Fisiologia delle piante
La fisiologia delle piante è la scienza che studia il funzionamento della grande varietà di organismi vegetali presenti nel pianeta. È percezione diffusa che la pianta sia un essere vivente che, pur manifestando similarità con gli appartenenti ad altri regni sistematici, evidenzia sue proprie peculiarità, prima fra tutte la capacità di realizzare la fotosintesi clorofilliana. Questa percezione è senza dubbio corretta, ma non coglie esattamente le numerose specificità sul piano organizzativo dei vegetali, i quali non si limitano alla pur importante e fondamentale fotosintesi.
Alcune di queste specificità rendono possibile proprio tale processo di produzione di energia. Difatti, la cellula vegetale è caratterizzata dalla presenza al suo interno di uno speciale organello essenziale per la funzione fotosintetica, il plastidio (o 'cloroplasto' nelle foglie verdi). Essa si differenzia inoltre dalle cellule animali in quanto la sua parete cellulare è notevolmente più spessa ‒ una caratteristica che può conferire rigidità alla struttura generale ‒ mentre gran parte dello spazio cellulare è occupato dal vacuolo, che contiene un fluido con poche proteine. La funzione del vacuolo è fondamentalmente quella di regolare la pressione osmotica esistente tra la cellula e l'ambiente che la circonda, permettendo alla prima di assorbire acqua (che entra nel vacuolo) e quindi di distendere la parete cellulare, favorendo così la propria crescita. Il vacuolo ha anche altre funzioni, come quella di governare l'equilibrio degli elementi presenti nella cellula, accumulando al proprio interno anche alcune sostanze che risulterebbero tossiche se rilasciate nel citoplasma.
La capacità di realizzare il complesso processo di fotosintesi ha comunque una profonda influenza sull'organizzazione dei vegetali. La necessità di catturare anidride carbonica, indispensabile perché avvenga la reazione fotosintetica, ha prodotto organismi la cui superficie esterna è molto grande rispetto a quella delle cavità interne. Le foglie di una pianta possono creare una superficie di diverse centinaia di metri quadrati, mentre gli animali hanno cavità interne molto vaste e differenziate, con superfici esterne relativamente piccole.
La dipendenza dalla presenza di biossido di carbonio, di acqua e di luce hanno poi reso possibile l'evoluzione di una serie di adattamenti relativi a questi elementi ambientali. Le modificazioni stagionali, legate a luce e temperatura, ne sono l'esempio più evidente. Esistono diverse classi di ormoni che presiedono alle variazioni fisiologiche, le cui funzioni sono estremamente diversificate, senza tuttavia raggiungere la specificità di azione che gli ormoni hanno negli animali. I dettagli dei meccanismi di azione sono ancora in parte da chiarire e sono comunque oggetto di studio sia dal punto di vista puramente funzionale sia da quello genetico. Tra gli obiettivi vi è la possibilità di modificare geneticamente alcune piante utili all'uomo, rendendole portatrici di caratteri favorevoli (per es., maggiore resistenza ai parassiti). L'importanza di queste ricerche ci riporta quindi a una delle caratteristiche fondamentali dei vegetali: l'autotrofia, ovvero la capacità di creare sostanze nutritive a partire da molecole inorganiche. Una peculiarità che rende le piante preziose alleate per ogni animale.
La fisiologia delle piante può essere molto diversa da specie a specie: ciò rende difficile schematizzare il funzionamento di questi organismi. Per comprendere bene questa affermazione si può pensare a quanto sia diversa una pianta di patata da una di frumento: la prima forma un organo sotterraneo dove accumula una enorme quantità di carboidrati sotto forma di amido, fenomeno del tutto assente nel frumento. Si può affermare che, mentre la fisiologia umana si riferisce a una sola specie, la fisiologia vegetale include specie assai diverse, quale può essere una sequoia rispetto a una margherita, o un tulipano rispetto a un cactus, il quale addirittura vive con un fusto succulento e verde, mentre le foglie si sono trasformate in aghi incapaci di fotosintesi. È chiaro che morfologie così differenti sottendono comportamenti fisiologici diversificati. Quindi, a rigore, si dovrebbe fare cenno alle diverse fisiologie vegetali, ma questo può generare confusione. È utile, invece, delineare le caratteristiche funzionali principali che sono comuni a tutte le specie vegetali e concentrarsi soprattutto su quelle funzioni che appaiono tipiche delle piante.
