Finanza pubblica
I primi studi a carattere sistematico sui problemi della f. p. si possono far risalire all'inizio del sec. 18°, quando l'emergere degli Stati nazionali in Europa pose l'esigenza di una gestione più razionale delle entrate e delle spese pubbliche in funzione del consolidamento degli apparati amministrativi. Da allora tali studi hanno conosciuto una continua evoluzione teorica e, pur intrecciandosi con gli sviluppi dell'economia politica, si sono ben presto resi autonomi anche da quest'ultima. Tale processo evolutivo è illustrato nell'Enciclopedia italiana (v. finanza, XV, p. 386), dove si offre anche un'esposizione dei principi metodologici della 'scienza delle finanze' e una breve descrizione dell'evoluzione storica dei sistemi finanziari pubblici. Per un'introduzione ai temi generali di f. p., v. anche imposte e tasse (XVIII, p. 928), dove sono riportate una classificazione delle forme di prelievo fiscale e una descrizione dei fenomeni dell'evasione e della traslazione delle imposte.
Nel corso del sec. 20° la teoria della f. p. ha ampliato enormemente i suoi campi d'indagine. Uno degli sviluppi teorici di maggiore rilievo, che ha assunto centralità nel dibattito economico degli anni Sessanta e Settanta, riguardava l'utilizzo degli strumenti di f. p. per l'attuazione di politiche economiche volte al controllo dei cicli e delle fluttuazioni economiche. Negli anni Ottanta tali sviluppi sono stati tuttavia sottoposti a una revisione critica piuttosto serrata, incentrata sui problemi di redistribuzione intergenerazionale del reddito e sulla questione del rapporto tra sostenibilità del debito e crescita economica. L'evoluzione di questo dibattito e delle diverse posizioni teoriche che lo hanno accompagnato può essere ripercorsa nella voce debito pubblico (App. IV, i, p. 577; V, i, p. 797). Un terreno d'indagine molto importante per le teorie della f. p. è anche quello dei 'fallimenti del mercato' e degli interventi correttivi dello Stato, per cui v. benessere (App. III, i, p. 219; IV, i, 248) e regolamentazione (App. V, iv, p. 447). Si deve rilevare che la questione relativa alla tutela degli obiettivi di interesse collettivo è emersa, più di recente, anche nel caso delle politiche di privatizzazione, specie per quelle rivolte ai servizi di utilità pubblica. Per un approfondimento di tali argomenti, v. privatizzazione (App. V, iv, p. 268). Infine, tra i temi di maggiore rilievo che hanno interessato la teoria della f. p. dev'essere considerata la gestione delle politiche fiscali e di bilancio a fini di programmazione economica, argomento, questo, che è stato trattato e approfondito nelle voci bilancio (App. IV, i, p. 277) e sistemi di contabilità nazionale (App. V, iv, p. 806).
Per gli aspetti giuridico-istituzionali della f. p., gli elementi fondamentali della riforma del bilancio pubblico del 1978 - che ha portato all'introduzione dei bilanci pluriennali di competenza e di cassa e all'istituzione della legge finanziaria - sono illustrati nel lemma bilancio (App. V, i, p. 362). Per le questioni riguardanti il decentramento amministrativo, v. finanza locale (App. IV, i, p. 806; V, ii, p. 239) e finanza regionale (App. IV, i, p. 807, ripresa in regione, App. V, iv, p. 438). Infine, riguardo ai fondi strutturali europei e ai trasferimenti comunitari a favore delle Regioni e degli enti locali, v. unione europea (App. V, v, p. 648). *
Inquadramento generale
di Giuseppe Dallera
Evoluzione teorica della finanza pubblica
La f. p., intesa come economia del settore pubblico (amministrazioni pubbliche a più livelli, enti pubblici e imprese pubbliche), è stata identificata negli studi economici per più di un secolo con la scienza delle finanze (denominazione nata dalla Finanzwissenschaft tedesca). Nell'ultimo quarto del Novecento le impostazioni teoriche hanno subito mutamenti anche profondi dal punto di vista metodologico, la cui rilevanza è stata tale da portare a ridefinizioni dei contenuti e della denominazione stessa della materia.
La teoria tradizionale della f. p. si era basata sostanzialmente sull'analisi dei fallimenti del mercato e sulla tripartizione di R.A. Musgrave nei settori di efficienza allocativa, di distribuzione e di stabilizzazione: da un lato si studiavano i criteri di efficienza e di equità delle imposte (i principi del sacrificio e della capacità contributiva), integrati dalla teoria dei beni pubblici e della redistribuzione effettuata con imposte e spese, dall'altro si inquadravano i metodi di stabilizzazione macroeconomica nel modello keynesiano proposto dalla 'sintesi neoclassica'. Un filone importante, quello del public choice, nel quale si avviava lo studio di regole di decisione collettiva e di istituzioni politiche in prospettiva individualistica e utilitaristica, si era radicato nella f. p. con funzioni analitiche e precettistiche, che andavano dall'economia del benessere alla gestione del bilancio pubblico.
