., nonostante il prestigio culturale di cui godeva e la riconosciuta eccellenza delle sue orazioni, non partecipò che molto di riflesso alle vicende della vita politica bolognese. L'unico episodio di rilievo che si ricorda a questo proposito è del 9 ott. 1502, quando il D., su richiesta di Giovanni [II] Bentivoglio, parlò dal pulpito di S. Domenico agli abitanti del quartiere di Porta Procula (ma senza molta convinzione, a giudicare dalla testimonianza riportata dal Ghirardacci, p. 317) per esortarli a impegnare le loro sostanze nella difesa della Signoria dalle mire aggressive di Alessandro VI e Cesare Borgia. L'orazione, fino ad oggi lo scritto più noto del D., pur essendo tecnicamente ben costruita, di fatto non è molto di più che una raccolta di luoghi comuni sulle prerogative delle libertà cittadine, sulla corruzione della Chiesa, l'eroismo degli antichi, ecc.
Nel 1503 il D. costituì a sue spese un decanato nella collegiata di S. Petronio, il cui giuspatronato assegnò poi alla sua famiglia. Lo stesso anno indirizzò la lettera De simonia tollenda a Giuliano Della Rovere (Fantuzzi, p. 257 n. 8), eletto da poco papa con il nome di Giulio II. La bolla pontificia In simoniacos del 1505 riprenderà in parte le argomentazioni del Dolfi.
Il D. morì a Bologna nel maggio del 1506; è incerto se trovò sepoltura in S. Petronio o nella tomba di famiglia della chiesa del Salvatore.
Il Casio (G. Pandolfi), rimatore bolognese, dedicò alla sua memoria questo epitaffio: "Al Dolfo che ne' piè mancò natura, / supplì poi nella lingua e nell'ingegno; / atto a salvar e a rovinar un regno, / magno fu in studio e massimo in lettura" (Fantuzzi, p. 258 n. 11). Il Fantuzzi attesta addirittura il conio di una medaglia recante su uno dei lati il profilo del D. con la scritta "Florianus Dulphius Bononiensis divini et humani juris consultissimus".
Ma se la dottrina giuridica e l'abilità oratoria sono valse a mantenere intatte, soprattutto nell'ambito degli eruditi bolognesi, la notorietà del D. nel corso dei secoli, egli risulta oggi più interessante per un aspetto fino a poco fa sconosciuto della sua personalità, ma anche della sua pratica di scrittore. A quattro buste del Fondo Gonzaga dell'Archivio di Stato di Mantova (nn. 1143-46) sono infatti consegnate poco meno di settanta lettere inviate dal D. a Francesco Gonzaga, insieme con poche altre destinate alla marchesa Isabella d'Este e ad altri personaggi della corte mantovana, che coprono un arco di tempo che va dall'ottobre del 1493 al febbraio di dieci anni dopo. È una corrispondenza che si iscrive nelle regole del carteggio di un consigliere-informatore che, secondo la pratica in uso presso le signorie rinascimentali, invia le sue missive da un'altra città, dà notizie di ogni tipo su quanto avviene in essa, passando dal resoconto dei fatti politici alla descrizione delle feste e dei tornei. Il D. informa il Gonzaga sulle cose bolognesi, commenta per lui di volta in volta la situazione politica italiana, si congratula per i suoi successi di condottiero, lo consola nelle occasioni meno fortunate. Nell'insieme nulla di veramente rimarchevole, sembrerebbe. Senonché il D. ha una qualità che lo distingue dagli altri corrispondenti: la predisposizione naturale a trasformare in occasione di racconto i materiali che attraversano la sua penna, e che egli svolge quasi in un'unica direzione, quella dell'osceno. Ne vengono fuori lettere stranissime, dove i dati referenziali tendono a dileguarsi come sopraffatti dall'impulso alla divagazione scurrile. Destinataria delle lettere del D. è in realtà la mondana corte gonzaghesca, che la dotta Isabella aveva trasformato in uno dei centri più aperti della vita rinascimentale italiana tra Quattro e Cinquecento. Qui al più rozzo Francesco Gonzaga era consentito di mescolare disinvoltamente sacro e profano, alternando alle letture oscene le amate vite dei santi; rivolgendosi a lui il D. può permettersi persino di discettare sull'onestà e su gli attributi dell'illustre marchesana.