Questo tipo di impostazione comporta una comparazione con altri piani organizzativi, in particolare quello degli animali, che aiuta molto a capire le specificità dei vegetali. La prima domanda è dunque: cosa distingue una pianta da un animale? Il primo punto di diversificazione, senza dubbio, si osserva a livello cellulare, che presenta importanti differenze tra piante e animali. Le più significative tra queste sono la presenza nella cellula vegetale di: (a) un organello specifico, il plastidio, la vera sede della fotosintesi: nelle cellule degli organi verdi ha una struttura particolare e prende il nome di , mentre negli organi non verdi è privo di clorofilla e quindi senza funzioni fotosintetiche; (b) una parete cellulare, di complessa composizione chimica (cellulosa, glicani, pectina, lignina ecc.) che rappresenta una percentuale importante dell'intero volume cellulare e che impegna notevolmente, per la sua costruzione, il metabolismo cellulare; (c) un che, nelle comuni cellule adulte, occupa gran parte del volume citoplasmatico.
Queste tre componenti (plastidio o cloroplasto, parete cellulare e vacuolo), assenti nella cellula degli animali, sono i requisiti cellulari che danno ragione della specifica organizzazione strutturale e funzionale delle piante.
Questo organello cellulare, esclusivo delle piante e delle alghe, può avere forma, dimensioni, struttura interna e funzioni assai diverse. È sempre racchiuso entro un involucro formato da due membrane; queste ultime sono costituite, come tutte le membrane cellulari, da un doppio strato di lipidi associati a proteine. I plastidi sono organelli cosiddetti 'semiautonomi' perché contengono DNA con l'informazione genetica necessaria per produrre una parte delle proteine organellari.
Il cloroplasto è il plastidio verde, cioè compare in tutte le foglie e nelle parti verdi delle piante: nel suo apparato membranoso interno (tilacoide) si realizza la fotosintesi, cioè la trasformazione dell'energia luminosa solare in energia chimica in forma disponibile per il metabolismo cellulare. Una singola cellula del mesofillo fogliare può contenere anche molte decine di cloroplasti; per cui un millimetro quadrato di superficie fogliare può contenerne anche centinaia di migliaia.
Oltre alla fotosintesi, i cloroplasti sono la sede di molte attività di biosintesi di molecole, fondamentali per il funzionamento delle cellule della pianta, tra le quali le clorofille, i , le purine, le pirimidine e gli acidi grassi, questi ultimi essenziali per tutte le membrane cellulari. Nei plastidi avviene, inoltre, la riduzione degli ioni nitrico (NO3−) e solforico (SO42−).
La cellula delle piante, oltre a essere avvolta, come la cellula degli animali, da una membrana, possiede una seconda barriera ben più voluminosa, la parete. La sua natura chimica è molto complessa, ma è finemente organizzata; le macromolecole costituenti (carboidrati, proteine e fenoli) si combinano tra loro in vario modo a seconda delle diverse specie vegetali. La forma della cellula, che priva di parete diverrebbe inevitabilmente sferica, è poliedrica in quanto costretta dalla parete e dalla pressione esercitata dalle pareti delle cellule vicine. Queste costrizioni determinano anche i tassi di crescita e la direzione della crescita cellulare e quindi, in ultima analisi, la morfologia della pianta e il suo sviluppo. La forma della parete influenza specifiche funzioni delle piante: nell'epidermide di alcuni fiori essa rende le cellule particolarmente adatte a riflettere la luce, ravvivando i colori che attraggono gli impollinatori. Inoltre la parete, oltre ad assumere funzioni in relazione alla sua specifica struttura, ha anche un contenuto 'informazionale', nel senso che può generare molecole che agiscono come 'segnali' per la regolazione di attività interne alla cellula o che prendono parte alla complessa comunicazione tra cellule.
Sono i molti carboidrati presenti nella parete a conferirle l'alto grado di flessibilità funzionale. Sono almeno undici gli zuccheri semplici più comunemente rinvenuti nelle pareti; tenuto conto dei diversi legami tra di loro e delle varie configurazioni, le combinazioni possibili sono altissime, sebbene, di fatto, le strutture di alcuni dei principali componenti siano conservate tra le specie. Tra queste, i più importanti sono la cellulosa (rappresenta tra il 15 e il 30% della sostanza secca delle pareti e la percentuale può essere più elevata nelle cellule ormai adulte) e i glicani, due elementi fondamentali dell'intelaiatura della parete, a cui conferiscono una eccezionale solidità. A base di carboidrati sono anche le , che esercitano varie funzioni tra cui la modulazione del pH di parete, il bilancio ionico, e partecipano al meccanismo di riconoscimento degli organismi simbionti o patogeni.
