diritto, filosofia del
Disciplina che indaga la complessa fenomenologia dell’esperienza giuridica, ricercandone il senso profondo attraverso una riflessione sul fondamento del diritto e dell’idea di giustizia ( ➔), sulla natura della legge, sui rapporti del diritto con la morale e la politica, l’economia e la società, sui meccanismi di legittimazione e delegittimazione dello Stato, sui presupposti logici che sorreggono la pretesa di una conoscenza scientifica del diritto e sulle metodologie argomentative che ne scandiscono il funzionamento quotidiano. Le diverse risposte date a questi problemi possono essere utilmente esaminate seguendo lo svolgimento storico della filosofia del d., da cui emerge una stretta corrispondenza tra il concepimento e la rappresentazione della realtà giuridica e quelle visioni della realtà in generale che esprimono nella forma più chiara e immediata i tratti caratteristici di un’epoca. Sotto questo aspetto possiamo distinguere nella storia della filosofia del d. tre fasi: (1) la fase dell’antichità classica greco-romana in cui la realtà giuridica fu considerata come un aspetto della realtà naturale; (2) la fase medievale in cui il diritto fu considerato come aspetto della realtà spirituale trascendente; (3) la fase moderna in cui la realtà giuridica venne concepita come produzione del soggetto empirico o razionale. A queste tre fasi va aggiunta una quarta, la fase contemporaneo-attuale, talmente differenziata al suo interno da renderne difficile una definizione unificante.
I Greci ebbero profonda la fede in un ordine naturale. In tale ordine essi cercarono le ragioni e il fondamento del diritto, il criterio assoluto per valutare la giustizia delle istituzioni esistenti. Perciò il diritto apparve di preferenza ai Greci nel suo aspetto oggettivo, come una norma di condotta civile derivata dalla natura delle cose. Finché la natura fu intesa come un principio materiale e il soggetto non si distinse da essa come principio autonomo, il diritto si rivelò come un aspetto di quella fisica necessità che governa il mondo naturale. Perciò Eraclito poté definire la giustizia: «la fisica necessità che mantiene ogni cosa nel proprio ordine e nel proprio corso». E Pitagora modellò sull’ordine e armonia dell’Universo i rapporti sociali. Tuttavia già con i sofisti la fede nell’esistenza e nella intelligibilità di un ordine naturale è scossa, l’uomo empirico elevato a misura delle cose, l’origine umana, convenzionale della legge è affermata. Il diritto con Protagora si rivela come concetto di relazione, come un rapporto relativo tra le azioni e la legge positiva. Al diritto come relazione Socrate oppone il diritto come concetto. Socrate non dubita dell’esistenza di una giustizia naturale; ma più che affermarla occorre intenderla, cioè tradurla in concetto, conoscerla nelle sue note universali e costanti. Il problema della giustizia si risolve per Socrate nel problema di conoscere ciò che è giusto in sé, indipendentemente dalle mutevoli opinioni umane. L’ingiustizia è vizio dell’intelletto, non della volontà. Socrate perviene al concetto di legalità, che è la giustizia nei suoi caratteri formali, ossia universali e necessari e che come tale va rispettata indipendentemente dal suo contenuto. Morendo, Socrate rese omaggio al valore formale della giustizia. Con Platone la natura diventa idea e il diritto una realtà ideale che l’uomo apprende attraverso l’intelletto e attua nello Stato. Giustizia e Stato sono per Platone termini che si richiamano necessariamente. La sua repubblica è la celebrazione dell’idea eterna del giusto. La giustizia non è dell’uomo, ma dello Stato. Essa è ordine, armonia, unità. Più che norma la giustizia è attività, è principio organizzatore dello Stato, che attribuisce a ciascuno il suo, che impone a ogni classe sociale la sua funzione specifica. L’idea della giustizia non ha solo valore formale, non è un concetto che cerca fuori di sé il suo contenuto, ma è realtà e attività ideale che vive e si concreta nello Stato. Il punto di vista naturalistico non è superato perché l’idea platonica è presupposta allo spirito, è oggettiva, non soggettiva. Ma è superato il concettualismo astratto di Socrate, poiché l’idea che l’intelletto sciolto dai vincoli del senso intuisce, è realtà concreta, principio di verità e di azione. Con Aristotele la realtà naturale diventa l’unità della materia e della forma e passa, in virtù del moto, dalla potenzialità della materia alla varietà e molteplicità delle forme individuali. Se pertanto natura è attività degli esseri che si spiega secondo il loro fine, la giustizia naturale, cioè oggettiva, è attività dello Stato che si spiega in ordine al bene e alla felicità comune. E questo è possibile solo se l’uguaglianza tra gli esseri che insieme convivono è rispettata e garantita. Soggettivamente considerata, la giustizia è l’abito di volere e operare ciò che è giusto nei rapporti con gli altri. Perciò Aristotele chiama la giustizia virtù intera e sociale, informando essa tutte le forme di attività umana in rapporto ad altri. La giustizia generale si specifica in forme particolari secondo l’indole e il fine dei rapporti ch’essa è chiamata a