linguaggio, filosofia del
Gli antecedenti della riflessione filosofica sul l. possono ritrovarsi nelle credenze e tradizioni di età arcaiche e popolazioni primitive circa i poteri della parola divina e umana: nell’inno vedico a Vac («la Voce») traspare l’idea che tutte le cose dell’Universo sono pervase da un’intrinseca vocalità, risuonino d’un loro nome; nell’esordio del Genesi la divinità biblica non crea mediante un fare, ma col semplice parlare; presso popolazioni diverse l’immediatezza con cui si avverte il rapporto tra segno e suoi possibili sensi, tra parola e suoi referenti, si traduce nella convinzione e nella pratica magica per cui la conoscenza del nome di una persona o di una cosa ne conferisce il dominio (da cui, per es., presso gli Aztechi l’abitudine d’una doppia imposizione del nome, una segreta e una pubblica).
Alle origini, la tradizione speculativa greca conserva ancora tracce cospicue di tali convinzioni magiche. Per Eraclito, una delle prove della intrinseca contraddittorietà del reale è che cose che divengono, si mutano, scorrono (per es., un fiume), hanno uno stesso nome in permanenza, sicché sussiste una guerra tra il permanere del nome e il continuo tramutarsi della cosa: il ragionamento regge solo se si assume che denominazione e consistenza materiale hanno lo stesso grado di realtà, vale a dire solo se si assume che un nome inerisce al fiume allo stesso modo che lo scorrere delle sue acque. Favorisce il persistere di queste convinzioni, per cui il nome è «connaturato» alla cosa, è φύσει, il glottocentrismo: per complesse ragioni storiche in Grecia dura più a lungo che altrove o, per dir meglio, dura in fasi di sviluppo culturale anche assai avanzato la credenza che la propria sia l’unica lingua «vera», pienamente umana e ragionevole, mentre gli altri popoli balbettano, sono, letteralmente, «barbari». Occorre aspettare l’eleatismo del pieno 5° sec. e la sofistica perché cominci ad affermarsi la consapevolezza del carattere convenzionale e non naturale delle denominazioni con cui una lingua inquadra l’esperienza. Che i segni linguistici in rapporto ai loro possibili referenti siano νόμῳ, «in forza di legge», si fa chiaro in Democrito e in Platone. A quest’ultimo dobbiamo la prima estesa trattazione superstite interamente dedicata al linguaggio, il Cratilo (➔), dialogo in cui Socrate ironizza sulle tesi della scuola eraclitea (cui appunto appartenne il filosofo che dà nome al dialogo) secondo cui i segni ineriscono naturalmente alle cose e le qualità fonetiche dei significanti riflettono le essenze intime delle cose denominate: per Platone, invece, come emerge sia dal Cratilo sia da altri passi dedicati al l., la parola è «strumento» (ὄργανον) per denominare le cose, strumento forgiato dall’uomo. Parallelamente all’affermarsi del convenzionalismo, si elaborano le prime classificazioni dei fatti linguistici: ad ambiente sofistico vanno condotte le nozioni del genere grammaticale, di modi verbali, di vari tipi di intonazione e, forse, di proposizione; in Platone troviamo una prima netta distinzione tra nome in funzione di soggetto (ὄνομα) e predicato (ῥῆμα). Sotto il profilo della precisione e ampiezza dell’analisi grammaticale la coeva tradizione grammaticale indiana, culminante nell’opera di Pāṇini (➔), si presenta certo più avanzata. Ad Aristotele la tradizione greca e, di riflesso, la tradizione dell’Occidente europeo debbono la prima sistemazione delle teorie e delle conoscenze intorno al linguaggio. All’analisi dei fatti linguistici Aristotele non giunge tanto sotto la spinta di interessi eruditi (esegesi omerica) o naturalistico-enciclopedici, ma per ragioni che costituiscono parte essenziale del nucleo della sua ontologia e della sua logica. Contro le corrosive forme di scetticismo maturate agli inizi del sec. 4° in Grecia, Aristotele ritiene di dovere opporre che, se pur tutto risulti controvertibile, non è controvertibile la dizione: o lo scettico tace o, se parla, qualunque cosa egli dica, dice una parola il cui rapporto con il suo senso è quel che è, altrimenti la parola stessa sarebbe insensata e il parlare sarebbe equivalente al tacere. Così la ‘dicibilità’ è la garanzia ultima e non removibile della possibilità di identificare rapporti non contraddittori e, quindi, di costruire certezze razionali e una società giusta. Il linguaggio si presenta dunque come una base indiscutibile per la ragione e, nelle sue partizioni e strutture, riflette partizioni e strutture della realtà, per la cui conoscenza esso è un accesso privilegiato. Da ciò, fin dal De interpretatione, una costante attenzione per le forme linguistiche, la quale porta Aristotele a edificare una completa dottrina della lingua. Le parole, in rapporto alle cose, sono κατὰ ξυνϑήκην, ossia «per convenzione» o, come tradurranno i Latini, ad placitum, «per decisione arbitraria», o ex instituto, «per consuetudine». Esse si distinguono in nomi, designanti alcunché, e verbi, designanti alcunché μετὰ χρόνου, «con indicazione del tempo»; accanto a queste due categorie stanno le particelle (che è incerto se Aristotele suddistinguesse in più categorie, dato lo stato fortemente interpolato e corrotto dei maggiori testi a ciò relativi). Le parole, diversamente dalle voci animali, si articolano in elementi, gli