Negli anni Settanta la f. p. subisce una parziale trasformazione, forse non un'evoluzione, in economia pubblica (termine coniato da S.Ch. Kolm e L. Johansen verso la metà del precedente decennio). Adotta un'analisi di rigore formalistico che sfrutta le impostazioni dell'economia del benessere, e in particolare la teoria del second best, dalla quale, in base ai trade off tra efficienza ed equità, nasce una vasta letteratura su regole di decisione in economie con distorsioni e meccanismi incentivanti in situazioni non di ottimo paretiano, e nelle quali devono essere utilizzati strumenti distorsivi (imposte, tariffe, prezzi regolamentati di imprese private, sussidi ecc.). Si diffonde, anche nelle analisi tradizionali di f. p., la teoria dell'informazione asimmetrica. Rapporti tra governo e contribuenti/destinatari di spese pubbliche sono reinterpretati nei termini di un rapporto fra principale e agenti che è caratterizzato dall'esistenza di asimmetrie informative, le quali generano complesse relazioni e interazioni di carattere strategico.
Si assiste, negli studi di f. p., a una ripresa di temi degli anni Venti-Quaranta, in particolare vengono riconsiderate alcune idee di F.P. Ramsey e di W.S. Vickrey. Il premio Nobel per l'economia assegnato nel 1996 a J.A. Mirrlees e a Vickrey attesta l'importanza di queste impostazioni. Alcuni criteri chiave dell'analisi sono: l'efficienza come massimizzazione in second best; la neutralità (dall'antico concetto riferito alla dimensione/compensazione degli effetti di imposte e spese ad assenza-minimizzazione degli effetti di sostituzione); il costo-opportunità, vale a dire il costo alternativo di scelte pubbliche, applicato estensivamente; l'incentivazione, come schema logico di riferimento essenziale.
Le imposte ottime sui consumi e sui redditi
Nello studio delle imposte il momento di maggiore rilevanza è senz'altro rappresentato dalla teoria della tassazione ottima, indiretta e diretta, che ha visto una ripresa, a partire dal noto lavoro di P.A. Diamond e J.A. Mirrlees (1971), dei temi di F.P. Ramsey (1927) e A.C. Pigou (1928), che hanno trovato poi una trattazione sistematica nell'approccio basato sul concetto di second best. Rispetto alle precedenti analisi nel contesto di ottimo paretiano, si riconosce che non è possibile avere simultaneamente tutte le condizioni di ottimo, in quanto alcune di queste condizioni sono impossibili da raggiungere a causa di imperfezioni, così che nemmeno le altre sarebbero necessariamente desiderabili.
Anche se può apparire il prodotto di una rivoluzione formalista in 'crisi di astrazione', secondo una nota definizione di T.W. Hutchison, la teoria della tassazione ottima ha rappresentato un punto di svolta importante nello studio della teoria delle imposte. Le assunzioni semplificate e astratte hanno permesso di mantenere il discorso a un livello molto rigoroso. In sintesi, tale teoria spiega con quali imposte si può minimizzare l'eccesso di pressione aggregata quando il governo debba incassare un dato ammontare di gettito. Viene abbandonata l'idea tradizionale della neutralità delle imposte in somma fissa (nel senso che non danno effetti di sostituzione), non realizzabili come strumento pratico, e si studiano modalità di tassazione più realistiche, in second best, massimizzando una funzione di benessere sociale e tenendo separate le condizioni di efficienza da quelle di giustizia distributiva.
Alcune conclusioni della teoria delle imposte ottime indirette possono essere rapidamente richiamate: a) dato un livello di gettito, le aliquote delle imposte indirette che permettono di ottenerlo devono essere tali da ridurre nella stessa proporzione la domanda compensata di ogni bene di consumo; b) le aliquote delle imposte ottime devono essere inversamente proporzionali all'elasticità della domanda dei beni di consumo; c) i beni che sono più strettamente complementari con il tempo libero devono essere tassati relativamente di più, non potendosi tassare direttamente il tempo libero; quelli che sono sostituti del tempo libero vanno tassati relativamente di meno; d) l'uniformità delle aliquote delle imposte ad valorem è generalmente ottima solo in condizioni molto restrittive (per es., se tutti i beni fossero egualmente complementari con il tempo libero, o se l'offerta di lavoro fosse anelastica, o fosse uguale l'elasticità incrociata compensata di tutti i beni); e) non è efficiente tassare con le stesse aliquote il reddito di lavoro e il reddito di capitale; f) non è efficiente tassare imponibili che possono facilmente sfuggire o eludere l'imposta (per es., redditi e capitali finanziari caratterizzati da mobilità internazionale).
