mente, filosofia della
La riflessione sulla mente è antica quanto la filosofia, ma è solo nel Novecento che la filosofia della mente si è resa disciplina autonoma. I prodromi della concezione moderna della mente vanno ricercati nell’opera di Cartesio, che concepisce la mente come interamente cosciente e ontologicamente autonoma rispetto alla corporeità. Le successive evoluzioni concettuali che culminano nell’opera di Freud mostrano che la mente è un ‘oggetto’ assai più complesso, che va ben al di là della percezione dei fenomeni coscienti. Verso la fine dell’Ottocento la riflessione sui fenomeni mentali inizia ad avvalersi di metodi sperimentali ma è solo a metà del secolo successivo che nasce un’autonoma branca della filosofia che si occupa dell’epistemologia e dell’ontologia della mente. Dopo la metà del secolo, viene messa in crisi l’idea materialistica della riduzione degli eventi mentali a quelli fisici e la riflessione teorica procede nel senso della identificazione delle peculiarità dei processi mentali e del loro rapporto con la realtà fisica. Infine, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso la filosofia della mente ha abbandonato la pura analisi concettuale ed è entrata in stretto contatto con la ricerca empirica, particolarmente con le scienze cognitive, le neuroscienze e la teoria dell’evoluzione, che nel frattempo hanno avuto un corrispondente, impetuoso sviluppo. [➔ cervello, evoluzione del; corteccia cerebrale; coscienza e autocoscienza; funzioni cerebrali superiori; intelligenza artificiale; mente e cervello]
La riflessione sulla natura e le proprietà della mente è antica quanto la filosofia, sebbene solamente da un secolo a questa parte la disciplina che se ne occupa statutariamente – la filosofia della m., appunto – si è resa autonoma dagli ambiti che l’avevano precedentemente inglobata (metafisica, epistemologia, psicologia razionale, etica). D’altra parte anche il significato e la rilevanza filosofica del termine mente sono mutati nel corso dei secoli. Nel suo significato filosofico originario esso rimandava al termine greco ψυχή, denotando l’anima rationalis aristotelica ma, allo stesso tempo era legato anche al termine ἄνεμσς («soffio, vento», da cui il lat. anĭma), che a sua volta rimandava a πνεῦμα (traducibile con «spirito»). A lungo, però, mens non fu termine centrale del lessico filosofico perché, nella stessa area semantica, assai maggiore importanza ebbe il termine, spesso considerato sinonimo, di anima. Questa situazione cambiò soltanto con Cartesio: secondo la visione cartesiana, infatti, la mente costituisce un ambito ontologico fondamentale, autonomo rispetto all’ambito ontologico della corporeità. Tutta la filosofia che nei secoli successivi si occupò di mente può essere interpretata come la storia di una progressiva, e forse solo parzialmente compiuta, emancipazione dalla visione cartesiana.
La tripartizione sviluppata da Platone nella Repubblica tra anima irascibile, concupiscibile e razionale può essere considerata come l’atto di nascita della riflessione filosofica sulla mente. A essa fa seguito l’influente riflessione di Aristotele che, proponendo una diversa tripartizione dell’anima (vegetativa, sensitiva, intellettiva), la concepisce come l’atto primo del corpo naturale, che in sé avrebbe vita solo in potenza. In seguito, il pensiero medievale sistematizza queste concezioni classiche, cercando di armonizzare la concezione dell’anima con le tesi teologiche e antropologiche proprie del Cristianesimo. È però solo in età moderna che il termine mente assume la centralità di cui gode ancora oggi nel vocabolario filosofico. L’autore centrale, in questo senso, è Cartesio che concepisce la mente in senso rigidamente dualistico, come un ambito ontologicamente autonomo rispetto alla mondo della corporeità. Cartesio attribuisce al concetto di mente le connotazioni fondamentali che il Medioevo attribuiva all’anima, incluse l’immortalità e l’immaterialità; tuttavia aggiunge l’idea che la mente sia perfettamente ‘trasparente’, nel senso che il soggetto è perfettamente cosciente di tutti i propri stati mentali (da quelli percettivi sino ai pensieri più complessi). L’intera riflessione filosofica successiva sulla mente può essere vista come una progressiva emancipazione dalle tesi fondamentali del cartesianismo. Già Goffried Wilhelm von Leibniz, seguito da Alexander G. Baumgarten e poi dalla tradizione romantica, mette in questione l’idea che della trasparenza della mente; ma è con Sigmund Freud (e poi con le scienze cognitive) che questa idea viene definitivamente