Il più voluminoso comparto della cellula vegetale è il vacuolo (dal latino vacuum, vuoto) che, a differenza del citoplasma molto denso, si caratterizza per contenere un fluido a bassa concentrazione di proteine. Nelle giovani cellule si osservano numerosi vacuoli di piccole dimensioni che, durante la crescita cellulare, tendono a fondersi in un unico comparto, arrivando a occupare oltre il 30% del volume totale; nella cellula ormai matura questo spazio tende ad aumentare sino ad arrivare al 90% del volume, confinando il citoplasma a divenire uno straterello compreso tra la membrana del vacuolo (il tonoplasto) e la membrana cellulare.
Nel vacuolo si rinvengono molti ioni inorganici, acidi organici, amminoacidi, zuccheri, metaboliti secondari ecc. La presenza di tutti questi componenti genera un potenziale osmotico che richiama acqua all'interno del vacuolo. L'accumulo d'acqua dentro il vacuolo produce una pressione idrostatica che determina la distensione della parete primaria, necessaria per la crescita della cellula. L'importanza del vacuolo per la vita della pianta sarebbe già enorme se fosse limitata alla crescita, ma non è così. Il ruolo del vacuolo è di grande rilevanza per molti altri aspetti fisiologici: (a) è decisivo per il mantenimento in equilibrio dinamico della presenza di ioni e di metaboliti; (b) accumula sostanze tossiche sequestrandole in un comparto dove non possono essere nocive, mentre lo sarebbero se permanessero nel citoplasma; (c) è un luogo di accumulo anche di proteine; in particolare sono importanti, da questo punto di vista, i vacuoli delle cellule di tessuti di riserva dei semi; (d) è il comparto litico della cellula; (e) possiede varie funzioni ecofisiologiche come l'accumulo di pigmenti nelle cellule di petali e frutti per attrarre insetti e/o altri animali per l'impollinazione e la dispersione; (f) accumula deterrenti alimentari contro erbivori, ma anche enzimi capaci di distruggere funghi e batteri patogeni.
Il processo che, in modo più evidente, differenzia le piante dagli animali è la fotosintesi (svolta anche dalle alghe e da diversi procarioti). Tramite essa gli organismi (autotrofi) sono capaci di sintetizzare sostanze organiche utilizzando l'energia luminosa del Sole. La fotosintesi è dunque il processo di base che assicura il cibo anche agli eterotrofi (soprattutto animali), producendo inoltre l'ossigeno indispensabile per la respirazione di tutti gli organismi multicellulari e di gran parte degli unicellulari. La fotosintesi è un processo biologico di ossido-riduzione. Nel caso delle piante la fotosintesi è ossigenica, cioè libera ossigeno in quanto la sostanza riducente che serve nella reazione come donatore di elettroni è, appunto, l'acqua. Ossidandosi, essa libera ossigeno ed elettroni che, in ultima analisi, vengono trasferiti sulla CO2 che si riduce a carboidrati. Questa reazione richiede energia che proviene dalla radiazione solare. Tutte le reazioni fotosintetiche avvengono nei cloroplasti contenuti negli organi verdi delle piante (primariamente le foglie).
Il processo di fotosintesi è diviso in due fasi principali. La prima è la cosiddetta 'reazione luminosa' che comporta la fotolisi dell'acqua con produzione di ossigeno e di sostanze dotate di elevata energia (ATP) o elevato potere riducente (NADPH). La seconda fase è la riduzione della CO2, chiamata anche 'ciclo riduttivo del carbonio' o 'ciclo di Calvin', dal suo scopritore Melvin Calvin, e che utilizza l'ATP e il NADPH della precedente reazione per produrre carboidrati. La parte di radiazione solare, utilizzata dalle piante per la fotosintesi, è quella comunemente detta della 'luce visibile', cioè compresa tra le lunghezze d'onda di 400 e 700 nm, che viene assorbita da un particolare pigmento verde chiamato 'clorofilla'. Alla clorofilla si affianca un altro gruppo di pigmenti, i carotenoidi, dal colore giallo-arancio; mentre la clorofilla assorbe anche nella zona rossa dello spettro, i carotenoidi assorbono nella zona che va da 400 a 500 nm dove la clorofilla ha un minore assorbimento. Quindi essi sono importanti pigmenti accessori e, inoltre, svolgono un ruolo fondamentale nel proteggere l'apparato fotosintetico (danni fotossidativi).