Per quanto riguarda la tassazione del reddito, la teoria della tassazione ottimale ha rilevato come la progressività ottima dell'imposta personale sul reddito delle persone fisiche abbia la caratteristica di avere aliquote marginali che a un certo punto decrescono (con la forma di progressione a U rovesciata delle aliquote marginali, pari a zero per i redditi più bassi e per quelli più elevati), così da non creare disincentivi al lavoro e alla produzione di reddito. La teoria ha pure mostrato le condizioni in cui è ottima la progressività lineare dell'imposta sul reddito. È indubbio che molti di questi risultati vadano contro le conclusioni tradizionali della scienza delle finanze. Si tratta, il più delle volte, di puntualizzazioni che sono solo apparentemente contraddittorie con quelle acquisite da tempo, e che si qualificano sulla base di assunzioni precise. Altri risultati interessanti della tassazione ottima (per es., nell'analisi costi-benefici, che i prezzi ombra del settore pubblico dovrebbero essere i prezzi di produzione del settore privato) hanno confermato l'importanza teorica di questo filone.
Al successo teorico dell'analisi della tassazione ottima in circa vent'anni, dall'inizio degli anni Settanta all'inizio degli anni Novanta, non è corrisposto un pari successo di indicazioni pratiche di riforma fiscale. Eppure, in quegli stessi anni, le legislazioni tributarie dei paesi industrializzati hanno registrato delle trasformazioni anche radicali, soprattutto in risposta alle distorsioni provocate sui sistemi stessi dalle forti pressioni inflazionistiche, con carattere ampiamente distorsivo. Nella seconda metà degli anni Settanta si assiste (per es. in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Svezia) a un recupero di idee favorevoli alla tassazione della spesa e all'estensione dell'imponibile dell'imposta sulle società. Progetti di imposte personali sulla spesa, sul cash flow e sul flusso di fondi delle società di capitali rappresentano un mutamento di impostazione che indica una crisi delle idee favorevoli alle imposte generali sul reddito nelle modalità tradizionali. Si diffondono posizioni favorevoli alla detassazione del risparmio, all'attenuazione, fino alla scomparsa in un'aliquota unica, della progressività formale dell'imposta sul reddito, all'indeducibilità degli interessi dall'imponibile dell'imposta sulle società, alla tassazione delle svalutazioni dei debiti, all'uniformità di trattamento tributario degli interessi, pubblici e privati. Le riforme diffuse in molti paesi confermano le tendenze agli ampliamenti degli imponibili e alla riduzione della progressività formale, insieme a un abbassamento generale della pressione. Questa tendenza è stata, ovviamente, meno pronunciata o addirittura contraddetta nei paesi con gravi problemi di disavanzo e di debito pubblico.
Ha avuto un buon successo il complesso di esperimenti che ha interessato i paesi scandinavi fin dalla seconda metà degli anni Ottanta, con l'introduzione delle cosiddette dual income tax: un'imposta progressiva sul reddito di lavoro combinata con un'imposta ad aliquota uniforme, e piuttosto bassa, sui redditi di capitale. Riprendendo idee che si possono far risalire fino al 19° secolo, in particolare a J.S. Mill, con queste riforme si tende ad attenuare gli effetti disincentivanti e le distorsioni delle tassazioni differenziate sui redditi di capitale, tentando contemporaneamente di ottenere la neutralità sul risparmio e il raggiungimento di qualche obiettivo equitativo.
Si è visto un forte sviluppo dell'analisi delle imposte sui redditi, soprattutto, e sui patrimoni finanziari. In questo campo, particolarmente, le imposte speciali sul reddito hanno ricevuto un'attenzione comprensibile, in quanto la definizione di nuovi imponibili, le esigenze di neutralità e le possibilità di elusione nei mercati interni e internazionali hanno fatto riflettere in modo molto attento sulla struttura e sugli effetti di eventuali nuove imposte.
Le istanze pratiche, in materia di redditi e capitali finanziari, sono state nettamente prevalenti. Perciò è comprensibile come, invece di approfondire per es. lo studio teorico degli effetti delle imposte sugli equilibri dei mercati finanziari, sul rischio, sulla composizione di portafoglio, sulle strategie di investimento, sugli intermediari, si siano piuttosto studiati i problemi pratici di armonizzazioni, interne e internazionali, delle imposte sui redditi finanziari e delle loro distorsioni sui movimenti di capitale, sui tassi di rendimento, sui cambi, sui movimenti e sulle diverse forme di gestione del risparmio. Tali ricerche sono andate avanti insieme agli approfondimenti sulle modalità di regolamentazione dei mercati finanziari e sulla tutela della concorrenza in tali mercati sempre sulla base della teoria dell'informazione. Un ruolo piuttosto limitato nelle analisi di f. p. l'hanno avuto le 'imposte ecologiche', più confinate al ruolo di meccanismi disincentivanti non molto raffinati, basati sulle tradizionali impostazioni 'alla Pigou' di controllo delle esternalità negative. Il modello di carbon tax (più in generale, sulle emissioni inquinanti), che è forse quello più di successo, ha ricevuto attenzione perché in grado di dare gettito sostitutivo di qualche imposta speciale e specifica sulla produzione, forse più che per la sua capacità di indurre mutamenti di tecnologia attraverso modifiche di prezzi relativi.
