Filosofia e storia della filosofia in Gentile
«Il maggiore storico della filosofia che sia in Italia». Questa definizione, che il diretto interessato pregò fosse cancellata dal saggio Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana di Benedetto Croce (1909, avuto in lettura ancora manoscritto: Gentile a Croce, lettera del 3 febbraio, in G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, a cura di G. Giannantoni, 3° vol., 1976, p. 303), non si lascia ridurre a un movente occasionale, ossia alla denuncia delle mene valse a impedire all’amico l’approdo all’Università di Napoli, ma deve intendersi come sincera espressione del coevo giudizio di Croce sulla personalità di studioso di Giovanni Gentile. Proprio in quegli anni, dal 1903 al 1914, Gentile veniva offrendo alla rivista crociana «La Critica» gli articoli che, riuniti, avrebbero composto i quattro tomi delle Origini della filosofia contemporanea in Italia (1917-1923), nelle intenzioni il corrispettivo dei lavori dedicati da Croce alla patria letteratura risorgimentale. E nel contempo era all’opera per assicurare all’editore Francesco Vallardi le dispense niente meno che di una Storia della filosofia italiana, condotta a partire dalla scolastica medioevale e svolta in effetti solo fino all’Umanesimo. Se allo scavo di questi filoni di ricerca si aggiungono i più eccentrici Studi sullo stoicismo romano del primo secolo d.C. (1904), le curatele editoriali (dagli scritti di Bertrando Spaventa per Morano ai Dialoghi metafisici e Dialoghi morali di Giordano Bruno per i laterziani Classici della filosofia moderna, diretti insieme a Croce, fino alla traduzione della kantiana Kritik der reinen Vernunft, realizzata insieme a Giuseppe Lombardo-Radice per la medesima collana), le puntuali recensioni di importanti lavori storiografici (di Wilhelm Windelband, Harald Höffding, Paul Hazard, il necrologio dedicato a Eduard Zeller ecc.), le iniziative rivolte alla scuola (come la ripubblicazione degli Elementi di filosofia di Francesco Fiorentino, 1907) e gli scritti più propriamente teorici dedicati all’argomento, su tutti Il concetto della storia della filosofia (1908) e Il circolo della filosofia e della storia della filosofia (1909), ecco che il primato riconosciuto a Gentile da Croce apparirà fondato su elementi concreti e ispirato non solo a favore personale.
Alle spalle di questa produzione stavano due lavori notevoli: l’uno su Rosmini e Gioberti (1898), nato come tesi di laurea pisana, l’altro Dal Genovesi al Galluppi (1903), inteso come antefatto del precedente e materia della tesi di perfezionamento fiorentina presso l’Istituto di studi superiori. A ciò si aggiungeva l’indagine del pensiero di Karl Marx (La filosofia di Marx, 1899), mediata da Croce e Antonio Labriola. Oltre a questi ultimi due studiosi una decisiva influenza esercitarono sulla formazione di Gentile come storico della filosofia il filologo Alessandro D’Ancona, lo storico Amedeo Crivellucci e in parte anche il filosofo Felice Tocco, futuro bersaglio polemico, scolaro indipendente di quel Bertrando Spaventa già divenuto familiare a Gentile attraverso il suo professore pisano Donato Jaja e presto assurto per lui al rango di autentico avviatore della moderna storiografia filosofica in Italia, né controversistica né compilativa. Proprio da Spaventa Gentile attinse l’interesse primario per la storia della filosofia italiana, rinascimentale e ottocentesca – messa in rapporto con la filosofia straniera secondo la nota tesi, pur da lui riveduta, della «circolazione europea della filosofia» – oltre che l’interesse per il pensiero quasi profetico di Giambattista Vico, elevato a precursore delle idee più originali di Immanuel Kant e Georg Wilhelm Friedrich Hegel, i quali pur del filosofo napoletano nulla avevano saputo. La fede spaventiana nell’esistenza di tradizioni filosofiche nazionali – comune a molta storiografia ottocentesca – mai più abbandonò il promettente studioso, chiamato a proseguire l’opera di riscatto di quell’Italia pensante che la trattatistica d’Oltralpe sembrava trascurare per via dell’ingiustificata autorità attribuita alla triarchia culturale europea (un vecchio titolo di Moses Hess, Die europäische Triarchie, 1841) formata da Francia, Germania e Inghilterra.
La vocazione di Gentile per la storia della filosofia era dunque affatto peculiare e già nella prefazione a Rosmini e Gioberti spiccavano alcune formule destinate a marcare i confini del suo lavoro storiografico. Al centro stava il problema del rapporto tra filosofia e storia della filosofia, tendente ancora in Spaventa a risolversi senza patemi nella maniera assai contestata di Hegel. «Storico obiettivo» – nel senso vagheggiato dai critici positivisti del filosofo svevo, in parte anche neokantiani – il giovane scrittore non si voleva. Alla fedele ricostruzione delle intenzioni dei filosofi affermava di preferire l’interpretazione autentica delle loro opere, derivante per logica necessità dal contenuto. Non soltanto i singoli autori andavano restituiti alla storia, ma il pensiero in quanto tale doveva possedere una storia – una storia non altrimenti concepibile che sotto forma di progresso. E qui lo spirito veniva opposto alla lettera – «vivificante» il primo, «mortale» la seconda – fatta salva la precisazione che la compiuta distinzione dell’uno dall’altra potesse ottenersi solo grazie a un’elevata coscienza storica, non raggiunta perlopiù dai filosofi italiani del tempo. Era questa la ragione dell’asserita circolarità tra filosofia e storia della filosofia, ovvero della loro sostanziale identità.