Il primo prodotto che si origina dalla riduzione della CO2 è, in gran parte delle specie vegetali, un composto a tre atomi di carbonio, l'acido fosfoglicerico (PGA); perciò tali specie sono state dette . Dopo che il PGA si è formato, viene ridotto tramite l'uso di ATP e NADPH formati durante la reazione luminosa, e parte della sostanza prodotta (la Rubisco) viene usata per costruire i carboidrati necessari alle piante e, da essi, tutte le altre strutture molecolari necessarie. Le ulteriori reazioni () che coinvolgono tale sostanza sono quelle che producono CO2.
Altre specie diverse dalle C3 producono, come primo risultato della fissazione della CO2, una sostanza a quattro atomi di carbonio. Tra di esse si annoverano il mais, la canna da zucchero, molte Graminacee tropicali e anche alcune dicotiledoni come l'Amaranthus. Sono le caratterizzate anche da una peculiare anatomia fogliare; essa rende possibile una più efficiente assimilazione di CO2 che in ambienti caldi e aridi attenua le perdite di acqua per traspirazione, senza diminuire il tasso di fissazione del carbonio. La sostanza a quattro atomi di carbonio si forma nel citoplasma delle cellule del mesofillo a opera di un enzima, la PEP carbossilasi (fosfoenolpiruvato carbossilasi) che, a differenza della Rubisco, non reagisce con l'ossigeno, evitando le perdite precedentemente illustrate.
Un'ulteriore modifica del metabolismo fotosintetico è rappresentata dalle cosiddette (metabolismo acido delle Crassulacee). In queste piante, similmente alle C4, avvengono due fissazioni di CO2 anziché una sola come nelle C3; ma, mentre nelle C4 le due fissazioni sono separate spazialmente, nelle CAM la separazione è temporale. La prima, a opera della PEP-carbossilasi come nelle C4, si verifica durante la notte dando luogo a una molecola a quattro atomi di carbonio (acido malico) che viene temporaneamente accumulata nei vacuoli. All'inizio del periodo luminoso del giorno successivo l'acido malico è trasportato fuori dal vacuolo, decarbossilato e la CO2 originata è fissata nuovamente dalla Rubisco e incanalata nel ciclo di Calvin. Questo peculiare lavoro fotosintetico avviene in molte piante, ma soprattutto in specie di ambienti estremamente aridi e caldi; si rinviene anche in piante epifite (che vivono sugli alberi, come, per es., molte orchidee) dove la disponibilità di acqua può essere assai limitata. Sono CAM molte delle cosidette 'piante grasse' (cactus, agave, ananas e numerose altre), che hanno il vantaggio di dissipare poca acqua. Le specie C3 sono largamente maggioritarie, rappresentando circa il 93% del totale.
La produzione di energia tramite utilizzazione della luce del Sole, ma anche la presenza di una robusta parete e di un grande vacuolo nelle cellule, caratterizzano il peculiare piano organizzativo dei vegetali. Nella pianta vi sono specifici organi deputati alla cattura delle radiazioni solari mediante le antenne, ma la reazione luminosa della fotosintesi produce energia ‒ sotto forma di ATP ‒ e potere riducente ‒ sotto forma di NADPH ‒ non fini a sé stessi, ma perché possa avvenire la cosiddetta 'reazione oscura' della fotosintesi e cioè la riduzione della CO2. Pertanto, gli organi aerei della pianta (primariamente le foglie) dovranno avere una morfologia e una struttura adeguate a queste due funzioni: (a) massimizzazione della 'cattura' della luce; (b) massimizzazione dell'assorbimento della CO2. Infatti nelle foglie sono presenti tutte quelle strutture molecolari deputate alla percezione della luce, oltre a una serie di microscopiche aperture sulla superficie (gli ) che consentono di assorbire la CO2 atmosferica.
Relativamente all'assorbimento di CO2 è bene ricordare che essa è presente nell'atmosfera in una bassa concentrazione, benché aumentata negli ultimi decenni a seguito delle attività antropiche. Il 'bisogno' di ampia superficie aerea è realizzato attraverso la formazione delle foglie; per avere idea di quanta superficie sviluppa una pianta si pensi che un albero di medie dimensioni possiede una superficie fogliare di circa 400 m2. Ecco perché la pianta è organismo di superficie, contrariamente agli animali, il cui corpo è dotato di una piccola superficie esterna, mentre è all'interno che si organizzano organi di vario tipo; le piante sono dotate di compattezza interna e grandi superfici esterne, invece gli animali possiedono piccola superficie esterna ma varie e articolate cavità interne.