L'analisi dell'incidenza delle imposte
L'analisi degli effetti economici delle imposte non è stata recentemente così sviluppata come in precedenti periodi. La tradizionale impostazione degli studi sull'incidenza aveva assunto, come dati, modelli di comportamento delle imprese in equilibri parziali, vedendo poi come l'introduzione di un'imposta o la sostituzione di un'imposta con un'altra portassero modifiche agli equilibri, ai prezzi, alle quantità, al gettito. Alcune impostazioni più generali avevano tentato analisi di equilibrio generale, come il classico modello a due settori di A.C. Harberger (anni Sessanta), nato per l'imposta sul reddito delle società di capitali e poi esteso ad altre imposte; in seguito si sono avute complesse analisi in equilibrio generale con gli algoritmi di J. Shoven e J. Whalley (dai primi anni Settanta). In anni più recenti si sono visti dei tentativi di prospettare analisi intertemporali di incidenza in equilibrio generale, con modelli life cycle.
Nel complesso si può affermare che l'analisi dei processi di traslazione e dell'incidenza in equilibri parziali non ha avuto grossi sviluppi. Sono mancati approfondimenti che seguissero più recenti teorie dell'impresa (per es. la nuova economia industriale, i costi di transazione) e che utilizzassero più raffinati strumenti di analisi comportamentali delle imprese (la teoria dei giochi). Così hanno avuta scarsa applicazione, all'analisi dell'incidenza, sia le teorie postkeynesiane dell'impresa, in particolare con riferimento alle diverse modalità di mark up pricing, sia le teorie più recenti di organizzazione industriale (quelle che pongono in rilievo i vincoli contrattuali tra le componenti dell'impresa e il ruolo del coordinamento nell'organizzazione d'impresa) che pure ricorrono ampiamente allo schema principale/agente, con informazioni asimmetriche che devono essere organizzate e distribuite tra i diversi centri dell'impresa, sia infine quelle teorie, raccolte nella Nuova economia industriale, che danno rilievo alle strutture di produzione, alle modalità organizzative delle imprese che sono in grado di adattarsi in modo efficiente all'ambiente esterno e riescono ad aumentare, tramite comportamenti strategici, i loro poteri di mercato. È certamente vero che un'estensione dell'analisi economica delle imposte in queste direzioni avrebbe fornito un complemento illuminante delle conclusioni della tassazione ottimale.
Nonostante alcuni cenni nei lavori di qualche economista, il tema della relazione tra informazione asimmetrica, tassazione ottima e incidenza non è stato ancora affrontato. La complessità prevedibile è certamente di livello elevato, e probabilmente i rendimenti di una simile impostazione sono fortemente decrescenti.
Finanza pubblica e politica fiscale nelle recenti impostazioni macroeconomiche
Le analisi di f. p. in contesto macroeconomico si erano sviluppate secondo il modello strumenti-obiettivi di J. Tinbergen (anni Cinquanta-Sessanta), con il quale si attribuivano valori quantitativi a strumenti di politica economica (tra i quali le imposte e le spese pubbliche rappresentavano gli strumenti di politica fiscale) assegnati nel modo più efficiente al conseguimento di obiettivi, secondo criteri di una funzione di benessere sociale.
Ciò venne fatto con una molteplicità di modelli keynesiani, e soprattutto con la sintesi neoclassica prevalente. Ne conseguì l'analisi dei moltiplicatori, positivi e negativi, di componenti diverse della spesa pubblica e di imposte generali sui redditi e sui consumi. Negli anni Settanta il modello subì una crisi sia pratica (cicli frequenti, inflazione incontrollabile, bilancia dei pagamenti e domanda aggregata fuori controllo), sia teorica (aspettative razionali, teoria di R. Lucas, Nuova macroeconomia classica). La scuola delle aspettative razionali e la Nuova macroeconomia classica dagli anni Settanta hanno condotto duri attacchi in primo luogo all'impostazione tradizionale della politica monetaria, ma anche della politica fiscale. Il processo di formazione delle aspettative coinvolge operatori che massimizzano le informazioni disponibili: gli operatori conoscono il funzionamento del sistema e sono in grado di anticipare gli interventi pubblici di politica economica, di modo che quest'ultima sia sistematicamente anticipata e non possa avere effetti sulle variabili reali. La stabilizzazione è inefficace perché scontata. Un ruolo positivo può essere riservato solo agli stabilizzatori automatici. Gli stessi interventi possono avere effetti reali solo se sono inattesi e imprevedibili, tali da 'ingannare' gli operatori. Si è sottolineata, in questo contesto, l'importanza della credibilità e degli effetti di annuncio del governo. La Nuova macroeconomia classica, assumendo mercati perfettamente concorrenziali e in equilibrio, ha pure contribuito a contestare e togliere fondamenti teorici agli interventi di politica fiscale.
