giudaica, filosofia
Si usa definire filosofia giudaica il pensiero filosofico di autori vissuti dal 1° sec. d.C. sino a oggi in aree geografiche diverse (nel Vicino e Medio Oriente, in Europa e in Africa settentrionale), i quali impiegarono come mezzo di espressione lingue differenti, ma furono accomunati da due fondamentali caratteristiche: l’appartenenza all’etnia ebraica e l’adesione più o meno formale alla religione giudaica – due aspetti che, nella visione tradizionale della storia del popolo ebraico, sarebbero sostanzialmente coincidenti. Spesso, ma non sempre, i numerosi mezzi di espressione linguistica di questo pensiero coincidevano con le lingue più importanti delle zone in cui esso operava. Nel 1° sec. i filosofi ebrei si espressero in greco, la lingua di cultura del Vicino Oriente dell’epoca. Nei secc. 9°-12° essi, attivi prevalentemente in Africa settentrionale e nella Spagna musulmana, scrissero in arabo (o meglio nella variante ebraica di questa lingua, il giudeo-arabo), e in questa lingua continuarono a esprimersi i pensatori ebrei presenti, nel periodo storico successivo (13°-16° sec.), in alcuni paesi islamici a sud del Mediterraneo. Nei secc. dal 13° al 18°, i filosofi ebrei che lavorarono nei paesi dell’Europa occidentale crearono una propria lingua di cultura, l’ebraico medievale, che emulò e si contrappose prima al latino medievale e rinascimentale della contemporanea scolastica cristiana, e poi alle lingue che iniziavano a diffondersi nella cultura europea non ebraica dell’epoca. Infine, nei secc. 19°-20°, e soprattutto dal 1850 in poi, con il sorgere della Wissenschaft des Judentums («scienza dell’ebraismo») e la progressiva assimilazione degli ebrei nella società europea, si è arrivati a una frammentazione linguistica: ogni filosofo ebreo si è espresso nella lingua di cultura del luogo dove è vissuto (inglese, francese, tedesco, italiano); solo nei paesi dell’Europa orientale, dove si manteneva un profondo distacco tra le comunità ebraiche e le nazionalità locali, i pensatori ebrei si esprimevano ancora in ebraico, o tutt’al più adottavano come loro mezzo di espressione la lingua parlata dalle loro comunità: lo yiddish. In generale, non solo dal punto di vista linguistico ma anche e soprattutto dal punto di vista dei metodi impiegati e persino in buona parte dei contenuti, la filosofia g. apparve generalmente caratterizzata da una notevolissima capacità di adattamento e assorbimento delle diverse culture nelle quali agiva, sia di quella islamica che di quella cristiana, arrivando così a creare versioni ebraiche delle più importanti scuole filosofiche e teologiche non ebraiche con le quali entrava in contatto.
Una prima versione di ‘platonismo ebraico’ si ebbe intorno al 40 d.C. ca., in Egitto; il suo rappresentante fu Filone di Alessandria. Egli espose in una serie di opere, tutte originariamente redatte in lingua greca, la sua sostanziale adesione a diverse delle dottrine filosofiche di Platone e della scuola platonica dei suoi tempi, sforzandosi di applicarle alle proprie interpretazioni dell’Antico Testamento; nel fare ciò, egli si concentrò soprattutto nella lettura in chiave allegorico-filosofica dei primi capitoli del Genesi, dedicati al tema della creazione del mondo. Il caso di Filone rimase però sostanzialmente isolato. Solo diversi secoli più tardi si verificò un più ampio risorgere di generale interesse, da parte ebraica, per la filosofia greca: un interesse che fu questa volta mediato dall’interpretazione linguistica e concettuale data di essa da parte della filosofia arabo-islamica medievale (➔ araba, filosofia). Ad avviare questo interesse fu il sorgere del ‘kalām ebraico’, ossia di una teologia apologetica della religione g. nelle sue due versioni allora prevalenti (quella rabbanita e quella caraita), ispirata, in alcuni aspetti dei contenuti e della forma, alla contemporanea teologia apologetica musulmana. Il più noto rappresentante di questa linea di pensiero, Saadia Gaon (882-942), attivo in Egitto e in Mesopotamia, introdusse alcuni elementi del neoplatonismo del filosofo arabo-islamico al-Kindī, e in generale metodi e dottrine della teologia islamica, nella sua opera principale, il Kitāb al-amānāt wa-l-i’tiqādāt («Libro delle credenze e delle convinzioni»). Tuttavia, fu con il suo contemporaneo e conterraneo Isaac Israeli (850-950) che nacque una vera e propria filosofia g. in lingua araba, che riprodusse in modo sistematico le strutture e buona parte dei contenuti del pensiero di al-Kindī e dei testi a esso legati (la Ūtūlūğīyā «Teologia» dello pseudo-Aristotele e il Kalām fī mahd al-khā‛ir «Discorso sul bene puro») adattandoli, laddove fosse necessario, alle esigenze dottrinali della religione giudaica.