regolare. Le condizioni soggettive e oggettive del diritto sono da Aristotele analizzate; ma anche per lui la giustizia non è propria dell’uomo, ma dello Stato, e questo a sua volta è istituzione naturale che sorge e si costituisce per educare con le leggi gli animi alla giustizia. Per gli stoici il concetto di natura si confonde con la ragione immanente alle cose; di conseguenza vivere secondo natura è vivere secondo questa ragione universale. Esiste pertanto un solo diritto, un solo Stato, non circoscritti nell’ambito della πόλις, ma estesi a tutti gli uomini raccolti nella civitas omnium maxima sotto la stessa legge, senza distinzioni di classi, di condizioni sociali, di nazioni. Senonché questa giustizia naturale oggettiva non è estranea all’uomo, anche se da lui non posta: dotato di ragione, egli partecipa alla natura universale e può ricavare dalla sua stessa natura la legge comune. Il giusto oggettivo diviene il giusto soggettivo e per la sua razionalità la persona umana diventa sacra: homo homini res sacra. L’uguaglianza di natura genera una fratellanza tra gli uomini e tra i popoli, che preannuncia il cristianesimo. La soggettivazione in senso empirico della legge naturale si accentua con gli epicurei, che la fanno derivare dai bisogni, dalla tendenza alla felicità insita nella natura umana. In accordo con tale tendenza gli uomini creano lo Stato e il diritto mediante un patto di reciproca garanzia. La natura, pertanto, invocata dai Greci a fondamento del diritto, da principio materiale si elevò con il tempo a principio ideale e razionale fino a umanizzarsi e a individualizzarsi negli stoici e negli epicurei. D’altra parte l’idea del giusto, estranea dapprima e contrapposta all’uomo, andò con il tempo soggettivandosi nelle forme del concetto e dell’idea in una prima fase, come esigenza della natura razionale e sensibile dell’uomo in un secondo momento. Ma anche nell’ultima più progredita fase, se l’uomo poté svincolare l’idea del giusto dall’ordine politico, non riuscì a scioglierla dall’ordine naturale al quale egli stesso apparteneva e di cui rifletteva la legge e le finalità. Un processo inverso seguirono i Romani, i quali intesero dapprima il loro diritto come comando della volontà diretta dall’utile e dalla necessità (ius civile), per intenderlo progressivamente come una norma di equità (ius aequum ac bonum), come norma rispondente alla comune natura umana (ius gentium), e quindi, da ultimo, come espressione della ragione umana in armonia con la ragione universale (ius naturale). Dovevano pertanto incontrarsi con gli stoici e con questi ricercare nella natura delle cose il fondamento del loro diritto.
La filosofia del d. doveva riflettere nel Medioevo la nuova concezione della vita e della realtà sorta con il cristianesimo. Oggetto della speculazione non è più la natura impersonale, ma Dio concepito come pura spiritualità, come principio personale dotato d’intelligenza e di volontà infinita. L’umanità deve organizzarsi ai fini soprannaturali sotto la legge divina, alla cui realizzazione più che lo Stato con i mezzi del diritto, serve la Chiesa con la sua gerarchia e con i suoi ordinamenti. Lo Stato e il diritto hanno valore subordinato e strumentale, come le finalità temporali a cui servono. Dopo ciò si comprende come la speculazione giuridica medievale, piuttosto che a costruire nuovi sistemi e a spiegare e a giustificare le istituzioni positive, dovesse mirare a conciliare la vita religiosa con la necessità del diritto e dello Stato, a inserire il mondo giuridico nell’organizzazione universale della Chiesa. Fu una speculazione di compromesso nella quale uno degli elementi era il dogma cristiano, l’altro i sistemi di filosofia giuridica tramandati dall’antichità. Tra Platone e Aristotele la scelta cadde su Aristotele, la cui dottrina della giustizia e dello Stato fu rivissuta in armonia con il dogma cristiano. La via fu aperta da Agostino il quale illustrò e difese la dottrina dell’incondizionata supremazia della Chiesa sullo Stato. La Chiesa, come lo Stato, costituisce una civitas, ma solo la civitas Dei è destinata a trionfare. Lo Stato si giustifica come mezzo necessario a garantire la pace esterna, terrena, che è la condizione per la quale la Chiesa attua i suoi fini. Nella dottrina della pace si riassume l’aspetto più originale della filosofia del d. di Agostino. Pace è per lui sinonimo di ordine, di armonia, di coordinazione delle parti con il tutto. Ogni organismo ha un suo particolare interiore ordinamento per il quale esiste e si conserva: il corpo in rapporto alle sue membra (pax corporis); la creatura irrazionale nel regolamento dei suoi istinti (pax animae irrationalis); l’essere razionale nell’armonia dell’attività teoretica e pratica (pax animae rationalis). Analogamente, lo Stato è ordinata imperandi atque oboediendi concordia civium; e la civitas coelestis è ordinatissima et concordissima societas fruendi Deo et invicem in Deo. Questa dottrina agostiniana della pace, che rivela l’influenza platonica, doveva costituire elemento essenziale della concezione politica e sociale medievale. La legge dell’ordine è legge divina e naturale, è il vincolo universale che conserva il