Senonché una duplice domanda restava inevasa: da un lato, se un ruolo in tale processo di chiarificazione del pensiero a se stesso avesse anche la comune storiografia sedicente «oggettiva»; dall’altro, se lo scrivente ancor sempre parlasse nel nome di Hegel, o di Spaventa, o piuttosto alla luce di una propria filosofia personale, da intendersi come sviluppo rispetto a quei due predecessori. Specchio di tale incertezza, le immediate recensioni a Rosmini e Gioberti videro Rodolfo Renier salutare con favore in quell’opera la felice applicazione del metodo storico-letterario alla filosofia, Croce lodare il perfezionamento così arrecato alle precedenti genealogie filosofiche spaventiane, solo speculative, mentre Tocco segnalava come la padronanza di quel metodo non impedisse all’autore di usare violenza al proprio miglior sapere e di stabilire ad arbitrio, sulla scia di Spaventa, la piena corrispondenza dello sviluppo storico della filosofia italiana risorgimentale allo sviluppo indicato da Hegel per la filosofia tedesca a lui anteriore. Giudizi parimenti fondati, ciascuno a suo modo, che il diretto interessato tentò più tardi di comporre a unità. Quel suo lavoro giovanile si voleva bensì «un saggio storico, ma altresì un’introduzione teorica alla filosofia», onde mal avrebbe giudicato così chi non avesse saputo vedervi una «vera ricerca storica» come chi non avesse saputo scoprirvi il «carattere teoretico» (dal curriculum di Gentile del 1904).
Su queste aporie insite nel suo modo di praticare la storia della filosofia, non così vistose nel successivo Dal Genovesi al Galluppi come nella più baldanzosa opera prima, Gentile fu obbligato a riflettere fino al compiuto svolgimento del suo sistema di pensiero sotto forma di filosofia dell’atto puro e sentì il bisogno di ritornare assai presto. L’occasione fu offerta nel 1902 dal libro L’avenir de la philosophie, esquisse d’une synthèse des connaissances fondée sur l’histoire (1899), di Henri Berr, direttore di quella «Revue de synthèse historique» alla quale il filosofo italiano fornì proprio in quell’anno l’articolo Contribution à l’histoire de la méthode historique (un autentico saggio di storia della storiografia, poi ripubblicato negli Studi sul Rinascimento, 1923). Berr raccomandava, in materia di storiografia filosofica, l’applicazione dei procedimenti della più evoluta critica storica in genere quale mezzo per scartare, in filosofia, le concezioni da riconoscersi come ormai insostenibili a favore di altre che potessero almeno fungere da materiale per la soluzione di un determinato problema filosofico. Gentile obiettava che la critica storica, applicata alla filosofia, dovesse per forza muovere da un punto di vista filosofico acquisito e che anche lo studioso francese così avesse fatto suo malgrado: pretendere che la filosofia moderna avesse avuto inizio con René Descartes, che l’Italia vi avesse svolto poca o nessuna parte, non era già una scelta di principio, anziché una considerazione storica oggettiva, non personale e arbitraria?
La recensione a Berr rimase inedita (solo nel 1921 sarà inclusa nei Saggi critici con il titolo Filosofia e storia della filosofia), ma pur nella sua insufficienza a fornire una ricetta alternativa chiariva una volta per tutte quale fosse il tipo di storiografia inviso a Gentile: una storiografia avente a oggetto una molteplicità di domande e risposte denominate per tradizione come filosofiche, fra le quali si trattasse di distinguere quelle non più accettabili, quelle ancora utili al medesimo o ad altro scopo e quelle ormai confluite nel sapere scientifico, come tali sottratte alla competenza dei filosofi. In breve, una storiografia secondo la quale il progresso sarebbe consistito nel graduale depotenziamento della filosofia, ridotta a registrare i guadagni delle scienze (dalla prolusione napoletana La rinascita dell’idealismo, 1903). Contro tale concezione Gentile faceva valere, all’insegna di Spaventa, il proprio assunto che qualcosa di simile a un sommo problema (per tutta quanta la filosofia moderna: il «problema critico del conoscere», secondo L’esperienza pura e la realtà storica, prolusione pisana del 1914) fosse alla base della riflessione filosofica e che il cammino della storia consistesse nell’avvicinamento alla sua soluzione. In tale prospettiva, tutti i tentativi filosofici passati si sarebbero rivelati all’intenditore un misto di verità e di errore, se solo li si fosse osservati da un successivo stadio di sviluppo; nel contempo tutti avrebbero racchiuso in sé una sorta di storia della filosofia, almeno a misura che fra verità ed errore avessero aspirato a distinguere. L’errore, infatti, poteva intendersi solo come sapere consegnato ormai al passato (così più tardi Gentile in risposta a Croce su «La Voce», 11 dicembre 1913).