abbandonata di fronte all’enorme messe di dati che mostrano l’assai maggior ampiezza dell’ambito del pensare, in tutte le sue gradazioni, rispetto ai fenomeni coscienti (➔ coscienza e autocoscienza). Ma è la progressiva erosione dell’idea che la mente sia immortale e immateriale – e, più in generale, del dualismo ontologico di cui tali idee sono espressione – che scandisce la riflessione filosofica moderna. L’empirismo, l’idealismo e il materialismo sono concezioni che, per quanto assai diverse tra loro, sono accomunate dal rifiuto del dualismo ontologico cartesiano e della visione della mente che esso ingloba. Tuttavia i tre autori che, sul finire dell’Ottocento, innovano radicalmente la riflessione sulla mente sono i tedeschi Franz Brentano e Wilhelm Wundt e lo statunitense William James. Brentano sostiene che la caratteristica distintiva del mentale non è la coscienza, ma l’intenzionalità (➔), ossia il necessario riferirsi dei fenomeni psichici ad altro da sé (per es., non c’è desiderio senza qualcosa di desiderato né credenza senza qualcosa in cui si crede). Wundt, oltre a impiantare il primo laboratorio di psicologia sperimentale, contribuisce all’elaborazione di una metodologia scientificamente appropriata per lo studio della mente, insistendo in particolare sul ruolo dell’introspezione. James, infine, nel suo monumentale Principi di psicologia (1890) reimposta in una chiave pragmatistica, molto attenta anche ai dati sperimentali, tutti i grandi temi filosofici riguardanti la mente.
Sebbene sia solo nella prima metà del Novecento che la filosofia della m. diviene branca filosofica autonoma, essa guadagna subito una notevole importanza. La ragioni principale della rapida fortuna di questa disciplina è forse il disaccordo che regna in quegli anni rispetto alla possibilità che sia la scienza a studiare scientificamente i fenomeni mentali – tant’è che, con una famosa boutade, Ludwig Wittgenstein (in Ricerche filosofiche, 1953) definisce la psicologia come il prodotto di «metodi sperimentali e confusione concettuale». Così, da un’ottica filosofica, John Dewey sviluppa il pragmatismo di James in direzione naturalistica, insistendo sul ruolo dei processi evolutivi nella formazione delle nostre capacità mentali. Nello stesso periodo Rudolf Carnap, neopositivista tedesco emigrato negli Stati Uniti, studia i concetti mentali dal punto di vista epistemologico e logico-semantico, tentandone la riduzione leggi ed enunciati osservativi. Tuttavia l’atto fondativo vero e proprio della filosofia della mente può essere considerato Lo spirito come comportamento (1949), capolavoro del filosofo inglese Gilbert Ryle. In quest’opera si attacca con decisione il dualismo cartesiano, asserendo che esso implica l’assurda idea che la mente sia una sorta di entità omuncolare, misteriosamente situata nel corpo, che ne verrebbe diretto nello stesso modo in cui le marionette sono dirette dal burattinaio. Nello stesso giro di anni, con modalità più sottili, anche Wittgenstein attacca con vigore opinioni diffuse dal chiaro carattere cartesiano, come quella secondo la quale un linguaggio irriducibilmente privato è possibile o quella per cui l’epistemologia fonda il sistema delle conoscenze sul mondo esterno a partire dalle credenze certe che il soggetto ha rispetto alla propria vita mentale. Un altro filone anticartesiano – spesso erroneamente accomunato alle posizioni di Ryle e Wittgenstien – è quello del comportamentismo filosofico (propugnato, per es., da Willard Van Orman Quine), secondo cui in realtà i termini mentalistici mediante cui descriviamo l’agire umano non rimandano a una misteriosa ‘vita mentale’ ma soltanto ai comportamenti e alle disposizioni pubbliche dei soggetti. Alcuni filosofi, come Herbert Feigl, John J.C. Smart e Ullin T. Place, infine, hanno sviluppato la teoria dell’identità dei tipi mente/cervello, che articola una risposta radicalmente materialistica al problema mente-corpo (ossia il problema che si pone quando si studia la relazione ontologica tra l’ambito del mentale e quello del fisico). Secondo questa teoria, ogni tipo o classe di eventi mentali (per es., credere che Berna sia la capitale della Svizzera oppure percepire il colore verde smeraldo) è identica a un tipo di eventi fisici, e più specificamente neurofisiologici. In questa prospettiva, analogamente a quanto si è dimostrato in molte branche della scienza (per es., con la riduzione della nozione di calore a quello di energia cinetica molecolare), i concetti mentalistici sono in linea di principio riducibili a concetti neurofisiologici.