mondo fisico e morale, assegna a ogni essere il suo posto, la sua funzione, e costituisce l’essenza della giustizia. Particolare significato ha la dottrina della pace per l’etica, dove si rivela come principio di ordine interiore, cioè di freno e di misura delle tendenze sensibili e fa dell’individuo un membro armonico nella vita del tutto. La perfezione morale è sinonimo di pace con noi stessi, con i nostri simili, con Dio; per la pace l’uomo si garantisce contro i mali della vita terrena, conquista la salute dell’anima. L’ordinamento giuridico oggettivo non è che l’ordinamento pacifico, ossia organico dei rapporti umani. Tale ordinamento non si attua per sé, ma per l’opera dell’uomo; non basta conoscerlo, occorre volerlo e attuarlo costantemente nelle nostre azioni. Solo soggettivandosi si realizza. Esso è una conquista progressiva, né può mai attuarsi interamente nel tempo. In ciò consistono il fondamento e i limiti dell’ordine giuridico e politico. La speculazione giuridica medievale culmina nella dottrina della legge di Tommaso. Dio guida l’intelletto dell’uomo con la legge, ne rafforza la volontà con la grazia. La determinazione della legge costituisce per Tommaso il problema fondamentale. Esiste una lex aeterna che è la ragione divina che ordina e governa il mondo. Da essa deriva la lex naturalis, che è la partecipazione imperfetta, limitata, della ragione umana alla legge eterna. Per essa l’uomo, malgrado la corruzione originaria, riesce a distinguere, anche in mancanza di legge scritta e rivelata, il bene e il male. Esiste poi una legge positiva umana secundum quam disponuntur quae in lege naturae continentur. Il diritto positivo umano, come determinazione, specificazione, interpretazione della legge naturale, non può a questa derogare pur piegandosi alla diversità dei luoghi, dei tempi, delle persone, pur ispirandosi all’utilità individuale e collettiva. Ciò che è utile e opportuno non è perciò solo in contrasto con la legge naturale. D’altra parte per l’imperfezione dei più la legge umana ha una sfera d’azione più ristretta di quella dell’etica. Essa non può omnia vitia cohibere, sed graviora tantum, cioè quelli che minacciano le condizioni della vita sociale e a quibus possibile est maiorem partem multitudinis abstinere. Non sfuggirono al senso realistico di Tommaso i limiti tra la morale e il diritto. Non solo quest’ultimo si rivela con il carattere formale della positività, cioè della sanzione umana, ma i suoi precetti riguardano la moralità dell’uomo medio, cioè dell’uomo considerato non tanto in rapporto alle esigenze della vita religiosa e morale quanto in rapporto a quelle della vita esteriore sociale. Anche la nozione del diritto soggettivo acquista nel Medioevo cristiano nuovo valore. L’uomo è soggetto di diritto non in quanto è cittadino, ma in quanto è persona spirituale e morale. Egli non riceve i suoi diritti dallo Stato, ma da Dio, e quindi può opporsi allo Stato che li viola. Perciò la libertà non è solo esterna o civile, ma interna, sottratta a qualsiasi coazione esteriore: l’uguaglianza in cui la giustizia anche per Tommaso consiste, non si fonda in natura, ma nell’essenza spirituale e morale dell’uomo. Era spezzato nel Medioevo il vincolo che teneva avvinto l’individuo e il suo diritto alla natura e allo Stato, ma si costituiva il vincolo dell’uomo con Dio; esso non asserviva l’uomo, ma lo elevava accomunando tutti gli uomini in un ordine di giustizia e di uguaglianza ideale sopra la contingenza della loro diversa sorte terrena. L’uomo, non più strumento passivo di una realtà a lui estranea, si fa attivo cooperatore della giustizia. La quale non è più solo contemplata dall’intelletto, ma conquistata dal volere e dalla libertà dell’uomo che rivive in sé e nelle sue opere la giustizia eterna.
La fase moderna della filosofia del d. è in rapporto con il rivolgimento filosofico iniziato da Bacone e da Cartesio, tendente a risolvere la realtà naturale e soprannaturale in realtà del soggetto. Alla logica aristotelica formale succede la logica del soggetto che costruisce con il senso e con la ragione la sua scienza e tende alla certezza del vero. In rapporto alla nuova posizione del problema filosofico si svolge il giusnaturalismo (➔), cioè l’indirizzo che ricerca il fondamento del diritto nelle naturali tendenze ed esigenze della natura umana e trae da esse con il concorso della volontà e delle convenzioni umane l’ordine giuridico e politico. Fondatore del giusnaturalismo moderno è l’olandese Grozio il quale, astraendo da postulati teologici e da qualsiasi statuizione di diritto positivo, deriva il diritto naturale dalla natura sociale e razionale dell’uomo, lo concepisce come vincolo di unione e di conservazione della vita collettiva, lo distingue così dalla morale che governa i moti interiori dell’animo, come anche dalla politica che è prudente valutazione e distribuzione degl’interessi e dei beni comuni. La corruzione dell’umana natura ha offuscato la conoscenza del diritto naturale e ha reso impossibile la comunione di vita da esso regolata. Supplisce il diritto volontario che, fondandosi sul principio del diritto naturale, pacta sunt servanda, genera rapporti di