Le preferenze gentiliane fra le opere di storia della filosofia in voga erano orientate al medesimo principio. Se fra i manuali scolastici italiani quello di Fiorentino era riproposto come migliore rispetto ad altri più recenti (secondo la prima edizione del 1877, non ancora influenzata dalla successiva svolta dell’autore verso il positivismo), il giudizio si faceva più articolato nel caso dei maggiori compendi di provenienza tedesca, da tempo influenti in Italia grazie soprattutto all’autorità degli ex hegeliani Kuno Fischer e Zeller, o anche di Karl von Prantl per la storia della logica. Nel 1907 Gentile contestò sulla «Critica» il valore della Geschichte der neueren Philosophie di Höffding, tradotta in italiano da Piero Martinetti. All’autore imputava di «rappresentare il corso storico della filosofia come serie di problemi senza nessuna logica interna» e di privilegiare rispetto allo sviluppo autonomo del pensiero la biografia dei pensatori e le «contingenze storiche». Anche in questo caso, come già nel giudizio analogo su Berr, inaccettabili erano dichiarati i presupposti filosofici di Höffding, riducibili a una specie di naturalismo fondato sulle scienze sperimentali. Preferibile era senz’altro Windelband (il suo Lehrbuch der Geschichte der Philosophie, 1891, 19105, tradotto da Eugenio Zaniboni per Sandron nel 1912 su proposta gentiliana, lo fu di nuovo a cura di Cecilia Motzo Dentice di Accadia nel 1922), attento a distinguere fra storia «filosofica» e storia meramente «storica» della filosofia, ovvero fra storia «speculativa» e storia «erudita» (la distinzione, avanzata da Gentile in Rosmini e Gioberti, si reggeva in tedesco sulla diversa radice germanica e latina dei termini Geschichte/Historie, geschichtlich/historisch). E rispetto a storici di matrice positivistica o più strettamente filologica, come Paul Tannery e Theodor Gomperz, meglio valeva in materia di filosofia antica il loro predecessore Zeller, il quale, sebbene approdato nella maturità a un neokantismo eclettico, sempre aveva serbato la fede giovanile in uno «sviluppo storico soggetto a leggi», secondo la lezione hegeliana assimilata a Tübingen alla scuola di Ferdinand Christian Baur. Proprio il contributo di Hegel alla trattazione storica della filosofia, riconosciuto anche da Croce come lascito fra i maggiori del filosofo tedesco (nel saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, 1907) doveva sempre servire da modello: una traduzione delle sue lezioni sull’argomento era contemplata (Croce a Gentile, 3 ottobre 1910, in B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, 1981). Solo bisognava correggerle dal loro vizio prospettico, tendente a fare della filosofia hegeliana stessa il punto di arrivo della storia; bisognava perfezionarle e ampliarle grazie a una superiore padronanza delle discipline storiche ausiliarie e alla luce dell’accresciuta importanza attribuita alla tradizione filosofica italiana.
Fu così che i principali interventi gentiliani nella discussione teorica del nesso tra filosofia e storia della filosofia vennero riuniti più tardi nel volume La riforma della dialettica hegeliana (1913), destinato a sciogliere il nodo del rapporto con Hegel. In particolare, nel già citato Il concetto della storia della filosofia Gentile volle affrontare il classico rimprovero mosso a Hegel di aver solo «costruito» la propria esposizione storica della filosofia, dunque di aver adoperato un procedimento aprioristico fallace. Contro tale obiezione, volta a scavare un solco tra filosofia e storiografia, si trattava di ricorrere a un caratteristico procedimento hegeliano, ma da applicare a Hegel stesso. Si trattava di realizzare una sintesi degli opposti capace di conciliare nella prassi storiografica, alla stregua di due momenti di un medesimo processo, le istanze altrimenti confliggenti della filosofia, intesa come logica sottesa allo sviluppo storico del pensiero umano, con quelle della «filologia», intesa come analisi documentaria condotta sui testi filosofici, ovverosia le istanze del «logicismo» con quelle dello «storicismo», le istanze di Hegel con quelle dei suoi avversari.