A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso vengono mosse importanti obiezioni alla teoria dell’identità dei tipi. Molti autori insistono per es. sul fatto che le qualità soggettive delle esperienze coscienti (i qualia), in quanto irriducibilmente soggettive e ineffabili, sono irriducibilmente diverse dalle proprietà fisiche. Secondo un’altra critica, avanzata in particolare da Donald Davidson, tra i tipi di eventi mentali e i tipi di eventi fisici non può intercorrere una relazione di identità perché il mentale, a differenza del fisico, è intrinsecamente normativo e non spazialmente localizzabile. Ma l’argomento più forte contro la teoria dell’identità dei tipi si basa sul cosiddetto argomento della realizzabilità multipla degli eventi mentali, sviluppato in particolare da Hilary Putnam a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Secondo questo argomento, siccome la teoria dell’identità dei tipi presuppone che ogni evento mentale (per es., il provare dolore) sia identico con lo stato neurofisiologico che ne rappresenta il sostrato fisico, ne segue che tutti gli eventi di un determinato tipo mentale devono essere identici a eventi di un determinato tipo neurofisiologico. Ma ciò implica che in tutte le creature che hanno un determinato evento mentale dovrebbe occorrere lo stesso tipo di evento fisico. Le specie animali sono però profondamente diverse tra loro per anatomia e fisiologia: è semplicemente assurdo, pertanto, pensare che le realizzazioni fisiche degli eventi mentali possano essere tutte uguali, come afferma la teoria dell’identità dei tipi. Per rispondere a questa obiezione, in Mind in Physical World (2000) il filosofo coreano-americano Jaegwon Kim ha proposto di emendare tale teoria in senso intraspecifico: così, per la specie Homo sapiens la sensazione di dolore corrisponderebbe all’attivazione di determinati neuroni, laddove specie diverse attiverebbero meccanismi fisiologici sottostanti diversi; e ciò, secondo Kim, renderebbe possibile una «riduzione specie-specifica o locale» del fisico al mentale. Assai più popolare, tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del Novecento, è però stato il cosiddetto funzionalismo (che Putnam e Jerry Fodor svilupparono riflettendo sulla teorie linguistiche di Noam Chomsky).
Secondo questa teoria, gli eventi mentali non sono costituiti da presunte proprietà intrinseche, ma dalle relazioni causali che essi intrattengono con gli altri eventi mentali, con gli input sensoriali e con gli output comportamentali degli individui: e ciò significa che gli eventi mentali sono caratterizzati dal loro ruolo funzionale. Al contrario della teoria dell’identità dei tipi, dunque, la concezione funzionalistica è compatibile con la multirealizzabilità degli eventi mentali: infatti, secondo questa prospettiva specie biologiche diverse possono condividere le stesse proprietà mentali, in quanto il modo in cui queste sono fisicamente implementate non incide sul loro ruolo funzionale – analogamente a quanto accade con i software per computer che possono girare su diversi hardware. Anche contro il funzionalismo, tuttavia, sono state avanzate importanti critiche. Così, Ned Block ha mostrato che questa concezione presenta il duplice rischio di portare ad attribuire proprietà mentali anche a entità cui certo non attribuiremmo stati mentali, oppure di restringere aprioristicamente l’ambito del mentale alle manifestazioni da noi conosciute. Inoltre il funzionalismo è incompatibile con il cosidetto esternismo del contenuto semantico (sviluppato da Saul Kripke e dallo stesso Putnam), la teoria che critica l’assunzione, propria del cartesianismo, ma anche del funzionalismo, secondo cui il contenuto degli stati mentali è determinato soltanto dalle proprietà non-relazionali, interne, della mente/cervello. Per l’esternismo, invece, il contenuto è casualmente determinato anche da fattori (fisici e sociali) esterni al sistema mente/cervello. Va poi ricordato che negli anni Settanta e Ottanta la maggior parte dei filosofi della mente ha utilizzato il metodo dell’analisi concettuale, prescindendo completamente dai risultati della ricerca sperimentale. Uno dei contributi principali in questo senso è stato il ‘monismo anomalo’ di Davidson, concezione secondo cui ogni singola occorrenza di un evento mentale (ogni particolare credenza, desiderio, intenzione, ecc.) è identica a una corrispondente occorrenza di un evento neurobiologico, nel senso che uno stesso evento può essere alternativamente descritto per mezzo del vocabolario delle neuroscienze o in quello mentalistico; ma l’identità tra l’occorrenza di un evento mentale e l’occorrenza di un evento fisico non si estende però ai corrispondenti ‘tipi’ di eventi mentali e fisici. Due individui, così, possono avere due occorrenze dello