Gli stomi sono una mirabile struttura per l'assimilazione della CO2. Contemporaneamente, però, essi rappresentano i punti di continua perdita di acqua sotto forma di vapore acqueo traspirato: è il 'compromesso' fotosintesi/traspirazione che connota il piano organizzativo dei vegetali. Pertanto la pianta terrestre, per compensare tale continua perdita di acqua (che si riduce molto di notte, sino ad annullarsi), deve poter rifornirsi continuamente di acqua dal suolo. Se ne deduce che per capire le basi della vita vegetale sulla Terra occorre studiare il rapporto fotosintesi/traspirazione. Uno dei parametri che meglio di altri fa capire lo stato idrico della pianta è l'Efficienza d'uso dell'acqua (EUA) che correla la CO2 totale fissata alla quantità di acqua perduta: EUA=CO2 fissata/H2O traspirata. In una pianta mesofita (cioè a esigenze idriche medie) e con un metabolismo fotosintetico C3 si ottiene un valore di EUA=0,0025. Se correliamo i due flussi in modo inverso si ottiene la quantità di acqua traspirata per unità di CO2 fissata. È questo il rapporto di traspirazione e il suo valore, nel caso specifico riportato, diviene ovviamente uguale a 400. Questi dati, misurati in laboratorio e su foglie singole, ci indicano dunque che il flusso di vapore acqueo in uscita dalla pianta è molte volte (400) superiore al flusso di CO2 in entrata. Ciò è già sufficiente a darci la percezione di quanto i vegetali terrestri dipendano dall'acqua; ma la situazione in campo è anche più complessa, tanto è vero che il rapporto di traspirazione sale assai al di sopra di 400 sino a raggiungere valori intorno a 2000. Normalmente, la quantità di acqua assorbita dalla radice è, per il 99%, traspirata dalla pianta nell'atmosfera e, quindi, solo l'1% rimane all'interno della pianta.
La pianta, a differenza degli animali, non è dotata di mobilità e quindi è totalmente soggetta alla volubilità degli andamenti climatici: pertanto in molte aree del mondo, inclusa la nostra area mediterranea, sono frequenti i periodi di prolungata siccità che possono provocare danni molto seri alla vegetazione. Le piante talora possono difendersi dallo stress idrico; un caso clamoroso di tolleranza alla siccità è rappresentato dalle 'piante resurrezione' (per es., Craterostigma plantagineum), capace di tornare a vegetare dopo un'essiccazione di quattro anni. D'altra parte vi sono piante (le Succulente o piante grasse) che hanno caratteristiche strutturali per la resistenza alla siccità: forte ispessimento della cuticola epidermica, scomparsa delle foglie (spesso sostituite da spine), grande aumento del rapporto volume/superficie. Inoltre, con l'inaridimento del terreno, le radici tendono a staccarsi dal suolo circostante, diminuendo la perdita di acqua. Se la siccità è contenuta nel tempo, la pianta potrà riattivare la normale assunzione di acqua al momento delle piogge successive. Il movimento dell'acqua della pianta non è regolato da sole forze fisiche: anche l'attività metabolica dell'organismo influisce, tramite gli effetti sulle ‒ le proteine che governano almeno una parte del passaggio delle molecole d'acqua ‒ nella membrana cellulare.
A differenza degli animali, che hanno una crescita limitata alla fase iniziale della loro vita, le piante crescono sempre e ripetono, durante il loro ciclo vitale, fenomeni che sono tipici dell'embriogenesi. Si dicono infatti organismi a 'embriogenesi continua' o a 'ontogenesi ricorrente'. La crescita continua, sia dell'apparato epigeo che di quello radicale, sembra rispondere egregiamente a quell'incremento di interazione, rispettivamente con l'atmosfera e il suolo, che è tipico di organismi di superficie. Gli animali, che sono invece organismi cavitari, non hanno questa esigenza.
I parametri fisico-ambientali che più influenzano la fisiologia delle piante sono la luce e la temperatura; spesso la loro azione si combina in modo tale da rendere difficile una separazione degli effetti. Comunque si può dire che la luce è responsabile di molti aspetti morfogenetici () e quindi funzionali, dipendenti dalla lunghezza d'onda della radiazione luminosa. La durata dell'illuminazione determina invece altri importanti aspetti del differenziamento (fioritura, ecc). La luce determina, inoltre, quei tipi di crescita ‒ crescita diseguale o differenziale di organi ‒ che sono alla base del particolare orientamento che fusti e foglie manifestano rispetto alla direzione dell'illuminazione (fototropismo). La temperatura gioca invece un ruolo preminente nell'insorgenza della dormienza dei semi e delle gemme.