obbligazione reciproca tra gli individui. Dal patto sorge anche lo Stato, che è l’unione pacifica, ordinata di uomini liberi per il godimento e il reciproco riconoscimento dei diritti e per la comune utilità. Lo Stato non soltanto sorge per garantire i rapporti convenzionali (ius aequatorium), ma esprime e difende anche l’interesse pubblico mediante norme aventi per oggetto rapporti di sovranità (ius rectorium). Per Hobbes il diritto di natura è esplicazione di libertà egoistica, affermazione di potenza di ciascuno contro tutti, per cui è sinonimo di ius belli. Lo ius pacis sorge in virtù di un pactum subiectionis, in virtù del quale gli individui convengono tra loro con patto irrevocabile di trasferire i loro diritti naturali senza condizioni alla persona del sovrano, la cui volontà è fonte esclusiva e misura del diritto. Il quale da diritto naturale diventa civile e ha per fine la conservazione della pace interna, cioè dello Stato personificato nel sovrano (Leviathan). Anche per Spinoza il diritto naturale è ipsa naturae potentia concessa a ogni essere ai fini della sua conservazione. Ma l’esperienza dei mali induce gli esseri dotati di ragione a crearsi un ordine civile, nel quale le esigenze dell’individualità e della socialità si esplicano sotto l’egida dello Stato nei limiti imposti dalla salus publica. Per Locke il diritto naturale è il diritto dell’uomo nello stato ipotetico di semplicità e d’innocenza originaria, che opera sotto l’impero della legge di natura, in conformità ai suoi naturali bisogni, secondo un ragionato calcolo di utilità. In questo stato naturale di pace, di mutua assistenza, gli uomini si riconoscono liberi e uguali e ognuno in relazione ai suoi bisogni si costituisce una proprietà mediante il lavoro e l’occupazione della terra comune. La libertà di cui ognuno gode nello stato di natura è sinonimo di indipendenza reciproca e questa è possibile soltanto se l’arbitrio di ciascuno è limitato. L’uguaglianza è la misura della libertà naturale. A garanzia dei loro diritti naturali gli uomini convengono di creare lo Stato e a esso affidano il potere coattivo e punitivo che essi traevano dalla natura. Il diritto naturale s’identifica pertanto, secondo Locke, con il diritto inalienabile dell’uomo alla libertà e alla proprietà nei limiti dell’uguaglianza. Rousseau doveva dimostrare che l’empirismo dei giusnaturalisti e dello stesso Locke se da un lato poteva spiegare il fatto del diritto nella sua genesi psicologica e sociologica, dall’altro non lo giustificava razionalmente. Il diritto inteso in rapporto alle naturali tendenze dell’uomo, può solo generare rapporti fondati sulla forza e sull’arbitrio. Ispirandosi quindi ai metodi del razionalismo cartesiano, Rousseau fa del diritto un prodotto della ragione collettiva, che gli uomini creano rinunciando a vivere secondo le leggi della loro natura empirica. I diritti dell’uomo da esigenze della natura sensibile si trasformano, per la mediazione dello Stato, in diritti della personalità razionale dell’uomo e come tali acquistano valore universale e morale. Kant riassume la speculazione anteriore superando nella definizione del diritto il punto di vista empirico e il punto di vista razionale. A lui si deve se la filosofia del d. poté costituirsi come disciplina autonoma. Nell’antichità, nel Medioevo, i problemi che oggi chiamiamo di filosofia del d. erano trattati come parte dell’etica. Nell’età prekantiana il problema dei rapporti del diritto con la morale assunse significato storico e si pose come un aspetto della lotta che l’individuo sosteneva contro lo Stato in difesa della propria libertà interiore. Thomasius prima di Kant aveva cercato di distinguere la sfera morale da quella del diritto in base a criteri formali (esteriorità, bilateralità, coattività) o a criteri fondati sulla finalità della norma (pace interna ed esterna). Kant cercò nella natura dell’attività pratica del soggetto il fondamento della distinzione. Tale attività essenzialmente libera può affermarsi o in rapporto alla legge morale, o nei rapporti esterni sociali. Nel primo caso si determina per il dovere in sé, nel secondo per motivi eteronomi soggettivi, per cui la conformità alla legge è solo esterna (legalità). La volontà che si esplica in vista di fini soggettivi è volontà economica, non ancora giuridica. La sfera del lecito non coincide con quella del diritto. La libertà esterna in cui il diritto consiste è un’idea di relazione, implica un rapporto tra due voleri; da cui la necessità di una norma di ragione regolatrice della libertà stessa. Tale norma si riassume nel riconoscimento e nel rispetto reciproco della libertà. La coesistenza delle volontà empiriche è condizionata alla norma razionale dell’uguaglianza delle libertà nei loro rapporti esterni; l’equilibrio di queste implica azione e reazione reciproca e quindi coazione. La stabilità di un sistema giuridico può essere concepita sul presupposto che ogni volere, qualunque sia il movente che lo spinge a operare, si mantenga esteriormente nei limiti imposti dalla legge di coesistenza senza la possibilità di sottrarvisi; perciò la coazione come potere di obbligare all’adempimento del diritto è condizione di