fioco
Otto presenze nella Commedia e una nella Vita Nuova. E quasi sempre in rima, prevalentemente con poco e loco. Il ripetersi della successione poco-loco-fioco, nelle sue varie combinazioni, non implica riecheggiamenti emotivi o di altro tipo. Una precisa similarità è invece riscontrabile, attraverso la sola rima comune poco, tra i vv. 22-24 di If XXXIV e 121-123 di Pd XXXIII, gli uni e gli altri relativi all'insufficienza della parola umana a esprimere un'esperienza fuori dal comune. Nella storia editoriale ha avuto una notevole fortuna, in If XIV 3, la tarda variante roco (cfr. Petrocchi, ad l.), evidente esplicitazione ermeneutica, peraltro di dubbia consistenza.
F. è connesso, nella lingua coeva, all'idea di debolezza e di evanescenza sul piano fonico. Si ricordi " fiochetto e piano " di Cavalcanti O donna mia 3; cfr. inoltre Petrarca Rime CLXX 11, C. Rinuccini Io veggio ben là 7, ecc.
D. invece usufruisce di una grande libertà, trasferendo la stessa nozione in piani differenti e in un altro registro.
L'aggettivo è riferito esplicitamente alla voce e al suono, in contrapposizione con alto, in If III 27 (voci alte e fioche) e XXXI 13 (un alto corno / ... ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco: anche il tuono più rumoroso sarebbe diventato appena udibile al confronto).
Nella terza cantica, così densa di sollecitazioni metaforiche, dalla scarsa intensità della voce f. passa a significare l'inadeguatezza o l'oscurità del discorso, la sua non corrispondenza piena all'argomento. Perché quanto ha detto sia compreso dal poeta, s. Tommaso pone fra le altre una condizione: se le mie parole non son fioche (XI 133); ed è una condizione di non sicura attuabilità, visto che per arrivare a u' ben s'impingua il beato è passato attraverso l'esaltazione di s. Francesco, la figura di s. Domenico e la degenerazione dei domenicani, con giunture troppo ‛ rigide ' all'intelletto dell'ascoltatore: in questo senso le sue parole possono benissimo risuonare fioche.
Al momento di rappresentare il mistero della Trinità, resasi visibile nei tre giri / di tre colori e d'una contenenza (Pd XXXIII 116-117), il poeta avverte drammaticamente la sua impotenza a rendere quanto ancora gli rimane nella mente di ciò che ha visto (Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto!, v. 121), l'angoscia pur esaltante, per la sensazione che la percorre delle supreme altezze, di un esprimersi che è non solo limitato ma anche sbiadito.
Dinanzi alla figura di Lucifero, il poeta si trova in una condizione tutta particolare e indicibile: Com'io divenni allor gelato e fioco, / nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, / però ch 'ogne parlar sarebbe poco (If XXXIV 22). Per una sorta di livellamento interpretativo sul piano fonico, f. è stato ed è spesso spiegato come indicante l'affievolirsi della voce, l'incapacità di pronunziar verbo a causa dello spavento. Però la terzina successiva, che è chiaramente di commento, anche per la ripresa quasi puntuale qual io divenni (Io non mori' e non rimasi vivo; / pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, / qual. io divenni, d'uno e d'altro privo, vv. 25-27), porta a individuare su un piano diverso l'intendimento del poeta. Egli si sente in uno stato indefinibile tra la vita e la morte: f. non è il suono della sua voce, ma è egli stesso, sentendosi mancare le forze. Nello stesso senso non par dubbio che debba essere inteso l'era già fioco di If XIV 3, di regola spiegato " già taceva " o " aveva la voce ormai debole o arrochita ": Si tratterebbe di una didascalia, di una delle tante didascalie con cui il poeta puntualizza il concludersi delle varie battute. Ma esse di solito non hanno luogo quando la fine delle parole coincide con la fine del canto: la lunga pausa terminale tra i canti XIII e XIV suggerisce che il dannato ha smesso di parlare, e precisarlo subito dopo risulterebbe superfluo. D'altra parte non si può disgiungere l'esser f. del suicida dall'atto pietoso che compie il poeta rendendogli le sue fronde spante, un atto dolorosamente invocato dal dannato come in una richiesta di aiuto. Dopo lo strazio disonesto che hanno operato su di lui le cagne infernali e Iacopo da Sant'Andrea, e le parole pronunziate con foga e dominate dalla cupezza di memorie tragiche per lui e per la sua città, egli è ormai esausto, stremato di forze; e proprio in questo momento il poeta compie qualche cosa che, palesemente, per il dannato è di conforto e di sollievo.
Il traslato in campo visivo è chiaramente testimoniato dal fioco lume di If III 75. Meno evidente, ma non per questo meno sicura, l'attestazione di Vn XXIII 24 54: nel sogno angoscioso, premonitore della morte di Beatrice, al poeta sembra di vedere, su di uno sfondo pieno di terrore, in un'atmosfera resa tenebrosa dall'oscurarsi del sole, un uomo scolorito e fioco. Che col secondo aggettivo sia indicata la debolezza di voce, com'è pur sostenuto dall'autorevole chiosa Barbi-Maggini e prima ancora dal Casini, è contraddetto dal fatto che " il dire dell'uomo si sviluppa in tono interrogativo ed esclamativo, implicante sempre un certo grado di energia espressiva: Che fai? non sai novella? / morta è la donna tua, ch'era si bella! " (Pagliaro), mentre risulta molto più consóno alla scena che il poeta in preda all'incubo si veda davanti una figura pallida e indistinta, come un fantasma in una notte da apocalisse.
Su uno sfondo tenebroso, là dove 'l sol tace, è collocata anche l'apparizione di chi per lungo silenzio pareo fioco, cioè di Virgilio (If I 63). Il significato da dare a f., in questo luogo, dipende dal senso che si vuole attribuire a tutto il verso; ma ormai la critica è svincolata dalla pregiudiziale che l'aggettivo possa riferirsi nel testo di D. solo alla voce. La supposta fiocaggine di Virgilio (alla quale poteva darsi un senso plausibile solo in ambito allegorico: debolezza della voce della ragione al suo primo insorgere, o del cantore dell'Impero o dell'antica poesia latina, ecc.) occupa un posto considerevole nella letteratura dantesca, ma le relative discussioni hanno avuto l'unico risultato positivo di porre la necessità d'imboccare una nuova via. Comunque s'interpreti silenzio, è certo che come predicato di parea (" appariva ", " era visibile ", non " sembrava "), f. non può indicare che una qualità che si percepisce con gli occhi: in uno scenario reso opaco dall'assenza del sole la figura di Virgilio si presenta con contorni indefiniti, ed è perciò che D. si mostra incerto se egli sia od ombra od omo certo (v. 66). Il senso allegorico, qualunque sembri qui più congruo al testo, parte così da una precisa base letterale, che, come si sa, in D. è imprescindibile da ogni allegoria (Cv II I 8 e 11).
Bibl. - A. Fiammazzo, Di una terzina dantesca. Studio letterario, Udine 1885; R. Dragonetti, " Chi per lungo silenzio parea fioco ", in " Studi d. " XXXVIII (1961) 47-74; Pagliaro, Ulisse 25 ss., 32 ss. e n. 18; B. Porcelli, ‛ Chi per lungo silenzio parea fioco ' e il valore della parola nella ‛ Commedia ', in " Ausonia " XIX5 (1964) 32-38; R. Dragonetti, Le passage périlleux, in " Convivium " XXXIV 1-4 (1966) 29 ss.; F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla D.C., Firenze 1967, 114-115.