La fotomorfogenesi è, dunque, la regolazione della forma della pianta mediante la luce, ma, perché questo avvenga, essa deve essere assorbita da specifici fotorecettori che sono: (a) i (presenti in più forme), che assorbono prevalentemente nel rosso e nel rosso lontano, ma anche nel blu; (b) i , pigmenti implicati nella fotorecezione della luce blu e anche dell'ultravioletto prossimo al blu (UV-A); (c) il , che assorbe le radiazioni ultraviolette comprese tra 280 e 320 nm. I fitocromi sono alla base di molti fenomeni tra i quali l'adattamento delle piante a variazioni di condizioni di luce. È questo il caso di una pianta che cresce all'ombra di un'altra e che mostra un maggiore sviluppo dei suoi steli: è la cosiddetta 'risposta di fuga dall'ombra'. Tra gli altri processi regolati dai fitocromi vi sono i ritmi circadiani, cioè tutti quei processi che si ripetono con periodicità di circa 24 ore: eventi cellulari come la mitosi o la respirazione, oppure eventi macroscopici come i movimenti fogliari. Infine, è accertato un ruolo dei fitocromi nella regolazione dei potenziali di membrana dei flussi ionici e dell'espressione genica. La luce blu, recepita dai crittocromi, provoca, invece, l'allungamento degli steli e stimola l'apertura degli stomi; anch'essa partecipa alla regolazione dell'espressione genica.
La variazione della durata dell'illuminazione attiene a una vasta gamma di risposte delle piante (l'allungamento degli steli, la crescita delle foglie, alcune forme di dormienza, la formazione degli organi di riserva, la caduta delle foglie e, primariamente, la fioritura) che si manifestano in specifiche stagioni dell'anno. Tale insieme di fenomeni va sotto il nome di 'fotoperiodismo' perché queste risposte sono dovute alla capacità delle piante di percepire la particolare alternanza di periodo luminoso e periodo oscuro che si verifica. Negli anni Venti del Novecento si scoprì che le piante fiorivano non solo a seguito del lavoro fotosintetico, ma anche per essere state coltivate, per un certo periodo di tempo, in giorni caratterizzati da durate assai precise delle fasi luminose e oscure. La classificazione delle piante a seconda delle loro risposte viene solitamente fatta in base alla fioritura, ma molti altri aspetti del differenziamento sono influenzati dalla durata del giorno. Si distinguono così piante a giorno corto e piante a giorno lungo e tutta una serie di situazioni intermedie. Le piante in realtà percepiscono la lunghezza del giorno misurando la durata della notte ed è la foglia il sito di percezione dello stimolo fotoperiodico. A seguito di questo stimolo si forma una sostanza che, migrando nell'apice dei germogli, li induce a fiorire.
La fioritura può essere stimolata, in certe specie, anche da un periodo di basse temperature (1÷12 °C). È nota la vernalizzazione come trattamento a freddo imposto a semi o piante per indurre la fioritura. In questo caso il sito di percezione dello stimolo, diversamente dal fotoperiodo, è l'apice del germoglio.
Altro fenomeno indotto dalla temperatura è la dormienza. In ambienti in cui le piante vivono per diverse settimane o per mesi a temperature prossime al di sotto del punto di congelamento, le gemme restano vive nonostante venga ridotta moltissimo la loro attività metabolica: divengono cioè gemme dormienti, così come i semi, in queste stesse condizioni, restano dormienti, cioè incapaci di germinare. I meccanismi molecolari che impediscono ai semi di germinare sono molteplici, dal potenziale osmotico dei tessuti circostanti, alla presenza di sostanze inibitrici anche di natura ormonale oppure alla richiesta di un periodo di specifiche temperature. Meccanismi simili operano nella dormienza delle gemme con una frequente partecipazione anche del fotoperiodo.
I molteplici processi metabolici che hanno luogo contemporaneamente nelle cellule, così come i vari processi fisiologici che si svolgono a un tempo in tutti gli organismi viventi, sono finemente regolati. In altre parole la totalità di questi eventi si deve susseguire in modo ben coordinato affinché l'organismo possa vivere senza scompensi. Vi deve quindi essere uno scambio di segnali interni all'organismo, con una catena costituita da stimolo, percezione e risposta.