Questo neoplatonismo ebraico trovò ulteriore e più ampio sviluppo nella Spagna musulmana dei secc. 11°-12°. Tra il 1040 e il 1080 ca., vennero composte in quest’area le opere di due autori di diverso orientamento: Shelomoh Ibn Gabirol (1020-1070 ca.) e Bahyā Ibn Pāqūdā (seconda metà dell’11° sec.). Il primo, nella sua opera metafisica Yanbū‛ al-hayāt («La fonte di vita»), offrì per la prima volta un’interpretazione originale del neoplatonismo arabo-islamico; il secondo, nel suo trattato mistico-ascetico Farā’id al-qulūb («I doveri dei cuori»), si sforzò di adeguare alle esigenze della religione ebraica le strutture e i contenuti della mistica islamica, arrivando a una sorta di ‘sufismo ebraico’. Uno sviluppo ancora maggiore del neoplatonismo ebraico spagnolo si ebbe tra il 1120 e il 1140: in questi anni, in area iberica, vennero scritte le più note opere di autori giudeo-arabi appartenenti a questa corrente di pensiero, come la Maqāla al-hadīqa («Il trattato del giardino») di Mosheh Ibn ‛Ezrā (1055-1138 ca.), il Kitāb al-‛ālam al-saġīr («Libro del microcosmo») di Yosef Ibn Zaddiq (m. nel 1149), e il Kitāb al-Khazarī («Libro del Càzaro») di Yĕhūdāh ha-Lēwī (1075 ca. - 1141). Queste tre opere erano accomunate dal fatto di trattare questioni di carattere filosofico e teologico ispirandosi ad autori arabo-islamici appartenenti non solo al neoplatonismo (le Rasā’il Ikhwān al-safā’, «Epistole dei Fratelli della purezza»), ma talora anche all’aristotelismo (al-Fārābī, Avicenna, Ibn Bāggia). Questo neoplatonismo ebraico aperto al confronto con alcuni aspetti dell’aristotelismo continuò anche dopo il 1150 in altre aree geografiche (Marocco, Tunisia, Egitto), e soprattutto nello Yemen; in quest’ultima regione si sviluppò nei secc. 12°-16° una sorta di ‘ismailismo ebraico’, il quale condivise con l’ismailismo vero e proprio l’interesse per le dottrine teologico-filosofiche di Avicenna, adattandolo alle proprie esigenze religiose.