Un modello interessante, dell'inizio degli anni Ottanta, è stato formulato da J. Meade, nel solco keynesiano. Ma mentre i keynesiani 'ortodossi' proponevano le politiche di gestione della domanda aggregata per raggiungere la piena occupazione, e le politiche dei redditi erano mirate a contenere l'inflazione, Meade propone invece che la contrattazione salariale, nel sistema delle relazioni industriali, sia preliminare e destinata a realizzare la piena occupazione. Successivamente il governo deve attuare politiche di gestione della domanda per controllare l'inflazione, con imposte anti-inflazionistiche in alternativa al controllo dei prezzi. Il modello di Meade non ha avuto seguito, così come hanno destato scarso interesse tra gli studiosi i modelli di squilibrio generale, nei quali pure si è tentato di inserire qualche indicazione di politica fiscale. Più di recente si è affermata una Nuova economia keynesiana. Quest'ultima ha sostenuto che nei processi economici sono presenti molteplici forme di inefficienza paretiana (in particolare equilibri macroeconomici con disoccupazione involontaria). In essi, inoltre, occupano un ruolo centrale quelle imperfezioni di mercato che sono determinate da fattori istituzionali, in particolare tutte quelle rigidità che riflettono il sistema delle relazioni industriali, le imperfezioni del mercato del lavoro e le contrattazioni salariali (i costi di transazione, i contratti impliciti, i salari di efficienza, i rapporti insider-outsider). Anche in questo contesto, per le situazioni di equilibrio diventano importanti gli scambi di informazioni e le scelte tra istituzioni necessariamente imperfette.
Dalla Nuova economia keynesiana derivano suggerimenti naturalmente diversi da quelli formulati in contesti tradizionali di strumenti/obiettivi. Si valuta l'efficacia della politica economica nel muovere il sistema verso equilibri non ottimi ma Pareto-preferibili (v. benessere, App. III e IV): si pongono in luce i fallimenti dell'economia del benessere a livello macroeconomico e l'impossibilità di applicare il teorema di Coase (v. coase, Ronald Harry, App. V), con giustificazioni dell'intervento pubblico (nelle modalità di burocrazie, controlli, regolamentazioni) e suggerimenti per dare incentivi alle amministrazioni pubbliche e per trovare criteri di efficienza in settori della spesa pubblica che riguardano sia offerta di servizi sia trasferimenti (in particolare sanità, previdenza, istruzione). Nella Nuova economia keynesiana, dove hanno un ruolo essenziale la concorrenza imperfetta, le rigidità nominali di prezzi e salari e il tasso di disoccupazione di equilibrio, le funzioni della f. p. sono presentate come miranti a ridurre il tasso di disoccupazione di equilibrio e a influire sulla contrattazione nel mercato del lavoro. La riduzione delle imposte e l'impiego della spesa pubblica in una formazione professionale che faccia crescere la produttività, insieme a forme di politica dei redditi concordata (talora di carattere 'neocorporativo'), sono suggerimenti ricorrenti in questo contesto, soprattutto con la finalità di riduzione dei costi a sostegno delle esportazioni. Di qui nascono problemi consueti per la politica fiscale in economia aperta.
Debito pubblico e finanza pubblica
Anche in tema di debito pubblico si sono riprese impostazioni precedenti, da quella di D. Ricardo (1817) sull'equivalenza tra imposte e debito pubblico a quella di E. Domar (1944) sulla sostenibilità del debito pubblico in un'economia in crescita. Il tema del debito pubblico era diventato centrale nelle economie industrializzate travagliate dalle crisi degli anni Settanta-Ottanta, con crescite molto consistenti dei disavanzi pubblici annuali e dello stock di debito pubblico, eventi che rendevano ingestibili e incontrollabili le economie nazionali da parte dei governi. Le istanze pratiche di contenimento dei disavanzi con riduzioni contemporanee di spese pubbliche hanno trovato, per quanto riguarda i paesi dell'Europa continentale, un preciso riferimento nei parametri fissati dal Trattato di Maastricht (1992) per l'adesione all'Unione monetaria europea, i quali fissavano forti limiti al disavanzo pubblico e al debito pubblico, in percentuale del PIL. Nella teoria della politica fiscale si pone sempre maggiore attenzione al finanziamento della spesa pubblica con il debito, in alternativa al finanziamento con le imposte e con la moneta.
Un 'teorema' degli anni Settanta, che contestava posizioni monetariste, sosteneva che in un'economia stabile gli effetti espansivi di una spesa pubblica finanziata con titoli del debito pubblico sono superiori a quelli determinati dal finanziamento con la moneta, in quanto nel tempo i pagamenti sono maggiorati dagli interessi sul debito, rispetto al finanziamento monetario, così che il moltiplicatore di lungo periodo è maggiore. Già alla metà degli anni Settanta venne riacceso il dibattito sul confronto ricardiano (di un'indifferenza sostanziale, per le 'generazioni future', rispetto al metodo di finanziamento della spesa) tra debito pubblico e imposte, in un lungo dibattito che riprendeva un po' tutte le discussioni degli anni Cinquanta-Sessanta. Per quanto riguarda il modello di Domar, il dibattito sulla sostenibilità del debito pubblico, considerando i rapporti fra tasso d'interesse e tasso di crescita dell'economia, e ricercando il disavanzo che stabilizza il rapporto tra debito pubblico e PIL, ha avuto il ruolo dell'argomentazione teorica a sostegno di precetti molto importanti di politica fiscale restrittiva. Si è così cercato di precisare il senso di alcuni indicatori generali della f. p. (disavanzo pubblico/PIL, debito pubblico/PIL, interessi sul debito pubblico/PIL).
