FIRDUSI
Poeta persiano del sec. IV dell'ègira (X-XI d. C.). I dati biografici, abbondanti nella tradizione storico-letteraria persiana, sono spesso in contraddizione fra loro e con le notizie ricavabili dall'opera stessa del poeta, che resta la principale e più sicura, per quanto magra fonte della sua vita. Lo stesso vero nome non è sicuro (Manṣūr? Aḥmad?), certo è invece il patronimico Abū l-Qāsim; Firdūsī (Firdawsī) è solo il nome poetico, col quale è divenuto famoso. Nacque nella città o nel territorio di Ṭūs nel Khorāsān, verso il 323 o 324 èg. (935-36 d. C.), da famiglia di piccola nobiltà terriera, e a Ṭūs dové comporre buona parte dello Shāhnāmeh, che gli costò, a quanto egli afferma, 30 o 35 anni di lavoro, e che nella sua forma definitiva fu da lui presentato a Ghaznah al sultano turco Maḥmūd nel 400 èg. (1010 d. C.). Ma la ricompensa avutane fu assai inferiore alla sua speranza, e il malcontento di Firdusi, trapelato sino al sultano, insieme con le calunnie e con le accuse di eresia sciita mosse da cortigiani e rivali invidiosi, provocò l'ira di Maḥmūd e la fuga del poeta, che si rifugiò dapprima a Harāh, poi nel Ṭabaristān presso l'Ispahbad Shahriyār; questi lo accolse e lo beneficò, ma al tempo stesso lo indusse a non dar corso a una sanguinosa satira da lui allora composta contro il sultano, a ritrattazione delusa di tutte le lodi prodigategli nel poema; satira che però ci è stata egualmente conservata assieme allo Shāhnāmeh.
Dopo aver passato qualche tempo nel ‛Irāq o nel Khūzistān, dove compose per il sultano buwayhide Bahā' ad-dawlah (o per il suo figlio Sulṭān ad-dawlah) l'altro suo minore poema Yūsuf u Zalīkhā, il vecchio poeta tornò alla sua città natale, e quivi morì e fu sepolto, probabilmente nel 411 èg. (1020-21 d. C.), prima che gli potessero giungere i tardivi doni di Maḥmūd, che la crescente fama del poeta da lui disprezzato dové indurre a una riparazione. I particolari ricamati dai biografi orientali (la coincidenza fra l'entrata in Ṭūs dell'ambasceria riparatrice e l'uscita per un'altra porta della salma di F., ecc.) su questo come su altri punti della sua vita, quali la presentazione alla corte di Ghaznah e la disgrazia presso Maḥmūd, hanno ricinto d'un suggestivo alone di leggenda la figura del maggior epico persiano, e gli hanno dato fama anche in Occidente (vedi il Firdusi del Romancero heiniano), ma non reggono alla critica, e neanche alla semplice verosimiglianza.
A prescindere da poche odi e frammenti lirici, e dal Yūsuf u Zalīkhā, di cui sarà dato cenno in seguito, il nome di F. è legato allo Shāhnāmeh ("Libro dei Re"), grande poema epico di circa 50.000 versi (la grande incertezza del testo secondo i varî manoscritti e le indubbie e copiose interpolazioni rendono il numero molto oscillante), in cui egli verseggiò e redasse in forma definitiva tutta la tradizione epica dell'Īrān. Egli vi cominciò a lavorare in età già matura, e lo condusse a termine in una prima redazione nel 389 èg. (999 d. C.), dedicandolo a un tal Aḥmad ibn Muhammad ibn Abī Bakr di Khālangiān. Viene così a cadere la versione secondo cui sarebbe stato il sultano Maḥmūd a commettergli la raccolta e il verseggiamento dell'epopea persiana, mentre i rapporti fra il sultano e F. datano di dieci anni più tardi, allorché il poeta gli presentò nella redazione definitiva l'opera sua. Essa canta, inquadrata nei successivi regni di 50 re, tutta la storia mitica e reale dell'Īrān, dalla creazione del mondo sino alla caduta dell'impero sāsānide per opera degli Arabi e alla morte dell'ultimo sovrano sāsānide Yezdegerd III (651 o 652 d. C.).
