MARGANI, Flaminia
– Nacque a Roma nei primi decenni del XVI secolo da Giacomo e da Gregoria Gabrielli sua terza moglie.
La famiglia, che apparteneva alla nobiltà cittadina, sperimentava allora una congiuntura difficile, per l’estinzione del ramo primogenito e per la crisi indotta dal sacco di Roma (1527). Il patrimonio di famiglia, stimato a 37.000 scudi, era composto dalla insula nell’attuale piazza Campitelli (che ospitava negli anni Trenta del Cinquecento l’abitazione di Giacomo – con la moglie e i figli: la M., Battista, Stefano e Paolo – e del fratello Giovanni Battista), da quattro casali e alcune vigne, oltre che da attività complementari come il commercio del legname.
A tempo debito la M. lasciò la casa paterna per trascorrere alcuni anni nel monastero di Tor de’ Specchi, frequentato dalle donne della famiglia. Quell’esperienza lasciò in lei un segno duraturo, tanto che le parenti divenute monache, unitamente ad alcune istituzioni religiose, ebbero un posto di favore nelle sue ultime volontà.
La precoce morte del padre, nell’agosto 1523, la spinse verso la famiglia materna. I Gabrielli sembrano aver costituito la vera famiglia della M. e nei momenti determinanti della sua vita furono costoro a trovarsi accanto a lei: in primo luogo lo zio Antonio, nominato nel testamento come destinatario della somma di 2500 scudi, seguito dalla zia Porzia e dai cugini Antonio e Geronimo, ambedue avvocati concistoriali.
Nel 1540 la M. sposò Savo Mattei, secondo una pratica di alleanze matrimoniali da tempo sperimentata. Era un matrimonio incrociato: il fratello della M., Stefano, prima di sposare Caterina degli Anguillara, era rimasto vedovo di Orizia, sorella di Savo. Anche se la M. non fu destinata al primogenito, si trattò di un buon matrimonio, per il quale i fratelli e la madre Gregoria le assegnarono 4500 ducati di moneta vecchia di dote e 500 di acconcio. Gli sposi andarono a vivere nell’insula dei Mattei, nel rione S. Angelo, vicino a quella dei Margani. L’unica ombra dell’unione fu la mancanza di figli.
Tra il 1550 e il 1552 Savo Mattei decise di donare alla M. gran parte dei suoi beni (due casali valutati 20.000 scudi, la casa in cui vivevano e 12.000 scudi investiti nel debito pubblico), sottraendoli così alle aspettative ereditarie dei propri fratelli.
La donazione, tenuta segreta e conosciuta solo dall’entourage dei Gabrielli, segnò, dopo la morte di Mattei, l’inizio delle ostilità tra la M. e i cognati Alessandro e Paolo. Questi non solo nel 1561 impugnarono la validità dell’atto, dando luogo a un procedimento penale per falsa donazione, dati i non pochi lati oscuri che presentava il documento notarile, ma irruppero nella casa della donna la stessa notte della morte del marito portando via argenteria, soldi, masserizie e tutte le provviste che riuscirono a razziare. A sostenere i diritti della M. sui beni del marito e a dar conto della sua buona fede si attivò un fronte compatto, che vide in primo luogo i Gabrielli e le persone a loro vicine, ma incluse anche badessa e monache di Tor de’ Specchi e molte esponenti della nobiltà cittadina. Si potrebbe addirittura pensare che la longa manus dei Gabrielli avesse agito in tutta la vicenda sia nella scelta del notaio (a lungo procuratore di fiducia di Antonio) sia per la notevole sottigliezza giuridica di cui dettero prova le aristocratiche chiamate a testimoniare in favore della Margani.
Vedova e senza figli, la M. aveva un ristretta cerchia di frequentazioni, tra cui Caterina degli Anguillara, moglie del fratello Stefano, e i loro quattro figli: Giacomo, Fabio, Fabrizio e Ortensia. Con la cognata, rimasta nel frattempo vedova per la morte, avvenuta in modo oscuro, del marito, scoppiò tuttavia una lite nel 1564. A prendere l’iniziativa fu Caterina che accusò la M. di averla indotta con l’inganno, alcuni anni prima, probabilmente nel 1559, a sottoscrivere nel testamento una donazione contro la propria volontà. La M. aveva anche scelto il notaio: quell’Onofrio Cumino già al centro della vexata quaestio sulla donazione di Savo Mattei.
Nel corso del processo per contraffazione di testamento e durante il confronto tra le due cognate, emersero alcuni segreti di famiglia: dalla gravidanza, avvenuta mentre era vedova, di Caterina degli Anguillara al sospetto nutrito dalla M. che ella fosse all’origine della morte di Margani. Di quest’ultimo fatto, non vi sono prove; di certo il secondo matrimonio di Caterina incontrò l’ostilità dei Margani (un’ostilità acuita dal fatto che la scelta fosse caduta su Bandino Piccolomini, un nobile scapestrato che viveva degli interessi della dote della moglie). Appena avuto sentore del desiderio di Caterina di rimaritarsi, i Margani mandarono a chiamare da Perugia, dove si trovava a studiare, il figlio della donna, Giacomo, e gli offrirono soldi e coperture per uccidere la madre.