libertà e si estende quanto la libertà stessa. Il diritto, ossia la libertà esterna, si realizza nello Stato e questo deriva dal contratto il titolo razionale di legittimità. Lo Stato kantiano serve ai fini del diritto e come tale è Stato giuridico. Nella filosofia del d. di Hegel convergono e trovano sistemazione le correnti di reazione da un lato, d’integrazione dall’altro del pensiero kantiano, correnti che si erano andate affermando nell’età del Romanticismo e dello storicismo per opera di Humboldt, Fichte, Schelling. Le nuove correnti tendevano a fare del diritto l’espressione dello spirito collettivo e ne intendevano la vita nelle forme dello svolgimento. La duplice esigenza si riflette nella concezione hegeliana dello spirito assoluto e del suo divenire dialettico. La sua filosofia del d. è tutta penetrata d’influenze romantiche e storiche e può concepirsi come una filosofia della storia applicata al diritto e allo Stato. Al diritto concepito nella sua essenza immutabile e sempre identica a sé, Hegel contrappone il diritto che si fa e diviene nella storia. Il soggetto in cui lo sviluppo si effettua è la volontà umana che da soggettiva nelle prime fasi diventa per gradi oggettiva: e oggettività significa moralizzazione del volere, superamento della propria individualità empirica, subordinazione a una realtà universale, affermazione di libertà non astratta, ma concreta e reale. Nel progressivo inserirsi dell’individuo nella collettività, cioè nella progressiva conquista della coscienza e della libertà di sé, consiste la ragione della storia e del mondo. E alla libertà l’umanità perviene mediante la coazione del diritto e dello Stato. Il punto di partenza del diritto è la volontà libera; la libertà è la sostanza del volere in tutti i suoi gradi; ma la volontà prepolitica è volontà e libertà soggettiva, naturale, immediata; è determinata dagli istinti, dai desideri, è solo relativamente razionale, cioè in rapporto al soggetto finito. A misura che la volontà si scioglie dalla naturalità diventa universale e morale, cioè assolutamente libera, non solo nella forma ma anche nel contenuto. Lo sviluppo del diritto e quello del volere si corrispondono; e lo sviluppo ha luogo per contrasti perennemente superati e rinnovati in un più alto grado. Al volere immediato corrisponde il diritto astratto, la libertà soggettiva, cui si oppone l’universale morale: dalla loro sintesi si generano le realtà etiche che si rivelano progressivamente nella forma della famiglia, della società, dello Stato. Soltanto in quest’ultimo il diritto si configura come libertà dello spirito oggettivo interamente realizzato. Kant e Hegel avevano tracciato le direzioni fondamentali della speculazione giuridica moderna. Non valsero ad arrestarne lo svolgimento né lo spiritualismo rinnovato di Rosmini, né il positivismo di Comte e di Spencer, di Roberto Ardigò e di Icilio Vanni. L’importanza di questi sistemi è in ragione del grado con cui essi, attraverso metodi e premesse diversi, esprimono l’esigenza fondamentale dell’idealismo di intendere il diritto nella totalità dei suoi rapporti, come espressione di una realtà superindividuale. Notevole è lo sforzo di Rosmini di ricondurre il dualismo tradizionale tra realtà e idea all’unità originaria dello spirito, d’intendere l’idea del diritto come misura e forma del reale, di far rientrare il bene sensibile, soggettivo, che è materia del diritto, nell’universalità dell’idea morale, la quale implica il riconoscimento pratico della persona, così che il rispetto della persona nella sua libertà naturale e morale costituisce l’essenza del diritto che si realizza come natura nel concetto di proprietà. D’altra parte agisce in Comte e in Ardigò la tendenza a intendere il diritto in funzione della vita sociale concepita nella sua unità organica. Di questa il diritto costituisce la forza specifica e riflette le leggi. In Spencer il diritto si rivela come un prodotto naturale dell’evoluzione universale che regola i rapporti esterni della vita associata così organica, come superorganica. Nel positivismo di Vanni penetra una esigenza critica la quale si accentua nell’indirizzo neokantiano rappresentato nella speculazione giuridica da Stammler e, in Italia, da Del Vecchio. Fondandosi sulla distinzione tra il concetto e l’ideale del diritto, il neokantismo operò a ricostruire l’universale logico, cioè la forma di ogni possibile esperienza giuridica, il presupposto, la condizione d’intelligibilità del diritto, non la causa del diritto effettivo e reale, lasciando però insoluto il rapporto tra il concetto e l’idea del diritto, tra l’ordine logico e l’ordine ideale. Il ritorno all’idealismo hegeliano espresse l’esigenza di ravvicinare e unificare la verità e la realtà, di concepire l’idea come principio e causa del reale, in contrasto con l’insegnamento kantiano secondo cui il concetto di una cosa non ne spiega l’esistenza. In Italia Croce e Gentile si fecero portatori di questa esigenza, epigoni novecenteschi di un idealismo giuridico che si rivelava saldamente legato alle sue radici ottocentesche. Croce risolve la filosofia del d. nell’economia e identifica il diritto con l’utile individuale. Tale