Condizione per la riuscita dovevano essere, da un lato, il possesso del metodo filologico, necessario a cogliere il legame indissolubile fra la personalità del filosofo e le sue idee, sorte in determinate condizioni biografiche e storiche; dall’altro, la padronanza di una filosofia all’altezza dei tempi, in grado di rendere ragione delle filosofie precedenti e insieme di additare le sterili sopravvivenze del passato, ossia quelle filosofie che per il solo fatto di venire ancora professate, dunque valere come attuali agli occhi di un preteso osservatore neutrale, non perciò potevano serbare autorità alcuna. Mali da evitare dovevano essere, per un verso, il «filologismo», il gusto per la ricostruzione storica indifferente ai contenuti, imputato a Tocco, ma rimproverato all’occorrenza anche a D’Ancona; per un altro verso, il «soggettivismo», da intendersi come attaccamento sentimentale a un punto di vista filosofico divenuto ormai insostenibile, perciò improduttivo anche sul piano storiografico. Mali invero denunciati già da Hegel, ma in quel caso all’interno di una ricostruzione storica dove, almeno in linea di principio, il momento della necessità logica del progresso filosofico faceva premio su quello della contingente individualità dei pensatori, lo sviluppo teleologico del pensiero puro era privilegiato rispetto al ruvido determinismo delle influenze personali e ambientali. Di qui la necessità di una «riforma» del pensiero hegeliano, che si estendesse anche alla teoria e alla pratica della storia della filosofia.
Nel breve scritto Il circolo della filosofia e della storia della filosofia Gentile trasse le sue conclusioni e avanzò una soluzione ai quesiti ancora impliciti nella prefazione a Rosmini e Gioberti. La storia puramente «filologica» della filosofia si giustificava, a suo dire, in quanto raccolta e illustrazione di tutti gli elementi concorrenti vuoi all’evoluzione spirituale di un filosofo vuoi alla genesi di un testo filosofico (alla sua «intelligenza materiale», secondo un corso di lezioni del 1918), impossibili da scartare come insignificanti senza un esame preliminare e che lo storico «speculativo» doveva pur sempre aver noti, onde discernere fra essi quelli rivelatisi decisivi alla luce del guadagno arrecato in permanenza al pensiero umano da un autore. Tali elementi decisivi si doveva però assumere fossero un prodotto non già del caso, ma del principio logico di una data filosofia, intesa quest’ultima come effetto di una «sintesi apriori» fra quel principio stesso (la forma) e le condizioni empiriche della sua pensabilità (la materia) – condizioni di per sé trascurabili senza la filosofia così generata, che sola valeva a far di esse un oggetto interessante per lo storico. Storico autentico della filosofia, di conseguenza, non poteva essere altri che un filosofo, capace di afferrare l’originalità di ciascun principio logico nelle sue contingenze storiche (identità di filosofia e storia della filosofia non solo a parte obiecti, ma anche a parte subiecti). Ovvero, secondo il linguaggio dell’attualismo più maturo, la necessaria immedesimazione dello storico nel filosofo studiato (indagarne la vita, ripercorrerne i pensieri, leggerne i libri, leggere i libri da lui letti – secondo il dettato gentiliano) doveva fare tutt’uno con l’atto di ripensare in prima persona quel che il predecessore avesse pensato in proprio, e nel restituirgli vita sapersi tuttavia altro da lui. Operazione filosofica a sua volta e praticabile solo a misura che quel passato, anziché morto, continuasse a informare di sé il presente. La storia si dava dunque a conoscere solo in quanto storia contemporanea, la storia della filosofia solo in quanto «storia della filosofia del nostro tempo» (L’esperienza pura e la realtà storica, inclusa nella seconda edizione della Riforma della dialettica hegeliana, 1923; o ancora i tardi appunti di un’incompiuta storia generale della filosofia svolta solo fino a Platone, Storia della filosofia. Dalle origini a Platone, a cura di V.A. Bellezza, 1964).
Scorza di questo nocciolo speculativo della concezione gentiliana della storiografia filosofica erano almeno due ferme convinzioni. Da un lato, che la filosofia fosse una sola, sebbene articolata in discipline speciali, coincidente grosso modo con quanto era invalso chiamare «metafisica» (in ultima istanza, ancora in fedeltà a Spaventa: la dottrina dell’«essere», «l’uomo che si chiede: che è l’essere?»). Dall’altro, che solo in età moderna e grazie alla maturazione dell’idea di «progresso», estensibile anche al sapere filosofico e imperniata sul concetto della libertà (secondo il dettato hegeliano), la filosofia fosse giunta a porsi con nettezza il problema della propria storia. Di qui doveva esser maturata ai giorni nostri la consapevolezza dello stretto intreccio fra storia della filosofia e storia della cultura (citato era di nuovo Windelband, insieme a Gomperz – sullo sfondo il coevo dibattito intorno alla Kulturgeschichte), da intendersi però non nel senso dell’assorbimento della filosofia nella cultura, ma quale potenziale riducibilità di tutta quanta la seconda alla prima, afferrata come nocciolo. Che era poi ancora la lezione di Hegel, sebbene spinta oltre i limiti prefissati, poiché al predecessore era mancato il coraggio di collocare la filosofia al centro della storia universale e perfino nella sfera dello spirito assoluto egli aveva mantenuto distinte la religione e l’arte. Gentile concludeva per la piena identità non solo di filosofia e storia della filosofia, ma di filosofia e storia tout court, con una mossa che, se a tutta prima poteva far pensare all’unità ricercata da Croce tra filosofia e storiografia (quest’ultima posta a fondamento della storia), doveva in realtà inaugurare un sostanziale dissenso, sia pur contro le speranze del più giovane e nonostante i pubblici apprezzamenti scambiati nel 1909 (Gentile in Il circolo della filosofia e della storia della filosofia, Croce in una lunga postilla alla seconda edizione della Logica come scienza del concetto puro, 1909). Per Gentile, infatti, l’accento cadeva sulla filosofia intesa come segreto della storia, laddove per Croce la storicità investiva la filosofia quasi suo malgrado, pur se inseparabile da essa. Non faceva eccezione a questa regola, secondo Croce, l’idealismo assoluto hegeliano, ma neppure il nuovissimo attualismo gentiliano, del quale il filosofo napoletano deprecava i toni ultimativi e misticheggianti (caratteristica l’enfasi sul problema dell’essere), sebbene il diretto interessato sempre respingesse tale rimprovero.