Al primo uomo e primo re Gayūmarth succede il nipote Hōsheng, celebrato come apportatore di civiltà nella vita primitiva, scopritore del fuoco e del ferro, fondatore dell'agricoltura, vincitore dei Devi o demoni malvagi. Gemshīd, secondo successore di Hōsheng, cade vittima dell'arabo usurpatore Ḍaḥḥāk, che però è a sua volta vinto e incatenato sul monte Demāvend dal fabbro Kāveh e dall'eroe Ferīdūn, che ascende al trono. La divisione del regno fatta da questo fra i suoi tre figli, Salm, Tūr ed Ērāǵ, e l'uccisione di Ērāǵ, cui era toccato l'Īrān, da parte dei fratelli invidiosi, dà origine alla grande scissione e inimicizia fra Irani e Turani (i discendenti di Tūr), attorno a cui si svolge tutta la successiva trama del poema. Il re Mīnūcihr vendica il padre Ērāǵ, ma con ciò non si chiude l'odio fra le due nazioni; campioni dell'Īrān in questa secolare lotta si dimostrano i principi del Segestān, Sām, Zāl, Rustem, divenuti le più popolari figure della leggenda iranica (sebbene siano estranei, salvo forse il primo, al suo stadio più antico, quello dell'Avestā), e le cui gesta, specie quelle di Rustem, sono cantate nelle più famose e alte pagine del poema. Sul trono iranico, alla primitiva dinastia dei Pēshdād succede quella dei Kay, con Kay Qobād, Kay Kāvus, Kay Khusrev, Lohrāsp e Gushtāsp. Sotto di essi divampa ancora la guerra tra Īrān e Tūrān, riattizzata dall'uccisione compiuta dal fiero re tūrānico Afrāsyāb del proprio genero iranico Siyāvish, figlio di Kay Kāvus, sino a che sotto Khusrev gl'Irani ne traggono vendetta, debellando e uccidendo Afrāsyāb. Col re Gushtāsp il profeta Zoroastro introduce nell'Īrān la sua religione, sostenuta dal re e dal suo eroico figlio Isfandyār contro gl'infedeli Turani e contro lo stesso Rustem, che solo in fine della lunghissima sua vita, spento a tradimento dal fratellastro Sheghād, abbraccia la nuova fede (è riconoscibile a questo punto il saldamento meccanico di due cicli, l'uno più antico, di cui Rustem, benché non facente parte del primitivo fondo mitico, è il maggior eroe, l'altro più recente, elaborato sotto influsso sacerdotale mazdeo, che ha in Isfandyār il suo campione per la fede, quasi contrapposto all'idolatra Rustem). Alla storia mitica sinora svolta s'innesta senza interruzione quella romanzesca ed epicamente atteggiata di Dārā (Dario) e Iskandar (Alessandro, fatto figlio di una principessa persiana e quindi iranizzato), degli Arsacidi, dei quali però, come degli stessi Achemenidi, l'epos non serba alcun distinto ricordo, e dei Sāsānidi, il cui avvento con Ardashīr è narrato con tratti del tutto romanzeschi che ricordano la giovinezza e l'avvento al trono di Ciro. L'impero sāsānide, le sue lotte con i Rūm (Romani e Bizantini), la grande figura del savio Cosroe Anūsharwān, del cavalleresco Bahrām Gōr, dell'usurpatore Bahrām Ciōbīn, l'invasione araba, la battaglia di Qādisiyyah che infranse lo stato nazionale persiano, e la triste fine dell'ultimo sāsānide conducono il poema alla fine, all'exegi monumentum del poeta, consapevole della grandiosa opera compiuta.