Spesa pubblica: analisi settoriali
Negli ultimi anni l'attenzione degli studiosi si è concentrata su alcune tipologie di spesa pubblica: previdenza, sanità, istruzione, ampliando gli studi sui trasferimenti operati con il bilancio pubblico e lasciando in ombra gli aspetti degli interventi in grandi lavori pubblici e in opere infrastrutturali. Ciò è stato in buona parte determinato da esigenze di carattere pratico, e in particolare dall'evoluzione demografica dei paesi industrializzati avanzati, che ha visto un progressivo calo di natalità e un rapido invecchiamento della popolazione, fenomeni che hanno generato pesanti effetti nei bilanci pubblici, oltre che nel mercato del lavoro. Le risposte teoriche, alle quali questa volta hanno fatto seguito molteplici indicazioni tradotte in pratica, hanno lavorato su modelli 'a generazioni sovrapposte' (overlapping generations) e con 'contratti intergenerazionali' (intergenerational contracts) nella definizione di un welfare state compatibile con lo sviluppo economico.
Lo studio delle economie a generazioni sovrapposte, che ha alla base modelli di P. Samuelson e di P. Diamond, rileva come in un equilibrio concorrenziale diverso da quello tipico di J.K. Arrow e G. Debreu, e nel quale si introducano elementi di intertemporalità, si possa contraddire il 'primo teorema' dell'economia del benessere e possa venire a mancare un equilibrio di ottimo paretiano, mentre sono possibili equilibri ciclici o indeterminati. In questo contesto si collocano analisi dei sistemi, privati e pubblici, della sicurezza sociale, in particolare realizzati con il metodo di capitalizzazione (assicurativo di tipo privatistico) e a ripartizione (in cui i lavoratori attuali pagano le pensioni ai lavoratori precedenti, attualmente pensionati, secondo un contratto e una redistribuzione intergenerazionale). Tenendo conto di fattori quali il trasferimento dei consumi da un periodo all'altro, le modifiche dell'offerta di lavoro, l'accumulazione e la trasmissione di eredità, si sono definiti programmi ottimi di sicurezza sociale, sostanzialmente di tipo a capitalizzazione, verso i quali si stanno riorientando da alcuni anni a questa parte, in particolare, paesi dell'Europa continentale che avevano sistemi a ripartizione. In quest'analisi vengono valutati problemi di informazione imperfetta e di 'miopia' nel valutare i bisogni futuri, le insufficienze delle offerte di mercati privati di servizi sostituibili, le difficoltà di funzionamento dei mercati assicurativi, gli effetti sull'offerta di lavoro e di risparmio, le crisi della finanza pubblica provocate dalle modalità di finanziamento del debito generato dal settore previdenziale.
Questi e altri problemi, in particolare per quanto riguarda la natura di beni e servizi pubblici di 'merito', che devono essere almeno parzialmente imposti in quanto i contribuenti non ne riconoscono immediatamente né l'utilità né le esternalità positive, vengono trattati anche in connessione con le spese per la sanità e per l'istruzione, per le quali, oltre agli effetti degli andamenti demografici, contano molteplici aspetti particolari, anche di carattere politico-ideologico. In generale in questi settori si evidenzia una concorrenzialità, talora nella forma della concorrenza monopolistica, tra offerta pubblica generale e offerta privata specializzata, che può differire anche nella qualità, oltre che nei costi e nei prezzi/tariffe. Gravi problemi al centro delle discussioni su questi argomenti riguardano in particolare la struttura dei produttori privati di servizi pubblici e di pubblica utilità a domanda individuale, soprattutto per le garanzie di qualità dei servizi e per le modalità di finanziamento (diretto, con trasferimenti pubblici o attraverso deduzioni dalle imposte sul reddito, o con progettati sistemi di buoni/vouchers). Così l'analisi teorica cerca di individuare i criteri della ripartizione ottima tra assicurazioni private e assicurazioni pubbliche (per es. in tema di previdenza e sanità) e tra produttori pubblici e produttori privati (per es. per quanto riguarda l'offerta di servizi di sanità e istruzione).
In tema di assistenza pubblica la politica redistributiva ha pure trovato modalità di trattazione di relativa originalità nel trade off tra equità ed efficienza di imposte e tariffe ottime e nella ricerca di sistemi previdenziali e sanitari efficienti, tutti campi che richiamano in continuazione interventi perequativi di carattere compensativo rispetto a misure di efficienza. Pertanto si spiega come si sia manifestato un rinnovato interesse alla ridefinizione delle misure di eguaglianza nell'ambito delle funzioni di benessere sociale e alla puntualizzazione di misure della povertà, nonché alla precisazione delle 'scale di reddito equivalente' usata per la tassazione e la concessione di sussidi al reddito familiare.