Nella Teoria generale dello spirito come atto puro (1916, 19244), nel capitolo intitolato “L’antinomia storica e la storia eterna”, Gentile ritornò su questi argomenti nella cornice di quel che sempre più appariva un dissidio non meglio ricomponibile con Croce. La storia «filosofica» della filosofia, facente tutt’uno con quest’ultima, era definita «la storia della filosofia nell’atto del filosofare», a significare che ciascun filosofo dovesse ripensare a proprio modo la storia della filosofia (fosse pur in maniera incompleta) e che nessuno storico della filosofia, per quanto sedicente «filologo», potesse prescindere nel proprio lavoro da un ripensamento analogo, anche se forse inconsapevole e ricalcato su modelli altrui. Hegel era dichiarato il primo filosofo ad aver riflettuto sulla storia della filosofia in quanto identica alla filosofia (qui la sua originalità rispetto ai predecessori, fra i quali Aristotele), il rimprovero a lui mosso di «costruttivismo», o apriorismo, veniva in sostanza respinto e Croce era preso di mira in una lunga nota per aver trovato da obiettare in Teoria e storia della storiografia (1917, 19202) contro l’antica fiducia gentiliana nella riducibilità della filosofia a un solo problema fondamentale (ribatteva Gentile: «per negare l’unità del problema, bisognerebbe rinunciare alla dottrina del concetto come svolgimento», Teoria generale dello spirito come atto puro, 19244, p. 187). La storia della filosofia era descritta con accenti vichiani come «ideale ed eterna», ma nel senso affatto peculiare del suo compimento nell’atto di essere pensata da parte del filosofo in qualità di storico – un atto perfetto nel suo accadere, sebbene racchiuso nel trascorrere del tempo. Infine, era lasciato aperto a indagini a venire se la storia della filosofia riassumesse in sé ogni altra storia, secondo quanto prefigurato negli scritti precedenti, oppure se all’arte, alla religione, alla scienza e alla vita corrispondessero altrettanti generi storici separati. Da questa sistemazione del celebre motivo della circolarità di filosofia e storia della filosofia Gentile mai più si discostò fino alla morte e sotto il peso di tale dottrina – una sorta di rivisitazione in chiave speculativa di alcuni classici motivi della riflessione metodologica sulla storia in tema di obiettività – la sua figura di storico della filosofia finì per rimanere soffocata. Complice anche l’avvenuta rottura con Croce, cresciute di importanza le considerazioni politiche durante e dopo il fascismo, l’elogio contenuto in Il caso Gentile fu quasi scordato, il destinatario non lo ravvivò con nuovi studi originali e anche i suoi allievi presto si distolsero dalle ricerche storiche cui dapprima erano stati avviati, per coltivare di preferenza interessi teoretici (oppure si volsero a Croce, come fecero via via Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Guido Calogero). In Italia l’esercizio della storiografia filosofica a partire dal secondo dopoguerra prese perciò un indirizzo sempre più divergente da quello di un predecessore nel quale il momento «speculativo», quando non anche l’intento polemico, di fatto riusciva soverchiante nei principi e nella prassi. Basti ricordare i contributi di Nicola Abbagnano, Antonio Banfi, Mario Dal Pra, Eugenio Garin, Giulio Preti, Paolo Rossi e altri ancora alla riflessione teorica sulla storia della filosofia durante gli anni Cinquanta, animati sia pur con diversità di accenti da una comune volontà di rottura con il modello gentiliano e con le sue formule sempre meno persuasive.