identificazione si fonda sopra la dialettica dello spirito pratico, il quale si realizza nel diritto come volizione del particolare, come attività economica, che è forma essenziale di attività spirituale. L’attività legislatrice che pone le leggi non è che la forma astratta dell’attività giuridica; essa è volizione di una classe di azioni ed è solo giustificata da ragioni pratiche. L’attività giuridica concreta e reale è la volizione singola che si crea continuamente la legge del proprio operare economico, e che risolve nell’atto singolo la legge astratta. Per tal modo il diritto oggettivo è ricondotto al diritto soggettivo, all’attività utilitaria dello spirito individuale. Per Gentile il diritto è la natura nel mondo della volontà, la quale è concreta e reale e quindi morale se è attuale, cioè se è considerata nel momento in cui si realizza ponendosi come esterna a sé, come oggetto. Il diritto è il volere obiettivato nella legge, astratto dallo spirito che lo crea, e quindi volere naturalizzato che riveste i caratteri dell’esteriorità e della coattività. Solo in quanto è riassorbito nell’attività dello spirito, il diritto è libertà, è eticità. La storia non è che la risoluzione progressiva della moralità nel diritto e del diritto nella moralità in corrispondenza alla dialettica dello spirito che non può chiudersi nel voluto, ma deve tendere a superarlo, a ricrearlo continuamente per rivelarsi come attività libera, cioè morale. Il diritto non deve perciò intendersi separato dal soggetto; piuttosto deve intendersi come sua opposizione, suo limite, come condizione necessaria della sua libertà. L’idealismo di Croce e Gentile, fondandosi su una dialettica dello spirito individuale, portava logicamente a risolvere il diritto nell’attività utilitaria o in quella etica dello spirito. In ogni caso era negata l’autonomia della filosofia del d., suscitando così l’opposizione di coloro che ricercavano un fondamento proprio del diritto nella dimensione della socialità del diritto.
La filosofia del d. contemporanea è fortemente segnata dall’impresa teorica intentata da H. Kelsen e dai suoi seguaci – la cosiddetta Scuola di Vienna – alla fine del primo decennio del Novecento e continuata per buona parte del secolo. La teoria kelseniana, nei suoi tratti essenziali rivelatisi fin dalla sua poderosa opera d’esordio Hauptprobleme der Staatsrechtslehre entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatze (1911; trad. it. Problemi fondamentali del diritto pubblico a partire dalla dottrina della proposizione giuridica) e confermati attraverso le due edizioni della emblematica Reine Rechtslehre (1934 e 1960; La dottrina pura del diritto), fu portatrice di una concezione filosofico-giuridica fieramente antigiusnaturalistica a favore di una esclusiva considerazione del diritto positivo. La «purezza» della dottrina kelseniana del diritto consisteva tanto nel predicare uno studio del diritto non condizionato da giudizi di valore, soggettivi e irrazionali, quanto nel presentare la norma giuridica come mera forma in cui poter immettere qualsiasi contenuto, purché fosse prevista una sanzione quale conseguenza del comportamento da evitare. Kelsen, recependo gli insegnamenti epistemologici delle scuole neokantiane, prima, e neopositivistiche, poi, sosteneva, così, una irriducibile separazione tra diritto e morale e tra norma giuridica e norma morale, arrivando a definire la giustizia come un ideale irrazionale e battendosi per un relativismo etico quale condizione per la costruzione di una democrazia improntata sulla tolleranza. Subito dopo la Seconda guerra mondiale il dibattito fra filosofi del diritto si svolse sotto il segno della «rinascita del diritto naturale». Giuridicamente i regimi fascisti erano stati considerati come la necessaria conseguenza del positivismo giuridico, visto come una concezione giustificatrice di ogni norma posta e resa efficace dal potere politico effettivamente dominante in un determinato territorio. Si riteneva che dietro l’apparente neutralità della teoria secondo cui non vi è altro diritto che il diritto posto dallo Stato fosse celata l’ideologia secondo la quale ogni norma posta dallo Stato, per il solo fatto di essere posta, fosse anche giusta, e quindi da essere obbedita in quanto tale, cioè indipendentemente dal suo contenuto. Poiché si riteneva che le conseguenze di tale ideologia fossero state la negazione di ogni diritto di resistenza alla legge ingiusta e quindi l’acquiescenza a ogni forma di potere, se ne deduceva che il diritto di resistenza alla legge ingiusta potesse essere fondato soltanto sul riconoscimento di una legge superiore al diritto positivo e da questo indipendente, cioè di quel diritto che sin dalle origini era stato chiamato diritto «naturale». Ispirato in parte al principio di un diritto naturale vigente fra gli uomini indipendentemente da ogni statuizione fu il Tribunale militare internazionale di Norimberga (1945-46) contro i criminali di guerra; nelle nuove costituzioni (Francia, Italia, Germania, ecc.) furono riaffermati solennemente i diritti inviolabili della persona umana d’origine giusnaturalistica; il 10 dicembre 1948 l’ONU emanò la