stesso tipo di eventi mentali (per es., potrebbero credere che Oslo sia la capitale della Norvegia), ma tali occorrenze possono essere rispettivamente identiche a realizzazioni neurofisiologiche diverse tra loro. Da ciò segue che la relazione tra il livello dei tipi mentali e quello dei tipi fisici mentale e quello del fisico, secondo ;Davidson, c’è una relazione di sopravvenienza: ogni qualvolta due individui hanno le stesse proprietà fisiche, esso avranno anche identiche proprietà mentali, mentre non è detto il contrario. Un altro interessante caso di analisi concettuale applicata alla filosofia della m. è offerta dalla difesa da parte di Feigl, Paul Feyerabend e Richard Rorty dell’eliminazionismo, la teoria secondo cui il vocabolario mentalistico è espressione di una concezione (la cosiddetta psicologia del senso comune) sprovvista di ogni credenziale scientifica e che andrebbe abbandonata come un tempo fu abbandonata la chimica del flogisto. In questa prospettiva, concetti come quelli di credenza, coscienza o percezione sono solo residuati da archeologia della scienza. Altri due celebri casi di analisi concettuale molto discussi in filosofia della m. sono l’argomento della stanza cinese, sviluppato dallo statunitense John Searle, e l’esperimento mentale di Mary, la neurofisiologa cieca, proposto dall’australiano Frank Jackson. Searle immagina una ;situazione in cui un persona chiusa in una stanza ;riceve domande scritte in cinese (lingua che non conosce), ma può farvi corrispondere risposte ;correttamente scritte sempre in cinese, usando un manuale scritto in una lingua che invece conosce. Questa persona ovviamente non conosce il cinese, anche se risponde correttamente alle domande in quella lingua. Ma questo caso, osserva Searle, è del tutto analogo a ciò che accade con i computer e con tutti i sistemi computazionali; e ciò mostra che la semplice manipolazione di simboli (che è ciò che fanno i computer) non permetterà mai la completa comprensione dei significati. Jackson immagina invece il caso di Mary, una neurofisiologa cieca dalla nascita, che ha una conoscenza completa della neurofisiologia della visione ma quando riacquista la vista, e vede per la prima volta i colori, prova un’esperienza visuale che prima era per lei inimmaginabile. Il che, secondo Jackson, mostra che in linea di principio la neurofisiologia non può dare conto di tutto ciò che c’è da conoscere sulla visione.
A partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, la filosofia della m. ha profondamente cambiato il proprio statuto metodologico, abbandonando la pura analisi concettuale ed entrando in stretto contatto con la ricerca empirica, particolarmente con le scienze cognitive, le neuroscienze e la teoria dell’evoluzione. Un primo risultato di ciò è la rinnovata fortuna dell’eliminazionismo, non più basata però su pure analisi concettuali ma sull’uso di dati empirici provenienti dalle neuroscienze. In questa prospettiva, per es., Paul e Patricia Church;land hanno sviluppato modelli connessionistici che traducono in termini neurofisiologici i tradizionali problemi della filosofia. Un altro caso paradigmatico è quello degli esperimenti sui processi decisionali condotti dal Benjamin Libet (presentati nel testo Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza, 2004). Questi esperimenti hanno originato una vasta letteratura teorica e sperimentale e mostrano che, almeno nel caso di semplici decisioni motorie, l’impulso ad agire è avvertito consapevolmente dal soggetto circa 300 ms dopo che nel suo cervello si è verificato un rilevante incremento dell’attività elettrica cerebrale (il cosiddetto potenziale di prontezza) che corrisponde all’inizio di un processo causale fisiologico che conduce il soggetto ad agire; ma, se è così, le nostre intuizioni sulla libertà paiono vacillare, se non crollare del tutto. L’avvicinamento tra la filosofia della m. e la scienza si è comunque manifestato anche in molti altri ambiti. Leda Cosmides e John Tooby hanno, per es., sviluppato il paradigma della psicologia evoluzionistica, secondo la quale le funzioni mentali sono moduli cognitivi selezionati nel corso dell’evoluzione e instanziati nei circuiti cerebrali. In uno spirito simile, autori come Daniel Dennett, Dan Sperber e Marc D. Hauser hanno proposto spiegazioni evoluzionistico-cognitive di fenomeni tradizionalmente appannaggio delle scienze umane come l’etica o la religione o, più in generale, i fenomeni culturali. In questo nuovo quadro di collaborazione con le scienze cognitive e le neuroscienze, alla filosofia della m. paiono aprirsi oggi nuove feconde prospettive: e basterà citare in questo senso la fortuna del prefisso neuro- nel definire nuovi promettenti campi di studio, dalla neuroetica alla neuroeconomia, dalla neuroestetica alla neurofenomenologia.