La lettera dai bagni della Porretta, datata 1494, è dal punto di vista dei contenuti narrativi il pezzo più consistente di questa raccolta epistolare. Vorrebbe essere un resoconto della vita ai bagni, ma in essa l'informazione scompare interamente sotto l'incalzare dell'invenzione fantastica: alle spalle vi è una lunga tradizione di letteratura termale che, fin dalle celebrazioni in età classica dei bagni puteolani, aveva fatto delle terme, in quanto topos letterario, il luogo destinato all'abolizione delle regole repressive del vivere civile; luogo destinato, con la liberazione degli istinti, al recupero di una dimensione umana integrale, quasi un ritorno occasionale alla felicità dell'età dell'oro. Immediatamente, dietro le descrizioni di vita porrettana riluce a segni chiari una presenza quattrocentesca: la lettera dai bagni di Baden di Poggio Bracciolini (in Prosatori latini delQuattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli 1952, pp. 218-28). Ma il D., in linea con le tendenze più qualificanti nel gusto dell'umanesimo padano, si pone a ribaltare parodisticamente il clima incantato e innocente della descrizione di Poggio: quello che nello spirito laico di Poggio era una felice esperienza di liberazione dei corpi in un'atmosfera di naturalità gioiosa e precristiana si colora, nonostante l'iniziale quasi lirico accenno all'età dell'oro, delle tinte di un paesaggio livido, più simile a una bolgia dell'Inferno dantesco, dove frotte di dannati portano in giro sinistramente, con la nudità degli organi sformati, l'esasperante coazione sessuale di cui sono vittime.
Altrove restiamo nello stretto ambito del genere delle facezie. L'immediatezza dei raccontini del D. ha ancora nelle facezie latine di Poggio il precedente più calzante. Tuttavia il D., ponendo costantemente in relazione i dati paradossali o solo stravaganti dell'esperienza con le massime scritturali più vulgate, gioca quasi tutto sulla variazione di un unico espediente. Spetta alle citazioni scritturali riconoscere l'esistenza del paradosso. Il comico nasce allora dallo scambio di funzione dei reagenti. Il paradosso avallato dalle Sacre scritture trasforma le scritture medesime in paradosso; il sacro si combina e sostiene con la sua autorità indiscussa gli aspetti più profani della vita. Nel quadro delineato merita un cenno la graziosa novelletta del crocifisso e del soldato. Dalla motivazione di un proverbio si svolge una storiella dall'umorismo sottilissimo, con un Cristo parlante, tempestivo censore di un amplesso in via di compimento in una chiesa, che si blocca a bocca spalancata sulla croce ed è poi segregato, quasi a punizione, tranne un giorno all'anno in cui la sua esposizione suggella proprio la festa dell'atto che aveva riprovato. Che poi non è altro che una variante molto originale dell'abusato tema novellistico dei falsi miracoli, che il D. rovescia e risolve in chiave di grottesco surrealismo. Scelta, anche questa, in linea con certo spirito presente nella cultura quattrocentesca bolognese.
Ma l'ambito in cui il D. produce l'effetto straniante più efficace è certo la scrittura. Egli impiega il volgare illustre della koiné altoitaliana secondo i ritmi e i tempi propri della prosa curialesca. La complessità dei periodi, le clausole, i parallelismi studiati conferiscono solennità ai materiali osceni del racconto, fino a fingerne l'innalzamento a paradigmi universali. Avviene così che il rovesciamento del precetto classicista dell'accordare lo stile alla materia diventa la trovata su cui il D. punta forse più fecondamente le carte del suo comico.
Del D. si leggono a stampa: una memoria giuridica in Responsa diversorum collecta a Baptista Martianesio, Venetiis 1573, I, p. 88; l'Orazione di F. Dolfi bolognese per la difesa della patria contro Alessandro VI e Cesare Borgia, a cura di V. Giusti, Bologna 1900; alcuni estratti delle lettere a Francesco Gonzaga in P. Stoppelli, Facezie oscene inedite di F. D. a Francesco I Gonzaga, in Belfagor, XXXII (1977), pp. 685-96.
Fonti e Bibl.: Alle fonti della biografia del D. indicate in G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, Bologna 1783, III, pp. 256-258, si aggiungano: C. Ghirardacci, Historia di Bologna, III, in Rerum Ital. Script., 2 ediz., XXXIII, a cura di A. Sorbelli, pp. 316-317, 343; e Irotuli dei lettori legisti e artisti dello Studio bolognese dal 1384 al 1799, a cura di U. Dallari, Bologna 1888, I, pp. 70-88, 97-189. Si vedano inoltre: L. Di Francia, La novellistica, Milano 1924, p. 484; A. Galletti, L'eloquenza dalle origini al XVI secolo, Milano 1938, p. 589.