Alla luce di questo esito i lavori di Gentile come storico della filosofia anteriori alla conclusione della Prima guerra mondiale appaiono oggi formare a loro volta un problema storiografico. La ricorrente tentazione, dopo il 1945, di ridurli a un esercizio propedeutico allo sviluppo di un sistema di pensiero personale, o di condannarli come esempio di una storiografia tendenziosa, si offre troppo ghiotta per sfuggire al sospetto di costituire altro che una liquidazione affrettata. Senza dubbio le scansioni cronologiche fondamentali e i connessi giudizi di valore profusi nelle pagine gentiliane risentono della prospettiva filosofica dell’autore e più non reggono all’esame. Il dualismo fra antichità e modernità, intese rispettivamente come pagana e cristiana, oggettivistica e soggettivistica, naturalistica e spiritualistica, tradisce i suoi limiti già attraverso le aporie che Gentile stesso si trovò ad affrontare, per le quali la scolastica medioevale e non poca filosofia razionalistica moderna (coincidente pressappoco con quella che Hegel chiamava «vecchia metafisica») finivano per stagliarsi come colossali sopravvivenze dell’antico nel moderno, fronteggiate fino a Kant solo da una minoranza di pensatori geniali (alcuni filosofi eterodossi nel Medioevo, i campioni dell’Umanesimo e del Rinascimento, Vico), i quali grazie al criticismo dovessero aver sperimentato una sorta di postuma rivalsa sui rispettivi avversari. Lo svilimento della portata anche teoretica del protestantesimo, qui in dissenso da Hegel, fino a stabilire un’opposizione tra la Riforma e il Rinascimento (esemplare ancora il saggio Filosofia italiana e tedesca, 1941, pur se altrove, in garbata polemica con lo zelo cattolico di Augusto Guzzo, le ragioni almeno filosofiche, se non filologiche, del ritratto hegeliano di Martino Lutero furono riconosciute valide), molto doveva alla tradizionale difficoltà, in Italia, di superare l’antitesi fra religione e libero pensiero, ma anche alla volontà di favorire una parziale rivalutazione del cattolicesimo, inteso come elemento essenziale, seppur problematico, della cultura nazionale, la quale sembrava a Gentile dover molto della propria rinascita morale durante la Restaurazione proprio a quella vena religiosa.
L’antinomia fra immanenza e trascendenza, riproposta senza tregua, serviva perlopiù a tracciare una discutibile genealogia dell’attualismo, quale fu sviluppata sotto forma di una breve rassegna storica, da Platone fino a Gentile stesso, nel saggio Il metodo dell’immanenza (in La riforma della dialettica hegeliana), spesso con il solo risultato di valorizzare in maniera forzata un pensatore in quanto mero anticipatore di un altro successivo. La scarsa sensibilità, per non dire incomprensione, verso il contributo filosofico originale apportato dalle correnti empiristiche e illuministiche sei-settecentesche, sebbene condivisa con molta parte del Romanticismo europeo filtrato dai maggiori autori risorgimentali (con la sminuita eccezione di Carlo Cattaneo), risentiva di una peculiare nozione di quel che dovesse intendersi per attività filosofica, incompatibile con siffatti orientamenti antimetafisici e perfino con la tipologia sommariamente attribuita a quegli intellettuali, specie in Italia: il gentiluomo letterato e il funzionario di corte, rei di passività politica e ignavia (per quanto assai diverso gli apparisse il caso di Vittorio Alfieri e Vincenzo Cuoco, araldi già di una nazione nuova). Infine, il severo giudizio su alcuni importanti filoni della filosofia contemporanea anche italiana, in particolare il positivismo e il neokantismo, rientrava nell’ambito di una polemica immediata, strumentale, volta ad affermare la superiorità della tradizione stessa di appartenenza di Gentile, facente capo a Spaventa o più in generale all’hegelismo napoletano. Eppure, ferme restando le storture così elencate, sarebbe riduttivo valutare la storiografia filosofica gentiliana solo a partire da queste sue coordinate generali, per quanto influenti su di essa e tali da limitare la sfera di temi e autori cui fosse possibile dedicarsi con profitto.
Gentile, considerato come storico, fu in buona sostanza uno specialista di storia della filosofia italiana la quale, sul suo esempio, finì per costituirsi quasi alla stregua di un genere separato, a lungo resistente alla scomparsa stessa dei presupposti ottocenteschi di tale distinzione e dell’ingenua fede nella superiorità dell’attualismo. Solo in parte, però, fu il responsabile di un’insufficiente collocazione di correnti di pensiero, autori e opere italiane nel più vasto panorama internazionale, così come non per ogni epoca, ma solo in certi snodi – esemplare per l’Italia il caso del Risorgimento – fu sua convinzione che la nazionalità davvero contasse per la filosofia (giusta l’introduzione a I problemi della scolastica e il pensiero italiano, 1913, 19232). Fu uno storico della filosofia intesa soprattutto come «movimento di idee» (così in La rinascita dell’idealismo), di conseguenza esposto al fascino di un procedimento ricostruttivo di marca spiritualistica dove i singoli pensatori fungessero da portatori di principi necessari e si lasciassero incasellare in schemi astratti – il corrispettivo idealistico di una schematica riduzione, anch’essa opinabile, del mondo dello spirito alle influenze economiche e ambientali, quale veniva da lui imputata a positivisti e materialisti. Fu un polemista che scriveva di storia anche per saldare i conti con gli avversari viventi e defunti della tradizione di pensiero da lui tratteggiata come propria e fatta trionfare a ogni costo (si pensi alla solenne chiusa delle Origini della filosofia contemporanea all’insegna di Spaventa e Jaja), ma non perciò arbitrario in tutti i suoi giudizi. Pur nella fedeltà a questi tratti caratteristici del metodo e approccio spaventiano – per noi inaccettabili, sebbene non ugualmente determinanti in tutte le sue opere – fu anche uno studioso innovativo, capace di addentrarsi in territori poco esplorati. Senza riandare ai suoi esordi come studente, a quelle sue esercitazioni normalistiche su Giovanni Rucellai e Antonfrancesco Grazzini che rimasero la traccia di una precoce vocazione letteraria ed erudita, presto soppiantata da quella filosofica, basterà ricordare tre aspetti di questa attività storiografica irriducibili ai modelli offerti da Hegel o da Spaventa.