L'impresa pubblica, le privatizzazioni e la regolamentazione
La teoria dell'impresa pubblica è stata ripresa e approfondita sotto diversi profili. Gli studi ormai classici sull'argomento, da J. Dupuit a E. Boiteux, si preoccupavano soprattutto della definizione di tariffe discriminate applicate da un monopolista pubblico secondo criteri equitativi e di benessere, compatibilmente con vincoli finanziari. In tal modo il monopolio pubblico veniva giustificato soprattutto nel campo dell'offerta di servizi di pubblica utilità.
Da una parte la teoria della tassazione ottima ha portato a formulare teorie delle tariffe ottime, a complemento dell'impostazione tradizionale del marginal cost pricing, partendo dall'affinità delle imposte indirette ottime con le tariffe ottime: lo scostamento della tariffa ottima dal costo marginale dell'impresa pubblica è così inversamente proporzionale all'elasticità della domanda del servizio pubblico prodotto.
Da un altro punto di vista la politica economica degli anni Ottanta, orientata in più paesi industrializzati verso processi necessitati, più o meno intensi, di privatizzazione di imprese pubbliche - in prevalenza sotto forti pressioni delle crisi del bilancio pubblico e dei disavanzi insostenibili - ha portato a riformulazioni teoriche del ruolo delle imprese pubbliche, della loro struttura industriale, del rapporto tra gestione diretta e regulation di imprese private. I 'fallimenti dello Stato' hanno generato trasformazioni di struttura delle imprese e liberalizzazione all'entrata in mercati già dominati da monopoli pubblici legali, con ampia sostituzione della regolamentazione alla gestione diretta. Il ricorso alla teoria dell'informazione imperfetta ha fatto rilevare il ruolo positivo dei controlli di quantità e la possibilità, oltre che i limiti di tale possibilità, che i beni e i servizi pubblici siano prodotti da imprese private o da agenzie burocratiche.
La teoria, di W. Baumol e altri, dei contestable markets (mercati contendibili; v. mercato, App. V) forse non è stata sfruttata appieno, per es. in una teoria possibile di beni pubblici intermedi interpretati come sunk costs di imprese in mercati con libertà di uscita e in presenza di concorrenti potenziali.
La regolamentazione, con l'imposizione di obblighi di carattere sociale alle imprese private controllate, ha pure definito una serie di criteri di prezzi controllati e di tariffazioni (dal semplice cost plus alla regolamentazione dei tassi di rendimento, al price cap che collega le variazioni delle tariffe a incrementi di produttività definiti fra impresa e autorità di controllo in contratti a lungo termine) e ha portato a teorie di agenzie o autorità amministrative indipendenti, sempre in chiave del rapporto fra principale e agente, che hanno permesso di riformulare diversi aspetti concernenti i controlli pubblici.
Finanza pubblica e teoria delle scelte collettive
Nel campo della public choice - nel quale la f. p. aveva trovato molteplici spunti interessanti, soprattutto in relazione allo studio delle regole di decisione politica e dei comportamenti di politici-burocrati-elettori coinvolti nei complessi rapporti di 'scambio politico' ai quali fanno capo le entrate e le spese pubbliche - all'inizio degli anni Ottanta, per merito di J.M. Buchanan e altri erano state proposte interessanti valutazioni sui vincoli costituzionali ai poteri di spesa e di imposizione per lo Stato-Leviatano, al fine di minimizzarne i comportamenti strategici e di interferenza nel benessere individuale. In questa chiave erano stati valutati i meriti comparativi di imposte sul reddito, sul consumo, sul patrimonio, insieme a quelle 'regole ottime' che a livello costituzionale e operativo potevano rappresentare le migliori garanzie dal punto di vista individuale. Nella teoria della f. p. sono continuate e si sono ampliate, proprio nel contesto dell'economia pubblica, le analisi sulla redistribuzione e sulla teoria della giustizia, che hanno rappresentato una costante delle impostazioni dell'utilitarismo e, più in generale, dell'economia del benessere applicata a problemi di entrate e spese pubbliche.
Così, molteplici aspetti di carattere etico e normativo hanno avuto meritori approfondimenti, dalle giustificazioni 'etiche' di imposte e spese, alle giustificazioni, sempre sotto lo stesso profilo, degli interventi di regulation, alle definizioni e alla struttura delle organizzazioni non profit, al volontariato nell'offerta di servizi pubblici ecc. Si è assistito, così, a un recupero critico di 'valori' da impostare in termini rigorosi e da riferire sia a problemi tradizionali che a temi nuovi. Una parte complementare, di sicuro interesse, ha riguardato la teoria delle istituzioni, collegata allo studio economico dei contratti. Nella teoria economica si sono sempre studiati i meccanismi di contrattazione (sia quelli bargaining-contracting di F.Y. Edgeworth sia quelli dell'equilibrio economico generale), che nella f. p. erano stati studiati, per es., a proposito dei beni pubblici e dei meccanismi di votazione e di rivelazione delle preferenze degli individui per i beni pubblici.