στοιχεῖα o γράμματα, la cui classificazione articolatoria è portata assai avanti da Aristotele, rivelando un interesse fonologico assente nella posteriore tradizione grammaticale greca. Il rapporto tra i corpi delle parole e le cose designate è mediato dai παϑήματα τῆς ψυχῆς, «impressioni dell’anima», che sono «eguali per tutti»: Aristotele riconosce il carattere convenzionale e arbitrario delle forme linguistiche soltanto in rapporto al versante significante; i valori significati sono a suo avviso, come le cose stesse, entità di natura universale, che si impongono agli uomini senza possibilità di scelte, omissioni, varia partizione. Le dottrine aristoteliche furono riprese e svolte dai primi stoici: a questi, e ai primi peripatetici, risalgono le elaborazioni e definizioni di categorie grammaticali come i casi nominali, le costruzioni transitive, intransitive e assolute dei verbi, ecc. Di queste elaborazioni logico-linguistiche si servirono i filologi alessandrini come base e inquadramento delle loro descrizioni grammaticali del greco, ricalcate poi dai primi scrittori di grammatica latina. La visione che aristotelici e stoici ebbero del linguaggio fu di tipo fenomenologico e descrittivo. Vi fu tuttavia nel mondo classico un filone, recessivo, che vide nelle lingue il risultato e la condizione delle divergenti evoluzioni e situazioni culturali dei vari popoli: troviamo in Epicuro e Lucrezio le elaborazioni più sistematiche di questo punto di vista (e Lucrezio sarà non a caso un punto di partenza delle riflessioni di Vico); e tracce significative possono reperirsi in considerazioni di Cicerone sulla traduzione e sulla incomparabilità semantica di parole greche e latine, nell’oraziano Multa renascentur (Ars poetica 70-71) e in Bardesane. Nella tarda antichità Agostino, Boezio, Isidoro riecheggiano (con originalità il primo) posizioni stoiche, aristoteliche, dottrine grammaticali ed etimologiche; Prisciano raccoglie in un corpus unitario le antiche dottrine grammaticali.
Questi autori costituirono la base delle conoscenze e delle teorie linguistiche durante il Medioevo fino all’affermarsi dei volgari e alla tarda scolastica. Il pensiero linguistico della scolastica, rimasto a lungo ignorato, si è in seguito andato rivelando ricco di contributi profondi e originali in materia di dottrine semantiche e sintattiche, certamente presenti ai logici e grammatici di Port-Royal. L’affermarsi dei volgari, d’altra parte, non è privo di riflessi in sede teorica: con le dispute letterarie e politiche che esso comporta in Europa tra il Duecento e il Cinquecento, l’affermazione dei volgari genera la consapevolezza del legame specifico, storicamente peculiare tra ciascun idioma e ciascun popolo ed età storica. È nel Convivio e nel De vulgari eloquentia che Dante offre i primi documenti di una concezione storicizzante delle lingue.
Tale concezione è destinata a precisarsi nel pensiero europeo del Seicento e del Settecento: le relazioni sintattiche e i significati lessicalizzati dalle varie lingue divergono da una lingua all’altra, da una ad altra epoca storica (F. Bacone, Locke, Vico, Leibniz, ecc.); i significati sono storicamente variabili in quanto fissati di volta in volta in rapporto a esigenze e caratteri della vita sociale dei vari popoli (Locke); le forme linguistiche condizionano la vita intellettuale, le elaborazioni concettuali, il pensiero (Hobbes, Berkeley, Hume, Hamann), cosicché le categorizzazioni dell’intelletto e il filosofare (come sottolinea Hamann in polemica con Kant) non sono degli a priori, degli assoluti, ma sono formazioni storicizzate e relativizzate dalla necessità di trovare un supporto nelle forme linguistiche che sono, a loro volta, storicamente relative. Dopo Kant, nella filosofia europea l’interesse per il linguaggio viene meno, né la linguistica, impegnata sempre più esclusivamente nella ricostruzione dell’aspetto fonetico delle protolingue, è in grado di ereditare la tematica delle filosofie empiristiche e razionalistiche del Seicento e del Settecento. In pratica, in materia di significato, struttura generale della lingua, ruolo del linguaggio nella vita mentale, riaffiorano nel corso dell’Ottocento le idee dell’aristotelismo antico e della tarda scolastica, riflesse nei testi grammaticali di Port-Royal, la cui fortuna dal Seicento all’Ottocento è immensa e quasi incontrastata nelle scuole di tutti i paesi. Solo a cavallo tra i secc. 19° e 20° in ambiti culturali assai diversi si riaccende l’interesse per le attività simboliche: Peirce, seguito poi da Dewey, negli Stati Uniti, Marty e Frege nell’Europa centro-orientale, Russell e Moore in Inghilterra, Wittgenstein e i neopositivisti del Circolo di Vienna in Austria e, dopo la diaspora provocata dall’annessione tedesca (Anschluss), nei paesi anglosassoni insieme ai filosofi analitici, Cassirer in Germania, Croce in Italia, ripropongono, naturalmente con assai varia accentuazione e articolazione, i temi della filosofia del l. prekantiana. Nello stesso tempo, sotto la spinta della critica elaboratane da F. de Saussure, anche la linguistica riprende in esame temi filosofici e, con lo strutturalismo (➔), tenta di elaborare una teoria generale del linguaggio e della lingua su un piano analitico e sempre più accentuatamente formalizzato.