FLAMINE (lat. flamen, -ĭnis)
Flàmine era detto in Roma il sacerdote addetto in modo particolare a una divinità, dalla quale prendeva il nome. Mentre Plutarco ne attribuisce la prima creazione a Romolo (Numa, 64), Livio (I, 20) la riferisce a Numa, che avrebbe creato un flamine di Giove cui avrebbe aggiunto un flamine di Marte ed un altro di Quirino. A questi tre flamini maggiori si aggiunsero altri dodici flamini minori, addetti al culto di divinità antichissime. Di questi ci sono noti i nomi soltanto di dieci (Carmentalis, Cerialis, Falacer, Floralis, Furrinalis, Palatualis, Pomonalis, Portunalis, Volcanalis, Volturnalis). Si può considerare quale flamen di Giano il rex sacrorum. Caratteristica dei flamines era la veste purpurea (laena), la corona di lauro e il copricapo sormontato da una corta verga Che aveva in alto un minuscolo filamento di lana detto apex, dal quale prendeva nome. Gli antichi traevano la voce flamen appunto dal filum o filamentum dell'apex, mentre taluni critici moderni la fanno derivare da flare, ossia dall'essenziale azione del sacrificio che è quella di accendere e di soffiare il fuoco sull'ara (anche questa etimologia è però respinta oggi dai più).
Il più onorato di tutti, il flamine di Giove (flamen Dialis), doveva essere, come gli altri due flamini maggiori, patrizio, nato da un matrimonio celebrato con il rito della confarreatio, ed egli stesso coniugato secondo lo stesso rito. Non doveva allontanarsi dalla sua casa, e tanto meno uscire dalla città, se non con il permesso del pontefice massimo, da cui dipendevano tutti i flamini. Doveva astenersi dal prestare giuramento, dal salire a cavallo, dal toccare e dal guardare tutto ciò che fosse impuro. Non poteva inoltre incontrarsi con un reparto di militari armati, né vedere persone che lavorassero in giorno festivo. Gli era anche inibito di portare anelli pieni, nodi o quanto potesse simboleggiare un legame. Speciali disposizioni regolavano il suo abbigliamento, la sua pettinatura, il modo di tagliarsi i capelli e di radersi, l'acconciatura della barba e delle unghie. In tutte queste minuziose prescrizioni sopravvivono antichissime credenze e costumanze magiche. Ogni altra funzione o dignità era incompatibile con il suo ufficio. Godeva di alcuni privilegi e distinzioni, quali il diritto d'indossare la toga pretesta, l'uso della sedia curule, l'assistenza di un littore e un seggio nel senato. Soltanto col tempo fu concesso ai flamini maggiori di essere eleggibili alle magistrature; per il flamen Dialis tale concessione data dall'anno 119 a. C. Se il flamine diale veniva a perdere la propria moglie (flaminica) doveva dimettersi dal suo flaminato (flamonium). La carica di flamen Dialis rimase vacante, dopo la morte del flamine Cornelio Merula, dall'86 al 13 a. C. (Tac., Ann., III, 58); secondo Dione Cassio (LIV, 36) dall'86 al 10.
I grandi flamini erano eletti dal popolo nei comizî curiati ed erano inaugurati dal pontefice massimo mediante la cerimonia della captio. I flamini di fronte al pontefice massimo erano come i figli di famiglia nella casa del padre; il collegio dei pontefici rappresentava il consiglio di famiglia. I flamini si sforzarono più volte di sottrarsi a questa tutela, ma il popolo non accettò mai le loro pretese. Potevano essere ammoniti e puniti dal pontefice massimo, ed in caso di demerito invitati a dimettersi ed exaugurati. Erano aggregati al collegio dei pontefici, con i quali sedevano per certe cause.
Oltre ai flamini fin qui ricordati, si trova talora attribuito questo nome ai sacrificatori delle singole curie (flamines Curiales), agli addetti al culto della dea Dia esercitato dal collegio degli Arvali (flamines Arvales), ai sacerdoti del culto dei Penati a Lanuvio (flamines Lanuvini). Per l'esclusività della funzione furono chiamati flamini anche i sacerdoti addetti al culto dei singoli imperatori divinizzati: flamen Iulianus, Augustalis, Claudialis, Ulpialis, Commodianus. Le imperatrici ebbero delle flaminicae.
Intorno a questo flamine imperiale, detto anche sacerdos provinciae, era organizzato il culto imperiale nelle provincie latine dell'impero. Esso durava in carica un anno ed era il presidente dell'assemblea provinciale che lo eleggeva. Capo gerarchico di tutti i sacerdoti della provincia, celebrava le feste e i giuochi annuali, talora a sue spese, e amministrava il bilancio del culto imperiale. Poteva essere confermato nella carica, comunque manteneva a vita il titolo. Anche i municipî avevano il loro flamen Augusti che aveva la precedenza su tutti gli altri sacerdoti municipali. Sembra che la durata della loro carica fosse un anno; uscendone acquistavano il titolo di flamines perpetui.
Bibl.: J. Marquardt, Römische Staatsverswaltung, III, 2ª ed., Lipsia 1885, p. 326 segg.; H. Herbst, De sacerdotiis Romanorum municipalibus, Halle 1883; A. Bouché-Leclercq, Manuel des Inst. rom., Parigi 1886, p. 513 segg.; P. Willems, Le Sénat de la République romaine, Lovanio e Parigi 1879-1883, I, pp. 665, 668; G. Wissowa, Religion u. Kultus der Römer, 2ª ed., Monaco 1912, pp. 482, 945; A. Klose, Römische Priesterfasten, Breslavia 1910, p. 15 segg.