A conferma della definizione di Buchanan, dell'economia come 'scienza dei contratti', più di recente sono state approfondite le implicazioni teorico-pratiche dei meccanismi di asta, dei contratti pubblici, dei contratti in mercati incompleti e in concorrenza imperfetta. Questi sviluppi sembrano prefigurarsi come una componente essenziale di una teoria dell'offerta di produzione e fornitura di beni e servizi pubblici. Anche in questo campo lo schema principale/agente, che è poi uno schema contrattuale, ha avuto un ruolo di notevole importanza. La teoria dei contratti ha permesso di sviluppare alcuni spunti di una rigorosa teoria delle istituzioni, in particolare per i contratti incompleti e i contratti a lungo termine. Insieme alla nuova teoria dell'organizzazione industriale, la teoria dei contratti sta assumendo un ruolo ben definito nell'analisi delle istituzioni pubbliche. In parallelo sono continuate le discussioni di 'economia costituzionale', che pure hanno dato interessanti suggerimenti alla f. p., per lo più in derivazione dalla public choice, sui comportamenti politici e sulle norme costituzionali che funzionino come vincoli di lungo periodo, sui sistemi elettorali e sulle rappresentanze di interessi. Anche in questo campo sono piuttosto chiari alcuni mutamenti di impostazioni metodologiche. Un esempio è dato dal prospettare i sistemi fiscali, e le loro riforme, come strumenti per acquisire informazioni.
La finanza pubblica locale e il decentramento
Il settore della f. p. locale ha avuto una serie di approfondimenti che hanno riguardato, da una parte, l'antica questione del miglior riparto delle entrate e delle spese pubbliche tra diversi livelli di governo, e, dall'altra, l'offerta decentrata di beni e servizi pubblici, insieme alla definizione della dimensione ottima di un ente locale, in funzione anche della concorrenza tra diversi enti locali e della mobilità dei residenti-utenti di beni e servizi pubblici locali. Un problema con risvolti pratici d'indubbio interesse, anche in relazione a modifiche di carattere politico-costituzionale, in particolare di paesi aderenti all'Unione Europea, è il ruolo dei trasferimenti dal bilancio federale ai bilanci degli enti locali inferiori (il cosiddetto federalismo fiscale), nonché il coordinamento di imposte e spese, anche in funzione del cosiddetto principio di sussidiarietà, pure introdotto nel Trattato di Maastricht.
bibliografia
F.P. Ramsey, A contribution to the theory of taxation, in Economic journal, march 1927, pp. 47-61.
A.C. Pigou, A study in public finance, London 1928.
S. Steve, Finanza pubblica, in Dizionario di economia politica, a cura di C. Napoleoni, Milano 1956, ad vocem.
E.R.A. Seligman, Finances, in Palgrave's dictionary of political economy, ed. H. Higgs, 2° vol., New York 1963, ad vocem.
P.A. Diamond, J.A. Mirrlees, Optimal taxation and public production, 1°: Production efficiency, 2°: Tax rules, in American economic review, june 1971, pp. 8-27 e 261-78.
C. Cosciani, Finanza, in Enciclopedia del Novecento, 2° vol., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1977, ad vocem.
Report Institute for Fiscal Studies (IFS), The structure and reform of direct taxation, London 1978.
R. Artoni, Finanza pubblica, in Dizionario di economia politica, a cura di G. Lunghini, 4° vol., Torino 1982, ad vocem.
J.E. Meade, Wage fixing, London 1983.
J. Shoven, J. Whalley, Applied general-equilibrium models of taxation and international trade, in Journal of economic literature, 1984, 3, pp. 1007-51.
D.C. Mueller, Public choice II, Cambridge-New York 1989.
W. Vickrey, Public economics, Cambridge 1994.
Tra le opere di carattere generale:
Handbuch der Finanzwissenschaft, hrsg. W. Gerloff, F. Neumark, 3 voll., Tübingen 1952-56.
Handbook of public economics, hrsg. A.J. Auerbach, M. Feldstein, 2 voll., Amsterdam 1987.
The new Palgrave. A dictionary of economics, ed. J. Eatwell, M. Milgate, P. Newman, 4 voll., London 1987 (in partic.: S.Ch. Kolm, Public economics, 3° vol., ad vocem; R.A. Musgrave, Public finance, 3° vol., ad vocem).
Tra i migliori e più recenti manuali, con bibliografia:
J. Cullis, P. Jones, Public finance and public choice, Oxford 1992, 1998².
G.D. Myles, Public economics, Cambridge 1995; R. Jha, Modern public economics, London 1998.
Temi aggiornati di scienza delle finanze e di economia pubblica sono trattati in periodici quali:
Journal of public economics, dal 1972; Tax policy and the economy, dal 1987.