prima Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che estendeva a tutta l’umanità le dichiarazioni nate alla fine del Settecento dalle teorie del diritto naturale. Il primo autorevole interprete di questo rivolgimento fu Radbruch, il quale in un breve, ma presto celebre, saggio del 1946 sostenne che il positivismo giuridico era colpevole di aver ridotto il diritto alla forza e che in casi estremi d’ingiustizia, come alcune leggi naziste, la legge ingiusta non doveva essere considerata giuridica né dal cittadino né dal giudice. In parte sotto l’influsso di Radbruch, il primo importante trattato di filosofia del d. del dopoguerra – i Grundzüge der Rechtsphilosophie (1950) di Helmut Coing – faceva un esplicito appello al diritto naturale come «somma di massime giuridiche superiori che formano il fondamento del diritto positivo», e, l’anno successivo, Hans Welzel pubblicava una storia del diritto naturale, in cui il diritto naturale veniva considerato polemicamente, nei riguardi del positivismo giuridico e del formalismo, come un’etica materiale della giustizia. Una ripresa dei temi del positivismo giuridico venne condotta soprattutto da Hart che nel 1958, in una serrata discussione con il filosofo-giurista statunitense Lon L. Fuller, prese le difese del positivismo giuridico traendo argomento dalla separazione fra diritto e morale. Hart specificò quindi, nel 1961, il suo tentativo di superare la sterile contrapposizione di positivismo e giusnaturalismo con The concept of law (trad. it. Il concetto di diritto), opera destinata a essere, per molti anni, al centro del dibattito filosofico-giuridico. In essa Hart, pur riaffermando l’autonomia del diritto rispetto alla morale, lasciava spazio a un «contenuto minimo del diritto naturale», fondato su alcuni caratteri irriducibili dell’uomo come essere biologico e come essere sociale. Alla reazione contro il positivismo in nome del giusnaturalismo si affiancava la reazione contro il formalismo in nome del cosiddetto realismo, che chiedeva al giurista maggiore attenzione per i nessi fra diritto e società, e promuoveva un’apertura della filosofia del d. verso la sociologia giuridica. Axel Hägerström deve essere considerato quale capostipite di una scuola realistica scandinava, incardinata in una tradizione empiristica, che contò due fra i maggiori filosofi del diritto contemporanei, lo svedese Karl Olivecrona e il danese Alf Ross, entrambi attenti a descrivere la pressione psicologica che contraddistingue l’imperativo giuridico e impegnati a ridurre la classica problematica giuridica della validità delle norme e degli ordinamenti alla rilevazione della loro efficacia ed effettività. Allo sviluppo della teoria formale dell’ordinamento giuridico possono, invece, essere ricondotti gli studi di logica delle norme o ‘deontica’, che costituirono uno dei tratti salienti della filosofia del d. della seconda metà del Novecento. Avviata dal filosofo del diritto messicano Eduardo García Máynez, con Introducción a la lógica jurídica (1951), la logica deontica trovava il suo primo assetto per opera del logico finlandese Georg H. von Wright; quindi è stata variamente elaborata, con particolare riguardo al diritto, dal logico polacco Georges Kalinowski, autore, nel 1965, di una fondamentale Introduction à la logique juridique. Peraltro, via via che si andavano sviluppando gli studi di logica normativa si veniva sempre più precisando la differenza fra questa e la logica dei giuristi, intesa come l’insieme dei ragionamenti e degli argomenti che i giuristi impiegano nell’attività interpretativa delle norme di un sistema giuridico positivo. Si deve allo studioso belga Chaïm Perelman, autore, in collab. con Lucie Olbrechts-Tyteca, del Traité de l’argumentation (1958), la riaffermazione e la rifondazione della tesi secondo cui occorre distinguere rigidamente la logica del probabile, o retorica, dalla logica dimostrativa in senso stretto, e sulla base di questa distinzione la logica dei giuristi dev’essere ricondotta nell’ambito della prima. L’importanza della teoria dell’argomentazione per lo studio dell’opera dei giuristi nelle diverse epoche della storia della giurisprudenza trovò immediata conferma nel congresso internazionale di filosofia del d. svoltosi a Bruxelles nel 1971 (Le raisonnement juridique). La filosofia del d. degli ultimi tre decenni del Novecento risente fortemente e in varie direzioni dell’influenza del pensiero hartiano. Fu, infatti, allievo di Hart John Finnis, l’autore di un rilevante tentativo di reintrodurre un’ispirazione tomistica nel pensiero giusfilosofico anglosassone; fu successore di Hart nella cattedra di Jurisprudence a Oxford Ronald Dworkin che in diversi studi, tra cui il celebrato Taking rights seriously (1977; trad. it. I diritti presi sul serio), attaccando frontalmente giuspositivismo e utilitarismo, ha riproposto in maniera ineludibile il problema teoretico dei principi generali del diritto e della loro necessaria fondazione meta-positiva; e ancora prendeva le mosse dal pensiero hartiano lo sforzo teoretico, attuato negli anni Ottanta del Novecento, dal cosiddetto neoistituzionalismo giuridico – rappresentato soprattutto dalle opere di Ota Weinberger