CARTARI, Flaminio
Nacque ad Orvieto il 27 maggio 1531 da Giulivo e Ortensia Febei, discendenti da due famiglie patrizie della città, che dovevano poi intrecciare più volte la loro parentela.
Dopo aver compiuto i primi studi a Orvieto, si recò nel 1550 a studiare diritto a Perugia con Marco Antonio Eugeni e Ristoro Castaldi. Qui nell'ottobre, infatti, fu ammesso come interno nel collegio della Sapienza vecchia.
L'indirizzo umanistico della sua formazione, che doveva segnare profondamente non solo le opere più mature, ma l'impostazione stessa di molte scelte della sua vita, risulta già con chiarezza da un significativo elogio degli studi giuridici, indirizzato da Perugia al cugino Febei nel novembre 1551 (Arch. di Stato di Roma, Arch. Cartari-Febei, busta 37). L'epistola si avvaleva di larghe citazioni dalle fonti civilistiche e canonistiche, ma anche di esempi tratti "ex veteribus monumentis (quantum per otium vagari licuit)", secondo un tipico impianto retorico, in cui ricorreva l'eco della disputa delle arti e l'appello agli ideali umanistici di una ratio come criterio generale di vita e di una perfetta sodalitas tra intelletti affini, fondata su di un legame "quod a virtute studiisque ceperit initium". Di là dagli spunti polemici contro le "logicorum fallacias" della cultura tradizionale, o dal riconoscimento che "nullum legalis facultas Bartolo conferendum tulit, in caeteris disciplinis plurimis inferiori", l'argomento più insistente dell'epistola era la sottolineatura della specificità della scienza giuridica e del suo oggetto, al cui confronto appariva vago e illusorio ogni enciclopedismo di origine medievale. Di qui nasceva l'invito a dedicarsi senza riserve a questi studi, nella convinzione che "tot tantisque muneribus ac bonis quae dilargiuntur, non licet frui, nec uti recte, si desit lex, iustitia, et iurisconsultus"; che anzi "quemadmodum … deus in coelo pulcherrimum sui ipsius simulacrum solem et lunam constituit, talis est in Republica imago ac lumen iurisconsultus".
Nel 1557, dopo aver conseguito il dottorato, il C. fece ritorno ad Orvieto, dove sposò alla fine dell'anno successivo Virginia Polidori, che gli portò in dote la somma cospicua di 1.300 scudi.
L'amministrazione dei beni della famiglia occupò largamente le energie del C., sempre attento a registrare il risultato economico dei suoi sforzi. In questo senso, le non molte carte cinquecentesche, rintracciabili nell'Arch. Cartari-Febei, gettanoqualche luce sul procedere di un ceto sociale, che trovava nelle professioni legali il fondamento del proprio prestigio e negli acquisti terrieri il modo usuale per consolidare la sua ricchezza e il suo status. Così, a fianco ai pareri e agli atti processuali, si susseguono gli strumenti relativi alle proprietà di Ficulle, di Garigliano o di Torre Alfina, ai censi ed alle eredità (controversa e cospicua fu soprattutto quella di Teodorico Febei), alle compravendite di luoghi di Monte, alla costituzione, infine, o all'estinzione di compagnie d'ufficio. Il C. vi risulta a volte associato con il fratello Vincenzo ma più di frequente come il punto di riferimento della stessa attività dei figli, con i quali formò il nucleo di un ampio studio professionale, capace anche di fornire via via il personale per vari uffici ordinari o straordinari di giurisdizione nello Stato ecclesiastico. Così mentre Giulivo, il primogenito, s'avviava agli uffici maggiori, Muzio (1562-1594) collaborava più intensamente allo studio e alla redazione delle opere paterne; esercitava a Roma l'avvocatura e diveniva podestà di Spoleto nel 1588-89 (ibid., buste 1, 2, 6, 7, 10, 12, 43, 44). Papirio invece (1568-1604) seguiva gli affari in Orvieto, dove fu estratto gonfaloniere nel 1598; ricopriva per due semestri, dal 1593 al 1594, la carica di podestà di Tolentino (fu anche commissario de' fraudi di quella città durante la carestia del '93), e otteneva, infine, dal 1º maggio 1601 sino alla morte, la carica ambita di uditore di Rota a Perugia (ibid., buste 1, 2, 10, 12). Anche i due figli minori, Rutilio e Quintilio, benché giovanissimi, s'applicarono nello studio paterno, che abbandonarono presto, per dedicarsi al ministero ecclesiastico (ibid.; cfr. anche buste 7 e 16).