In primo luogo, l’attitudine spiccata alla riscoperta di autori caduti in ombra, quali Spaventa stesso, ma in certa misura perfino Rosmini e Gioberti, Genovesi e Galluppi, che sulla soglia del Novecento a molti apparivano ormai come antenati dei quali non mettesse conto far mostra. Un esempio affatto caratteristico di questa propensione da storico autentico fu il risalto dato al dimenticato Giovanni Gualberto De Soria quale trattatista settecentesco sul metodo storico (nella citata Contribution à l’histoire de la méthode historique). In secondo luogo, l’attenzione rivolta alle figure minori, non sempre benevola invero, né ben documentata in tutti i casi, ma indizio della consapevolezza che gli storici della filosofia avessero non solo da percorrere avanti e indietro la galleria degli eroi del pensiero (secondo la nota metafora hegeliana), ma anche da introdursi presso quei più umili autori che con la loro attività di suggeritori, propagatori o epigoni avessero dato consistenza numerica e durata alle maggiori correnti filosofiche e avessero meritato almeno per la storia della cultura. In terzo luogo, infine, la sensibilità per la mutevole geografia del sapere filosofico inteso in senso lato, culminante nelle raccolte di precedenti studi dedicati da Gentile alla Sicilia (Il tramonto della cultura siciliana, 1919), al Piemonte (L’eredità di Vittorio Alfieri, 1921-1922), alla Toscana (Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, 1922), qui certamente sotto l’influenza crociana e sia pur in presenza di lacune che nel caso di altre regioni italiane poterono apparire vistose e indussero la storiografia posteriore a compiere opera di riparazione.
Forse anche in conseguenza di questi spiccati tratti della sua sensibilità come storico della filosofia, non facili da subordinare all’esecuzione di un singolo grande lavoro di scavo – dunque non soltanto a causa della sua prevalente vocazione speculativa –, Gentile mai arrivò a redigere una compiuta monografia anche solo su di uno fra gli autori a lui cari, che rimasero in fondo quelli già raccomandati dal magistero di Spaventa, nonché di De Sanctis e Croce. Non la realizzò nel caso di Hegel, nonostante le promesse fatte in privato a Croce (Gentile a Croce, lettera del 4 agosto 1903) e in pubblico su «La Voce» (La chiesa hegeliana, 18 febbraio 1909). Non la realizzò nel caso di uno qualsiasi tra i maggiori filosofi italiani del Rinascimento, o di Vico, pur non senza rimpianti espressi in età avanzata (eloquente l’avvertenza alla terza edizione di Il pensiero italiano del Rinascimento, 1940) e sebbene il talento storiografico e anche filologico gentiliano sembrasse esercitarsi al meglio proprio in questi ambiti (le classiche edizioni bruniane, o di scritti mai prima pubblicati di Cristoforo Landino, quella del De immortalitate animae di Pietro Pomponazzi ecc.). Il volume vichiano (1914) e quelli rinascimentali (1920 e 1923) videro perciò la luce come raccolte di articoli, recensioni e conferenze.
Originali le intuizioni del primo circa la stratificazione dell’opera di Vico, le sue ascendenze barocche, benché la suddivisione di una produzione così magmatica in tre fasi obbedisse anche a un certo schematismo spaventiano. Profonde le vedute dei secondi circa alcune singole figure del Rinascimento, soprattutto Bruno e Bernardino Telesio, che si trattava di sottrarre una volta per tutte (De Sanctis e Spaventa, ma ancor più Fiorentino e Tocco non erano passati invano) alla loro superficiale classificazione come particolari esponenti di un movimento assai più grande, semplici anelli di congiunzione fra la riscoperta umanistica degli antichi e la sapienza fattasi adulta dei moderni. Proprio alle radici tardomedioevali del fenomeno Gentile venne dedicando quasi negli stessi anni i succitati Problemi della scolastica, le analisi su Francesco Petrarca, composte anch’esse per la Storia della filosofia italiana, gli studi danteschi, raccolti dopo la morte da Vito Antonio Bellezza in un volume separato (1965), sebbene tutti questi autori e forse ancor più quelli rinascimentali sempre di nuovo riuscissero esposti al rischio di una sommaria trasfigurazione delle loro dottrine in senso attualistico, favorita dall’uso di categorie che nella prosa gentiliana pretendevano una certa assolutezza (monismo, naturalismo, immanentismo ecc.), salvo dilatarsi o restringersi nell’applicazione ai singoli testi per la necessità dell’interprete di fronteggiare tramite artifici impreviste risorgenze di schemi di pensiero che lo scrittore in esame era parso un attimo prima aver per sempre abbandonato. Le vere e proprie monografie rimasero dunque quelle giovanili, Rosmini e Gioberti, Dal Genovesi al Galluppi, ossia due opere non ancora segnate fino in fondo dall’attualismo e tuttavia già ispirate alla discutibile nozione di uno sviluppo tutto intrinseco al pensiero (donde la loro sia pur relativa compattezza), quale l’autore tentò di rinvenire in seguito, con risultati assai più disuguali, anche nel posteriore cammino della filosofia italiana ripercorso nelle Origini e scandito non a caso secondo le quattro astratte fasi platonica, positivistica, neokantiana e hegeliana. Fu così che le migliori qualità di Gentile come storico della filosofia si esplicarono di preferenza negli scritti di minor mole, o in singole sezioni delle opere maggiori.