e Neil MacCormick –, di coniugare le esigenze del normativismo con una puntuale attenzione alle dimensioni istituzionali del diritto. Più vigorosa deve, però, essere considerata l’influenza del pensiero hartiano qualora lo si interpreti come il principale veicolo di diffusione di un generale indirizzo analitico che ha ben presto conquistato una posizione predominante nella filosofia del d. di tutta la seconda metà del Novecento. La filosofia giuridico-analitica ha trovato negli strumenti forgiati dalla filosofia del linguaggio un aiuto essenziale a riformulare criticamente un’esperienza, come quella giuridica, che attiene certamente alla prassi, ma solo attraverso peculiari formulazioni linguistiche. Attraverso l’analisi del linguaggio tutto il tradizionale lessico giuridico, tutto l’insieme dei concetti adoperati dai giuristi nel loro lavoro quotidiano ricevono una nuova dignità concettuale grazie a un più rigoroso uso della ragione, rivelata definitivamente nella sua dimensione di ragione linguisticamente strutturata. Originatasi in area anglosassone, la filosofia del diritto di indirizzo analitico ha avuto importanti sviluppi tra gli studiosi italiani grazie all’opera precorritrice di Bobbio e al lavoro di sistematizzazione di Uberto Scarpelli, iniziatori di un vasto movimento teorico particolarmente fertile di risultati nel campo della teoria dell’interpretazione giuridica e della definizione delle principali categorie giuridiche. A temperare l’affermazione dell’indirizzo analitico interveniva la crescente adesione, nello stesso periodo, a una nuova prospettiva ermeneutica, che trovava le sue radici nella cultura tedesca contemporanea, in quella però più sensibile al messaggio esistenziale heideggeriano rispetto alla via dell’indagine fenomenologica husserliana. Rispetto alla tradizionale teoria dell’interpretazione, disciplina dai forti connotati oggettivistici, tutta interna alla scienza giuridica, e in genere aliena da suggestioni filosofiche, il nuovo indirizzo ermeneutico ha preteso di portare anche nell’ambito dell’esperienza giuridica l’istanza di fondo della svolta ermeneutica del pensiero contemporaneo: «esistere è interpretare». Non si dà interpretazione del mondo, in nessuna delle sue dimensioni, se non a partire da una ‘precomprensione’, attraverso la quale l’interprete non solo si rapporta al mondo, ma ne individua altresì le dimensioni ritenute rilevanti. L’opera che più ha ispirato i cultori di questo nuovo indirizzo è Wahrheit und Methode (1960; trad. it. Verità e metodo) di Gadamer, uno dei maggiori testi filosofici del dopoguerra, che contiene altresì pagine essenziali sull’ermeneutica giuridica, nelle quali sono messe a frutto e vivacemente discusse le prospettive ermeneutiche di Betti. In tal modo l’ermeneutica giuridica si è rapidamente costituita come un nuovo e generale indirizzo epistemologico, esplicitamente orientato a superare l’incapacità della giurisprudenza di considerarsi e funzionare come teoria della prassi giuridica. Nella prospettiva ermeneutica, sviluppata in particolare da Arthur Kaufmann e da Winfried Hassemer, viene di conseguenza ridefinito il concetto di positività del diritto: le norme non sono più intese come me- ri enunciati prescrittivi, ma come la sintesi di due fattori inseparabili, l’enunciato linguistico del legislatore e la sua interpretazione da parte della giurisprudenza. Il problema giuridico fondamentale diviene quindi quello dell’individuazione del diritto, operazione complessa magistralmente ricostruita nei suoi tratti da Josef Esser, per la quale il mero riferimento alla volontà del legislatore, anche se imprescindibile, appare semplicisticamente riduttivo, dato che lo spazio che necessariamente tocca all’interprete è altrettanto rilevante di quello che spetta al legislatore. La politica del diritto cessa in tal modo di collocarsi in un ambito extra-scientifico, abbandonato all’arbitrio del legislatore e comunque della prassi, e viene ad acquistare un nuovo e più rigoroso statuto conoscitivo. La filosofia del d. del sec. 20° si chiude con l’individuazione del tema dei ‘diritti umani’ quale tema centrale e imprescindibile per ogni meditazione sul diritto. Ricorre negli studiosi di ogni cultura la convinzione che si sia aperta un’età dei diritti, secondo una suggestiva formula di Bobbio. Nella sterminata letteratura filosofica sui diritti, prodotta tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec., emerge il contributo di Habermas a una «teoria discorsiva» del diritto e della democrazia. La fondazione discorsiva dei diritti fondamentali postula una complementarità di diritto positivo e morale di ragione, riconoscendo come ragioni di tipo morale entrino continuamente nel diritto attraverso il processo legislativo. Nelle società complesse solo il medium del diritto sembra poter ancora garantire rapporti moralmente imperativi di reciproco rispetto, anche tra estranei. La questione ultima rimane allora l’individuazione di quei diritti che i cittadini dovranno vicendevolmente riconoscersi, se vorranno volontariamente associarsi in una comunità giuridica, dove, cioè, la loro convivenza sia disciplinata con strumenti di diritto positivo.