L'elemento della percezione ha sostanzialmente sempre la stessa natura: si tratta di proteine. Gli stimoli possono essere invece di natura fisica o chimica (tra di essi, gli ormoni). La risposta si articola in una complessa cascata di eventi biochimici chiamata 'trasduzione del segnale' all'interno della quale possono ritrovarsi di nuovo gli ormoni. Gli ormoni, prima di essere considerati anche nelle piante, sono stati scoperti negli animali dove furono identificati specifici organi, le ghiandole endocrine, capaci di sintetizzarli in quantità estremamente ridotte e riversarli nel sangue. In questo modo, gli ormoni raggiungono qualsiasi punto dell'organismo, producendo effetti particolari e mirati. Durante gli anni Trenta del Novecento, si ottennero le prime evidenze scientifiche della presenza degli ormoni nei vegetali. Tuttavia il sistema ormonale delle piante presenta sostanziali differenze, dovute alla minore specializzazione in organi (radici, fusto, foglie, fiori, frutti), allo sviluppo principalmente superficiale e all'immobilità. A questa minore complessità morfologica corrisponde un sistema di regolazione meno elaborato, per il quale raramente si rinviene una specificità di produzione, come pure una specificità di azione. Inoltre, risulta assente un sistema riferibile a quello nervoso degli animali, basato su impulsi elettrici.
Molti processi fisiologici complessi, quali la crescita e la divisione cellulare, la fioritura, la dormienza, la senescenza, la maturazione ecc., richiedono la contemporanea presenza di pressoché tutte le classi ormonali note, al punto che si potrebbe pensare a una totale assenza della loro specificità di azione. Tuttavia, se si esaminano risposte fisiologiche circoscritte a tessuti particolari, allora si nota anche una elevata specificità. Pertanto gli ormoni delle piante, pur causando talora effetti specialistici a livello tissutale, sono di fatto polivalenti; i processi fisiologici sono regolati dalla funzione ormonale nella sua globalità, anziché da singoli ormoni, come accade, in modo più evidente, negli animali.
Gli ormoni rinvenuti nelle piante sono le auxine, le gibberelline, le citochinine; a ciascuna di queste classi appartengono molte molecole con azione ormonale. Altre sostanze ormonali sono l'acido abscissico, l'etilene, l'acido jasmonico e i brassinosteroidi. Inoltre, si hanno anche evidenze sperimentali circa l'esistenza nelle piante di altre sostanze ormonali, ma la loro natura non è chiara al momento.
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Tavola I
Lo studio delle piante ha spesso portato a importanti scoperte scientifiche, il cui valore è esteso alla biologia in senso ampio. Basti ricordare le scoperte di Gregor Mendel sull’ereditarietà dei caratteri, alla base della moderna genetica, o la più recente scoperta dei trasposoni a opera di Barbara McClintock, che per questi studi ha ricevuto il Premio Nobel nel 1983. Negli ultimi anni i ricercatori hanno concentrato i propri sforzi nello studio delle funzioni geniche delle piante. L’obiettivo è la comprensione del ruolo di ciascuno delle decine di migliaia di geni che compongono il genoma delle piante: ogni gene codifica per specifiche proteine, con un ruolo, per esempio nella fotosintesi, nell’assorbimento delle sostanze nutrienti, nella percezione dei segnali luminosi (esistono numerosi geni che codificano per ‘varianti’ del fitocromo, la proteina responsabile della percezione dei segnali luminosi che portano molte piante alla fioritura). I geni che compongono il genoma di una pianta sono molti, almeno 25.000 nella specie vegetale più studiata nei laboratori di tutto il mondo: Arabidopsis thaliana, una pianta erbacea della famiglia delle Brassicacee. Questa piccola pianta alta pochi centimetri, con soli cinque cromosomi, costituisce il sistema modello per migliaia di ricercatori in tutto il mondo, che ne sfruttano la semplicità con la quale è possibile ottenere mutanti, incroci e piante transgeniche. A. thaliana è tipica delle regioni temperate dell’emisfero boreale e cresce spontanea su terreni incolti e aridi. Diverse specie appartengono al genere Arabidopsis, ma A. thaliana, che fu scoperta nel XVI sec. sulle montagne di Harz, in Germania, da Johannes Thal è la più conosciuta e la più impiegata ai fini della ricerca. Il suo genoma è organizzato in cinque cromosomi e risulta piccolo rispetto a quello delle maggiori specie di interesse agronomico quali, per esempio, riso, pomodoro, mais e frumento, i cui genomi sono rispettivamente tre, sette, venti e centoventi volte più grandi. Le regioni genomiche sequenziate contengono 25.498 geni. Le funzioni di circa il 69 % dei geni sono state classificate in base a similarità di sequenza con proteine a funzione nota di altri organismi (se un gene con una sequenza simile a quello di Arabidopsis è stato studiato, per es., nell’uomo, e codifica per un particolare enzima, allora si assume che anche nella pianta la funzione possa essere simile). Solo il 9 % dei geni è stato caratterizzato sperimentalmente ed è quindi certa la funzione del gene nel sistema vegetale. Il restante 30 % dei 25.498 prodotti genici, comprendente sia proteine vegetali specifiche sia proteine con similarità a geni di altri organismi la cui funzione non è ancora nota, non è stato assegnato ad alcuna categoria funzionale. Contrariamente ad altri membri della stessa famiglia, quali ravanello, cavolfiore, verza e rapa, Arabidopsis non riveste interesse di tipo agronomico, ma rappresenta la pianta modello per gli studi di fisiologia e genetica vegetale.