Nella seconda metà del sec. 12°, d’altra parte, sorse l’importante fenomeno dell’aristotelismo ebraico, autonomo dal neoplatonismo e in contrapposizione con alcuni aspetti di esso. A rappresentarlo furono due autori ebrei di lingua araba: Abraham Ibn Dawūd (noto anche come Giovanni Ispano), attivo a Toledo come filosofo di orientamento avicenniano e probabile collaboratore dell’opera di traduzione filosofica dall’arabo al latino di scritti di Avicenna, e soprattutto Mōsheh Ibn Maymūn, noto come Maimonide e attivo al Cairo come medico, giurista e filosofo. Quest’ultimo, certo il più noto rappresentante della filosofia ebraica, offrì nella sua massima opera, la Dalālat al-hā’irīn (La guida dei perplessi), un’interpretazione in chiave aristotelica, fondata soprattutto sul pensiero di al-Fārābī e Ibn Bāggia, dei principali elementi della tradizione religiosa ebraica, nello sforzo di spiegare razionalmente i contenuti di quest’ultima. Contemporaneamente a Ibn Dā’ūd e a Maimonide si sviluppò nella Spagna e nell’Europa occidentale del sec. 12° una filosofia ebraica in lingua non più araba, ma ebraica. I suoi fondatori furono Abraham bar Ḥiyyā (1065-1136 ca.), un ebreo aragonese interessato alla scienza e alla filosofia greca e in contatto sia col mondo musulmano sia con quello cristiano, e Abraham Ibn ‛Ezra (1089-1164), un poligrafo ebreo spagnolo attivo come astronomo ed esegeta della Bibbia in Italia, Francia e Inghilterra dopo il 1140. Scrivendo per lettori che non conoscevano la lingua araba, questi autori dovevano creare una lingua ebraica sotto molti aspetti nuova, in grado di esprimere i concetti fondamentali del pensiero filosofico e scientifico arabo: l’ebraico medievale. A scrivere opere filosofiche in ebraico furono, dopo di loro, molti altri autori ebrei attivi in Spagna, Provenza e Italia tra il 1200 e il 1500. Queste opere, tuttora in corso di studio, riflettevano le interpretazioni e gli adattamenti ebraici di diversi aspetti del pensiero arabo-islamico prima (almeno sino al 1350), e di quello della scolastica latina poi (specialmente dal 14° sec.). Si può, per alcune di loro, parlare di ‘averroismo ebraico’: sorto da un tentativo di accordare il pensiero di Maimonide con quello di Averroè, tale averroismo si sviluppò nelle aree geografiche e nei periodi suddetti a opera di parecchi autori, e trovò la sua più celebre e geniale espressione, non priva di aspetti innovativi, nel filosofo e scienziato ebreo provenzale Lēwī ben Gērĕshōn, noto come Gersonide (1288-1344). A questo si accostarono altri due fenomeni: un ‘avicennismo ebraico’, sviluppatosi in area spagnola e provenzale tra il 1250 e il 1400 ca.; e una sorta di ‘scolastica ebraica’, sviluppatasi in Italia intorno all’inizio del 14° sec. e risorta lì e in Aragona nella seconda metà del sec. 15°. Quest’ultima nacque dal tentativo di interpretare e adattare alla tradizione ebraica i principali aspetti di diverse scuole del pensiero latino cristiano dell’epoca: tomismo, scotismo, nominalismo.
La linea tracciata dalla filosofia ebraica medievale di lingua ebraica continuò in Europa, secondo linee ancora da chiarire dettagliatamente nel metodo seguito e nei contenuti, dopo il 1500, riprendendo aspetti del pensiero non ebraico dei secc. 16°-18°: sua ultima manifestazione originale fu la Haskalah, nota come ‘illuminismo ebraico’ e sviluppatasi in area olandese e tedesca dopo il 1750. Tuttavia, dopo la metà del 19° sec., con l’assimilazione di buona parte degli ebrei europei all’interno della società europea non ebraica, la filosofia g. si è frammentata non solo dal punto di vista linguistico, ma anche dal punto di vista religioso, mantenendo solo una generica identità culturale e nazionale. In questo caso, è difficile parlare ancora di una vera e propria filosofia g. unitaria: si può forse parlare di diversi autori di cultura ebraica, ciascuno dei quali fa parte dell’uno o dell’altro dei diversi aspetti della filosofia europea contemporanea.