Tale, in rapidissimo riassunto, la materia dell'epos firdusiano, vero fiume reale in cui confluisce una tradizione letteraria e religiosa più volte secolare. Giacché, in quanto pura materia, mito e storia nelle grandi linee e anche in molti particolari non appartengono affatto a Firdusi: per quanto egli voglia spesso mostrare di seguire tradizioni orali, di cui sarebbero stati depositarî i dihqān, o nobili terrieri alla cui classe egli stesso apparteneva, altri accenni di lui e la testimonianza di fededegna tradizione mostrano come egli abbia soprattutto seguito una fonte scritta prosastica neopersiana che raccoglieva e sistemava in ordinato racconto questo patrimonio storico-leggendario dell'antica Persia. Quest'opera in prosa, andata perduta dinnanzi alla straordinaria fortuna della sua elaborazione poetica, pare sia stata redatta appunto in Ṭūs, patria del poeta, negli anni della sua giovinezza (è tramandata la data del 346 èg., 957-58 d. C.), a cura di quattro dotti zoroastriani, per il signore della città Abū Manṣūr ibn ‛Abd ar-razzāq; e già il poeta Daqīqī (v.) aveva intrapreso a verseggiarla, quando morì prematuramente, lasciando solo un frammento d'un migliaio di versi, sulla predicazione di Zoroastro accolta dal re Gushtāsp, incorporati tal quali nel suo poema da Firdusi, pur con un giudizio non troppo benevolo per il suo predecessore. Ma l'immediata fonte di Firdusi, la quale aveva reso accessibile alla nuova società e cultura neopersiana il patrimonio epico nazionale, fu a sua volta compilata su precedenti raccolte pehleviche, la più nota delle quali, redatta col titolo di Khodāynāmak (=Shāhnāmeh) sulla fine dell'epoca sāsānidica, fu nel sec. VIII d. C. tradotta in arabo da Ibn al-Muqaffa‛, e divenne una delle principali fonti della storiografia e letteratura araba sull'antica Persia. La coincidenza fra il racconto firdusiano e le notizie, da esso direttamente indipendenti e anche anteriori, che gli autori arabi dei primi secoli ci dànno sulla leggenda e storia persiana, ci permettono di risalire al Khodāynāmak (oggi perduto sia nel testo sia nella traduzione araba) e a contemporanee raccolte analoghe quale comune fonte e primo ricostruibile anello di quella tradizione che si scinde da un lato nella storiografia e aneddotica araba, dall'altro nel poema di Firdusi. Ma la catena ideale di questa tradizione risale ancora più su, attraverso l'età sāsānidica, di cui si conservano due racconti epico-romanzeschi di contenuto affine a episodî dello Shāhnāmeh, e, superando il baratro dell'epoca ellenistica e arsacidica, sino ai più antichi documenti della civiltà e vita religiosa iranica, alle più antiche parti dell'Avestā. Tutta la prima parte dello Shāhnāmeh, i nomi e le gesta dei mitici re ed eroi dell'Īrān, è già in germe nell'Avestā, che oltre al primo uomo Gayūmarth, conosce ad esempio Hōsheng (Haoshyaṅha), Ferīdūn (Thraētaona), Mīnūcihr (Manuscithra), Sām (Kereçāçpa?), Gushtāsp (Vīstāçpa) e permette una ricostruzione della mitica protostoria dell'Īrān singolarmente coincidente con quella del Libro dei Re firdusiano. Ma anche le parti più recenti dell'epos, come la storia di Alessandro, sostanzialmente derivante dal romanzo dello Pseudo-Callistene, e quella di Ardashīr, concordante col pehlevico Kārnāmak-i Ardashīr-i Pāpakān, uno dei due racconti mediopersiani giunti fino a noi, mostrano già fissata, elaborata sin nei particolari su testi in gran parte perduti ma abbastanza sicuramente congetturabili, tutta la trama del poema di F.