Si sviluppa e risponde a stress e malattie in maniera molto simile alla maggior parte delle piante coltivate. Ha un ciclo vitale, da seme a seme, molto breve, e una singola pianta è in grado di produrre fino a 10.000 semi. Ha dimensioni molto ridotte (0,5 cm di altezza), prestandosi dunque bene a esperimenti genetici su ampia scala. In pochi anni, dunque, si è formata una comunità scientifica internazionale impegnata nello studio di questa pianta, rappresentando una svolta significativa nel campo della ricerca vegetale. L’interesse crebbe enormemente all’inizio degli anni Ottanta con la pubblicazione di numerosi articoli con la determinazione della prima mappa dettagliata dei suoi cromosomi, con la dimostrazione che Arabidopsis aveva un genoma piccolo e quindi adatto per analisi genetiche e con la realizzazione di protocolli di produzione di Arabidopsis transgeniche. Negli anni Novanta è diventata la pianta modello per gli studi di fisiologia, biochimica e genetica vegetale. Con l’attivazione nel 1996 dell’Arabidopsis genome initiative (AGI), che ha coinvolto 15 laboratori tra Europa, Stati Uniti e Giappone, si è arrivati alla pubblicazione nel 1999 della sequenza dei cromosomi 2 e 4 per finire nel dicembre 2000 con la sequenza completa dei cromosomi 1, 3 e 5. A. thaliana rappresenta il primo organismo vegetale del quale è stato completato il sequenziamento del genoma, cui è seguito il sequenziamento di una importante specie coltivata, il riso. Il sequenziamento del genoma di Arabidopsis ha colmato in parte il gap che separa la biologia animale da quella vegetale. La conoscenza della sequenza del genoma ha infatti consentito lo sviluppo di strumenti per la genomica funzionale, cioè lo studio della funzione dei singoli geni componenti il genoma. Sono infatti disponibili collezioni di mutanti di Arabidopsis: raccolte di semi in cui ciascun lotto è caratterizzato da semi il cui genoma è identico a quello di Arabidopsis ma con almeno una mutazione in uno specifico gene. La presenza della mutazione può portare a inattivare il gene stesso e l’analisi della fisiologia della pianta mutata consente di assegnare una funzione al gene mutato. Per esempio, se una mutazione in un particolare gene causa nanismo nelle piante, con la mutazione è possibile assegnare un generico ruolo ‘di crescita’ al gene in questione, ma ulteriori studi possono rivelare che il gene codifica per un enzima indispensabile per la sintesi dei brassinosteroidi, ormoni vegetali importanti nella crescita delle piante. La mutazione, nella sequenza genica codificante per l’enzima che consente la sintesi dei brassinosteroidi, causa l’assenza di queste sostanze ormonali e quindi la pianta mostra una crescita stentata. Anche le gibberelline sono indispensabili per la crescita delle piante e mutazioni nei geni codificanti per enzimi della via biosintetica delle gibberelline causano nanismo, reversibile se alle piante mutanti viene somministrato l’ormone. Altre mutazioni possono causare una inaspettata suscettibilità delle piante alle malattie: il gene in questo caso conferisce resistenza alle malattie e quindi la sua disattivazione provoca ipersensibilità alle malattie stesse. L’identificazione delle funzioni geniche crea i presupposti per il miglioramento genetico delle piante coltivate, tramite incrocio o per mezzo delle più moderne tecniche biotecnologiche. Il progresso nella conoscenza delle funzioni dei geni delle piante consentirà in futuro di ottenere varietà vegetali con migliori caratteristiche nutrizionali, maggiore resistenza alle malattie (quindi minori esigenze di trattamenti con fitofarmaci) e più spiccata adattabilità alle sempre più mutevoli condizioni ambientali e climatiche.