Il C. fissò ad Orvieto il centro dei suoi interessi, fondati sull'avvocatura pur senza escludere uffici e incarichi fuori città. Nel 1563, poco dopo l'istituzione della magistratura, fu estratto gonfaloniere, carica che ottenne ancora nel '69, nel '78, nell'81 e nell'88. Frattanto, nel 1560, era stato podestà di Spello per un semestre, e forse uditore del Torrione a Bologna nel 1562. Nel 1566 fu inviato come ambasciatore a Firenze, "per alcune occorrenze importanti del nostro publico" (ibid., busta 2), e poi, sempre nello stesso anno, a Roma presso Pio V, dove si trattenne per svolgervi pratiche d'avvocato. Sempre a Roma come avvocato e come agente della citta di Orvieto, risulta nel 1568, nel 1569 e nel 1570, quando vi fu deputato per alcune cause criminali in qualità di luogotenente sostituto. Nel 1577 fu uditore del vescovo di Spoleto e quindi in seguito luogotenente criminale a Perugia del cardinale Filippo Spinola. Ricopriva ancora la carica nel 1585, ma l'aveva certamente lasciata alla fine del 1586. Negli anni successivi è sicura la sua presenza ad Orvieto, dove riceve diverse lettere, ma non dovettero mancare altri incarichi, se sono fondate le notizie dell'anonimo genealogista (probabilmente Fr. Natali, ibid., b. 1, Note genealogiche di casa Cartari), che lo indica genericamente come uditore criminale ad Ancona e poi uditore generale della Marca anconitana sotto il cardinale M. A. Colonna. Del resto, si trattò per lo più di incarichi temporanei, che non lo indussero mai a trasferire da Orvieto la sede principale delle sue attività. Non possono neppure escludersi missioni minori: ad esempio, il 30 dic. 1589, Muzio scriveva al fratello Giulivo: "messer Patre ancora è a Amelia per quella Communità, et credo che non verrà per questo Carnevale, et si porterà forse a casa una centina di scudi" (ibid., busta 1). Nello stesso anno, frattanto, aveva ottenuto dalla Repubblica di Genova un incarico di grande prestigio: "Per la buona informatione che habbiamo havuto della dottrina, isperienza, et integrità vostra, vi habbiamo eletto in uno degl'Auditori della Rota civile delle cause essecutive di questa Città, il quale officio è per doi anni cominciati al primo del presente mese di marzo" (ibid., busta 2, "Lettera del Duce e Governo", 22 marzo 1589).
Mantenne l'ufficio sino alla scadenza prevista, rientrando quindi ad Orvieto, dove fu giudice delle appellazioni (ibid., nella busta 43, vari processi d'appello, probabilmente connessi con questa carica). Secondo una notizia alquanto indeterminata, fu impiegato ancora dal Comune di Orvieto per una revisione degli statuti (ibid., busta 1, Note, cit.). Morì, sembra a Roma, il 27 maggio 1593 (ms. Vat. lat.9278, c. 61r).
Fra tanti incarichi, legati alle cure forensi, il C. non trascurò di coltivare più vaste ambizioni culturali. Nei conti di casa non mancano pagamenti per acquisto o legatura di libri, che dimostrano un'attenzione per gli scritti dei pratici, oltre alla cura per i classici del diritto, ma anche più vasti interessi e curiosità. Ai figli, del resto, dava incarico di procurargli le novità librarie ed imponeva con fermezza una rigida disciplina nello studio teorico. Ma soprattutto si preoccupava di costruire un ampio sfondo dottrinale alle sue attività di avvocato e di giudice, che gli dettero una tale notorietà da farlo porre dal Boccalini come protagonista di un significativo Ragguaglio (II, 87).