Agli effetti artistici, più che l'indagine analitica su quanto F. abbia aggiunto qua e là (e certo in più punti egli ha aggiunto e modificato e rifuso) alle sue fonti scritte, e alla principale fra queste, lo Shāhnāmeh prosastico di Ṭūs, giova esaminare con che spirito e con quali risultati egli abbia rivissuto tutta questa materia. Non è infatti mancato fra gli studiosi europei (Browne) chi ritenne che la fama poetica di F. fosse dovuta alla spiegabile esaltazione del sentimento nazionale persiano per il cantore della propria antica storia, a prescindere dall'interesse e suggestione che questa grandiosa sistemazione, unica a noi giunta, del patrimonio leggendario iranico può avere per gli studiosi: avremmo avuto cioè ancora una volta, nell'estimazione del poeta, una confusione fra valori culturali e valori artistici. Ora non si può negare che l'immenso poema mal regga a una lettura continuata, e sia assai più gustabile in singoli episodî, in parti staccate; ma inconfondibile è il motivo poetico che da capo a fondo lo pervade e ne costituisce il fascino, oltre ogni freddo interesse antiquario: esso sta nell'idealizzazione che F. ha fatto della bella età eroica della patria, con animo sostanzialmente estraneo alla religione e civiltà musulmane a cui apparteneva, e tutto dato sentimentalmente a quel mondo delle vaghe storie (dāstān) che la tradizione gli narrava e la sua fantasia commossa riecheggiava e fissava nel verso. Questo poetico rimpianto del tardi nato, dell'epigono vivente in età mutata, verso i magnanimi heroes, nati melioribus annis, fa veramente vibrare il tono epico del poema, ne scioglie per lo più le figure da una certa rigidità uniforme da cui certo non sempre si salvano, dà vita e carattere ai singoli eroi, anima il freddo luccichio delle descrizioni di guerre e conviti (razm u bazm, motivi fondamentali di questa e si può dire di ogni epopea), su cui F. versa la smagliante se pur talora monotona e stilizzata policromia della sua fantasia orientale. In complesso, par giusto l'ormai comune giudizio che considera la prima parte, più propriamente mitica, come la più pregevole artisticamente, mentre la seconda, con le sue storie favolose di Alessandro, Arsacidi e Sassanidi, pur non mancando di splendidi episodî, cade talora nella fredda cronaca rimata e rallenta e diluisce la narrazione epica con copiosi brani parenetici, quali i "discorsi del trono" dei sovrani sāsānidi. E in seno alla prima parte stessa, episodî come quello di Kāveh, Ferīdūn e Ḍaḥḥāk, gli amori di Zāl e Rūdābeh, la battaglia di Sām col drago, le avventure di Rustem nel Māzandarān, il rinvenimento di Khusrev, e la sua finale assunzione in cielo, mentre i suoi paladini rimangono sepolti sotto una bufera di neve, palpitano di alta e vigorosa poesia, e sono degni degli sforzi degli orientalisti che con ripetuti tentativi hanno tentato di volgarizzarli e farne patrimonio comune della letteratura mondiale.
La lingua del poema è il neopersiano, già pienamente formato e sollevato da Rūdaghī, Daqīqī e dagli altri poeti sāmānidi a dignità letteraria (occorre appena ricordare che F. fu certo del tutto ignaro del mediopersiano o pehlevico, la cui conoscenza si può solo attribuire, per l'età sua, a qualche dotto zoroastriano, come quelli che redassero lo Shāhnāmeh prosastico); l'elemento lessicale arabo vi è scarso, a differenza di quel che già accade nella lirica, e andrà sempre più crescendo in seguito anche nell'epica narrativa e didattica. Nonostante la relativa semplicità dello stile epico, il ricco vocabolario e una certa lassezza e ambiguità sintattica che lascia spesso incerto il collegamento delle parole fra loro rendono talora abbastanza difficile l'interpretazione del testo. Il metro, probabilmente già tradizionale per la poesia narrativa, è l'arabo mutaqārib (⌣-- / ⌣-- / ⌣-- /⌣- bis), due tetrapodie bacchiche catalettiche, rimate fra loro, la cui rigida osservanza metrica rende spesso necessaria qualche violenza slla lingua, con soppressioni di vocali, inserzioni o eliminazioni irregolari di iẓāfet, ecc.
Nel poema in 10.000 versi di Yūsuf u Zalīkhā, composto come vedemmo in tarda età, il vecchio poeta volle quasi pagare un tributo alla leggenda e alla fede islamica, troppo da lui posposta nei suoi verdi anni a quello stesso mondo epico-narrativo iranico che aveva un giorno, attraverso le narrazioni di an-Naḍr ibn al-Ḥārith, fatto incomoda concorrenza alla predicazione meccana di Maometto. Il vecchio motivo biblico della tentata seduzione di Giuseppe in Egitto, sviluppato e contaminato nella XII sūra del Corano (il nome della moglie di Putifarre, Zalīkhā o Zulaikhā, è però della tradizione postcoranica), fu ripreso da F. che vi premise un'aperta e amara sconfessione dei suoi antichi amori, dicendosi pentito d'aver consumato la vita a celebrare gli eroi infedeli, con così poco frutto materiale e morale. Ma per quanto sia da apprezzare questo tardo frutto del genio firdusiano, in cui il poeta profuse le risorse d'una esperta tecnica verbale e d'un vigoroso talento psicologico e descrittivo, dando inoltre voga, insieme col contemporaneo Fakhr ad-dīn As‛ad al-Giurgiānī, al genere del poema romanzesco che tanta fortuna doveva avere nella letteratura persiana, per orientali e occidentali F. è rimasto il poeta del Libro dei Re. Egli è l'ultima voce genuina dell'epos nazionale iranico, i cui echi risuonano senza confronto contaminati, sbiaditi e deformati nella posteriore letteratura, di tutt'altri spiriti se anche di forme talora ricalcate sull'insigne modello. E pur riconoscendo tutti i legami che uno spregiudicato esame ritrova tra F. e i suoi contemporanei ed epigoni, è forse più esatto considerare il poeta quale punto d'arrivo della venerabile tradizione antica e mediopersiana, che non come primo grande rappresentante della nuova letteratura persiana musulmana.