Il contributo gentiliano alla storiografia filosofica e alla riflessione teorica su di essa non si limitò tuttavia alla pubblicistica, ma provenne anche dai corsi di lezione (specie fra il 1912 e il 1921, dei quali sono conservati appunti e trascrizioni inedite) e forse vieppiù da quell’infaticabile attività come organizzatore di cultura che da varie parti si suole riconoscere al filosofo siciliano come sua dote peculiare. Molteplici le singole iniziative editoriali (per Morano, Laterza, Sandron, La Nuova Italia, Sansoni); inclusi, come ovvio, temi di filosofia e storia della filosofia anche in numerose voci dell’Enciclopedia Italiana. Ma soprattutto la rivista fondata da Gentile all’alba di quella che sarebbe dovuta essere la nuova Italia vittoriosa forgiata dalla guerra, ossia il «Giornale critico della filosofia italiana», volle proporsi fin dal proemio a firma del direttore (10 ottobre 1919) come palestra dove una nascente generazione di studiosi avrebbe potuto dar corpo alle idee gentiliane circa l’identità di filosofia e storia, di filosofia e storia della filosofia, circa il sacro dovere per gli italiani di promuovere attraverso la critica la tradizione filosofica patria e favorire una palingenesi non soltanto intellettuale, bensì analoga a quella che i futuri pensatori del Risorgimento avevano avviato all’indomani delle guerre napoleoniche.
Proprio la lunga attività della rivista, prima e dopo la morte del fondatore, si sarebbe incaricata di mostrare quanto difficile, se non addirittura impossibile, fosse mantenersi fedeli alla sintesi di teoria e pratica della storiografia filosofica tentata da Gentile, da lui stesso forse mai davvero attuata, quanto presto tendessero a separarsi l’ispirazione propriamente speculativa dell’attualismo e la ricerca storica che a quest’ultimo pur si voleva accompagnata, quanto labili fossero i confini nazionali se applicati alla filosofia, quanto controversa fosse infine la nozione, già in sé polemica, di quel che dovesse valere come «critica» (non fredda «analisi», estranea alla «vita» – aveva proclamato Gentile – ma «ripensamento» della vita nazionale stessa), se solo il fascino personale del direttore e l’impressione di novità del suo pensiero avessero cessato di agire sui collaboratori. E tuttavia fu Gentile stesso a promovere e accogliere sul «Giornale critico» contributi storiografici, anche stranieri (ben noti i casi di Paul Oskar Kristeller e Karl Löwith), irriducibili al suo magistero. Nume tutelare o idolo polemico, Gentile storico della filosofia e teorico di questa disciplina ha costituito a lungo un pomo della discordia, via via più strumentale e inconcludente quanto più lontana dal periodo di concreta influenza dell’autore. Lo studio della genesi ed effettiva originalità dei suoi lavori storico-filosofici, l’esame della loro maggiore o minore corrispondenza ai presupposti teorici più o meno dichiarati sembra costituire la sola via di uscita, oggi ormai battuta, rispetto a un’alternativa assai poco invitante per studiosi non prevenuti: quella fra un insopportabile ritorno dell’identico (contese ormai più che semisecolari riscaldate a turno da improbabili zeloti) e un oblio ingeneroso.
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G. Gentile, Il concetto della storia della filosofia, a cura di P. Di Giovanni, Firenze 2006 (contiene i contributi di: C. Cesa, La “mistica” e il “problema filosofico”, pp. 81-96; G. Cotroneo, La polemica con Croce, pp. 97-119; F. Rizzo, «Ma questa prolusione [...] è un atto solenne». La svolta verso l’attualismo, pp. 121-76; A. Savorelli, Pisa/Palermo. Le lontane prolusioni di Gentile e di Jaja, pp. 177-96; L. Malusa, Rilevanza “dialettica” della concezione gentiliana della storia della filosofia (anche oggi, malgrado tutto), pp. 197-231; G. Cacciatore, L’unità di storia filologica e logica speculativa. Gentile e la storia della filosofia, pp. 233-48).