Se le Decisiones Rotae causarum executivarum Reipublicae Genuensis, pubbl. postume dal figlio Papirio a Venezia nel 1603 e più volte ristampate, si vollero raccolte e annotate "magis ad sui ipsius commodum, suaeque memoriae adiumentum" (Epist. dedic., c.1v; ciò tuttavia non impedì a M. A. Massa di farle oggetto di amplissime Observationes familiares, che furono pubbl. a Lucca nel 1730), uno spessore più largo dimostrano il Tractatus de executione sententiae contumacialis capto bannito, Venetiis, Io. Zenari, 1587, ed i Theoricae et praxis interrogandorum reorum libri IV, Venetiis, Io. et A. Zenari, 1590: opere che godettero entrambe d'una certa fortuna e di varie ristampe. In esse ritornavano con insistenza alcuni tipici motivi umanistici, dall'attenzione per il momento della didattica, presente nell'enunciazione di voler giovare ai "Tyrones, dum e scholis ad mare vastissimum gubernandae Republicae se transferunt" (Tract., c.1v; e Theor., c. 2v); alla critica verso le opere tradizionali, "omnia nullo ordine sine arte, confusa", composte "sine Methodo, et ratione" (Theor., cc. 1r e 4v), capaci soltanto di raccogliere gli argomenti "veluti dispersa, et dissipata membra" (Tract., c. 1v).Ad esse egli opponeva "la necessità dell'arte", intesa, secondo un'eco ciceroniana, come "dux certior quam natura" (Theor., praef., c. 1v). La sua polemica si rivolgeva contro tutti coloro che, "vulgari modo, et exercitatione contenti", trascuravano il criterio fondamentale di una congiunzione della "cogitatio" con l'"usus", l'unione dell'"ars" e dell'"ordo" con l'"exercitatio". A questa esigenza, del resto, egli aveva dedicato i suoi sforzi, stendendo un Methodus processus informativi, di cui da Genova dava notizie al figlio Giulivo in due lettere del 1590 (Arch. Cartari-Febei, buste 1 e 12) come di un lavoro cui aveva "cominciato a dare l'ultima mano… et de mano in mano se rescrive in netto, et dove ci attende Mutio su lui se bene con poco progresso, ci attenderò anch'io…, et se potrà avanzar tempo, col cominciar a stampare questi [libri] che mentre se attenderà a questi alla stampa, se possono metter in ordine li restanti che… saranno cinque o sei libri". Però nel 1592, annunciando un'altra opera sua, si lamentava da Roma col figlio (ibid., b. 12, 19 dicembre): "Il methodo non è anchora in ordine, tuttavia gli sto a torno per darli l'ultima mano, ho ridotto al fatto et ci ho riaggiusto fin hora tutto quello che han detto 45 consulenti, et sto dietro agl'altri da rimettere subito nel mio prontuario rerum criminalium". Ciononostante lo pregava di studiare le possibilità di pubblicazione con gli editori che lo avevano avvicinato, considerando di ritirarsi definitivamente dall'attività forense.
Del Metodo, comunque, non ci è pervenuto se non un breve frammento della prefazione (ibid., busta 44). Restano inediti, invece, oltre a vari frammenti di un repertorio (ibid., busta 131), il Promptuarium rerum criminalium (ibid., bb. 196-198), che contiene un mero elenco, sotto le varie voci alfabetiche, dei testi ed autori che avevano trattato il tema, senza trascurare i rimandi agli Statuti di Orvieto. Analogamente, le Adnotationes ad consilia, lecturas et tractatus diversorum doctorum (ibid., b. 207) consistono in uno spoglio per argomenti delle opinioni citate, in adesione o in contrasto, nei Consilia dei due Riminaldi, di Deciani e Menochio e presentano qualche interesse solo per ricostruire il modo con cui tanti pratici preparavano il materiale per le catene di autorita delle loro allegazioni. Maggior rilievo hanno invece le Institutiones iuris civilis e le Institut. canonicae (ibid., bb. 199 e 200), egualmente inedite intessute di cultura umanistica, ma costruite anche con larghi riferimenti alla prassi, che provano in modo significativo la necessità di riesaminare certe conclusioni frettolose e correnti nella storiografia giuridica, tendenti a fissare una radicale separazione tra le "astrattezze" della giurisprudenza umanistica e la "pratica" dei tribunali.
Fonti e Bibl.: Fonte essenziale sono le carte raccolte senz'ordine nell'Arch. di Stato di Roma, Arch. Cartari-Febei, in partic. buste 1, 2, 4, 7, 10, 12, 37, 38, 43, 44, 131, 196-198, 207. Brevi note biografiche si leggono in C. Cartari, Advocatorum Sacri Consistorii Syllabus, Romae 1656, p. 272; Bibl. Apost. Vat., Vat. lat.9278: [G. B. Febei], Notizie d. scrittori orvietani per il sig. conte Mazzucchelli, c.61rv; S. De Colli, L'Arch.Cartari-Febei, in Notizie degli Arch. di Stato, IX (1949), pp. 64 s.