Ediz e traduz.: I numerosi mss. dello Shāhnāmeh risalgono al massimo ai secoli XIII e XIV. La prima edizione a stampa fu quella del Lumsden, rimasta al 1° volume, Calcutta 1811. Edizioni complete di Turner Macan, Calcutta 1829, 4 voll. (da cui dipendono le varie litografie orientali) e J. Mohl, Parigi 1838-78, 7 voll., testo e traduzione, questa poi ristampata a parte (cfr. le importanti osservazioni al 1° volume, di Fr. Rückert, in Zeitsch. d. deutschen Morgenl. Gesell., VIII, 239-329, X, 127-282); l'edizione con apparato critico di Vullers e Landauer, Leida 1877-84, 3 voll., arriva solo sino ad Alessandro. Più recente edizione orientale di Amūzandah Shīrmard, Bombay 1914. Ottima antologia firdusiana con note e vocabolario, in I. Pizzi, Manuale della lingua persiana, Lipsia 1883, 2ª ed. 1891. Manca un buon vocabolario scientifico firdusiano; il lessico shāhnāmiano redatto in turco da ‛Abd al-Qādir al-Baghdādī (sec. XVII) è stato edito dal Salemann, Pietroburgo 1895. Vedi ora Wilson, Contributions to the lexicography of the Shāhnāmah, in Islamic Culture, III (1929), pp. 612-36; V (1931), pp. 282-319; VI (1932), pp. 233-260.
Traduzioni complete: in prosa francese di Mohl (col testo, e poi a parte, Parigi 1876-78, 7 voll.), in versi italiani di I. Pizzi, Torino 1886-88, 8 voll. (ed. ridotta in 2 voll., Torino 1915), in versi inglesi di A. G. ed E. Warner, Londra 1905-1924, 9 voll. Delle traduzioni parziali vanno ricordate soprattutto quelle tedesche dello Schack, Heldensagen aus dem Schah Namah, Stoccarda 1877, e del Rückert, Firdosi's Königsbuch, ed. postuma completa a cura di C. A. Bayer, Berlino 1890-95, 3 voll. Edizione di Yūsuf u Zalīkhā di H. Ethé, in Anecdota Oxoniensia, Oxford 1908; traduzione di O. Schlechta-Wssherd, Vienna 1889.
Bibl.: Fondamentale Th. Nöldeke, Das iranische Nationalepos, in Grundriss d. iranischen Philologie, Strasburgo 1896-1904, II, 131-211 (e 2ª ed. a parte, Berlino 1920); H. Ethé, ibid., 229-31; id., Firdûsî als Lyriker, in Sitzungsb. d. Bayr. Ak., 1872, pp. 275-304; 1873, pp. 623-653; id., Firdausi's Yūsuf und Zalīkhā, in Atti del VII congr. intern. Orient., Vienna 1889, sez. semitica, pp. 20-45; E. G. Browne, A literary history of Persia, II, Londra 1906, pp. 129-148; P. Horn, Geschichte d. persischen Litteratur, Lipsia 1901, 81-113; Fr. Spiegel, Avestā und Shāhnāmeh, in Zeitsch. d. deutsch. Morgenl. Gesellsch., XLV (1891), pp. 187-203; I. Pizzi, Storia della poesia persiana, II, Torino 1894, 41-76; id., Firdusi, Modena 1911.