Nel processo del 1564-67 ampio spazio fu dedicato alle questioni sulla trasmissione dei beni. Altri elementi sono però presenti nell’antagonismo tra le due donne: dalle lealtà divergenti che esprimono i due fronti familiari (i Margani da lunga data fautori dei Colonna, Caterina degli Anguillara invece sembra essere più incline a gravitare nell’orbita Orsini) allo stile di vita di cui le cognate sono espressione. Mentre il comportamento della M. si rifà al modello della donna devota proposto dalla Controriforma alle nobildonne, l’esistenza di Caterina degli Anguillara sembra procedere secondo un indirizzo esente ancora dalla moralizzazione femminile postridentina. Questi contrasti ebbero a breve un tragico epilogo.
L’11 giugno 1568 la M. uscì per recarsi alla Madonna della Consolazione. Fatti pochi metri fu violentemente ferita da un giovane che si dette alla fuga. Il giorno dopo, oramai morente, accusò di fronte al governatore di Roma Caterina degli Anguillara, Bandino Piccolomini e Paolo Mattei.
Il processo iniziato immediatamente portò entro un mese alla condanna di Caterina degli Anguillara, del figlio Giacomo Margani e di Piccolomini come mandanti dell’omicidio. Esecutore materiale del delitto risultò un fuoriuscito di Tagliacozzo ingaggiato da Giacomo Margani su incarico della madre. Sottoposta alla corda, Caterina ammise la volontà di uccidere la M. e insistette nel prendere su di sé l’intera responsabilità del delitto. Molte, tuttavia, sono le incoerenze del delitto, dal modo in cui fu preparato (alla luce del sole e con l’ausilio di molte persone) agli obiettivi che con l’eliminazione della M. si volevano raggiungere. Infatti, finché il tribunale non si fosse pronunciato sui due testamenti controversi, l’eliminazione della M. non avrebbe reso automatico quello che più premeva a Caterina degli Anguillara: il passaggio dei beni della donna ai figli avuti con Stefano Margani. Un altro aspetto oscuro dell’inchiesta è la mancata chiamata in causa della famiglia Mattei. Alessandro e Paolo Mattei avevano non meno motivi di rancore verso la M., tuttavia nessun sospetto venne avanzato nei loro confronti, nonostante le accuse formulate in punto di morte dalla M. contro Paolo, né egli fu mai interrogato. A paragone di Caterina degli Anguillara, di Bandino Piccolomini e Giacomo Margani, già compromessi per motivi diversi agli occhi del potere pontificio, le credenziali di Paolo Mattei erano ancora intatte, senza contare che i Mattei erano all’epoca un gruppo parentale più esteso e coeso, in grado di spendere una forte capacità di influenza.
Il processo rappresenta un episodio rivelatore della svolta repressiva nel perseguire la violenza nobiliare attuata dal governo papale in quegli anni e per disseccare l’humus sociale e i potenti appoggi da parte del baronato romano. Gli interrogatori dimostrano, in sostanza, come fosse difficile per i nobili romani nella seconda metà del Cinquecento chiudere un’epoca della loro storia. Tanto forti erano le abitudini e i modi di essere violenti che arrivavano, sia pure in casi eccezionali come quello di cui fu vittima la M., a influenzare i comportamenti delle donne di lignaggio. Non era facile, dunque, per i giudici collocare la vicenda nel modello di reazione violenta alle offese arrecate all’onore familiare che serviva, il più delle volte, a legittimare il ricorso alla violenza. Per i contemporanei, infatti, l’uccisione della M. non presentava gli ingredienti necessari a farne un delitto d’onore, come sottolineò Caffarelli, che lo avrebbe descritto «caso strano, certo che non essendoci materia d’onore in una donna far simile atto» (Roma, Biblioteca Angelica, Mss., 1638, c. 184r). La M. e Caterina degli Anguillara rappresentano nel decennio 1560-70 due percorsi biografici estremi nel panorama dell’aristocrazia femminile, che si consumano nel momento in cui, sotto il pontificato di Pio V, è più evidente l’accentuazione morale nella repressione giudiziaria di ogni sorta di libertà e turbolenza nobiliari. Anche il testamento della M. concorre a rendere esplicito tutto ciò: messa da parte ogni lealtà familiare, la M. nominò eredi dei beni lasciatile dal marito, oltre ad alcuni monasteri cittadini e alla Confraternita della Ss. Annunziata, perché dotasse le ragazze che sarebbero entrate nel monastero di Tor de’ Specchi, la Fabbrica di S. Pietro e la congregazione del S. Uffizio. Sposando l’ideale dell’Inquisizione – un’istituzione combattuta dalla nobiltà cittadina, come avevano mostrato gli assalti e i saccheggi al tribunale in occasione della morte di Paolo IV nel 1559 – la M. si spinse quindi in una direzione che nessun nobile romano aveva fino ad allora dato prova di approvare fino in fondo: ultima delle nobildonne invischiate nelle logiche familiari medievali, fu anche tra le prime a voler riformare il mondo secondo le esigenze del rigorismo controriformato.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Roma, Arciconfraternita della Ss. Annunziata, 158: Eredità di Flaminia Margani; Tribunale criminale del Governatore, Processi del sec. XVI, voll. 72 (1561), 102 (1564), 129 (1568); Arch. Santacroce, cl. A, b. 29; cl. D, b. 100; Roma, Biblioteca Angelica, Mss., 1638: G.P. Caffarelli, De familis Romanis, c. 184r; M. D’Amelia, Uno strano caso di violenza nobiliare. L’assassinio di F. M. nella Roma del Cinquecento, in Dimensioni e problemi della ricerca storica, VI (1993), 2, pp. 177-208.