MELANDRONI, Fillide
– Nacque a Siena da Enea, appartenente a una nobile famiglia della città, e da Cinzia d’Antonio Guiducci senese, e fu battezzata l’8genn. 1582.
Verso la fine del 1593 si trasferì a Roma con la madre e con il fratello Silvio per ricongiungersi ai familiari paterni: la zia Piera e il figlio di primo letto del padre, Nicola. L’inserimento della M. e della sua famiglia nel tessuto sociale non fu immediato, né essi ebbero contatti con conterranei o con la colonia senese di via Giulia. Dopo la morte della madre, il sodalizio con la cortigiana romana Anna Bianchini l’aiutò ad affrontare l’indigenza e l’emarginazione, pur inducendola, appena tredicenne, a esercitare in modo occasionale il meretricio.
Nella notte del 23 apr. 1594 la M., in compagnia di Anna Bianchini e di due uomini, incappò nei birri in ronda dietro al monastero delle monache di clausura di S. Silvestro. E poiché i quattro andavano in giro al buio e «fuor delli luoghi soliti», ovvero fuori dal bordello (l’area urbana destinata al meretricio), vennero «presi et menati prigioni in Tor di Nona» (Arch. di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Relazioni dei birri, reg. 97, c. 71r). Come «Donna Filidia d’Enea Senese» (ibid.), la M. compare per la prima volta nella documentazione romana.
Tra il 1596 e il 1597 la M. abitò in una camera locanda d’osteria che si trovava nella strada Serena (nei pressi dell’attuale via Belsiana), luogo equivoco per eccellenza, ricovero di soldati, forestieri e gente di malaffare, dove con la compiacenza dell’oste, si esercitava il meretricio. La M. cercò faticosamente di mantenere una sua autonomia, sottraendosi alla protezione di lenoni e ruffiane, che non le avrebbe offerto né tutela né occasioni per migliorare le sue condizioni di vita. Per questo, a fronte di provocazioni e insulti, minacce e aggressioni notturne, ferite e sanguinose pugne fra donne che la portarono in carcere, la M. ricorse costantemente alla giustizia pubblica, e il linguaggio timorato con il quale si rivolgeva alle autorità la distinse dalla gente di basso ceto, dalla quale volle cominciare a prendere le distanze.
Il bisogno di esercitare in modo non saltuario il meretricio e la necessità di essere protetta dalle colleghe e dai rispettivi lenoni, nonché di essere difesa all’occorrenza dalle autorità romane spinsero la M., a sedici anni, a cercare la protezione dei fratelli Tomassoni, uomini d’arme che, forti di conoscenze altolocate, esercitavano il controllo e l’organizzazione di un giro di cortigiane per gentiluomini e gente di Curia. Le condizioni di vita della M. migliorarono sensibilmente: smise di frequentare gente modesta, si trasferì con il fratello Nicola nell’attuale via di S. Lorenzo in Lucina, e poté anche permettersi una serva. Con uno dei Tomassoni, Ranuccio, che nel 1606 sarà ucciso da Michelangelo Merisi da Caravaggio, la M. intratteneva una relazione, come si evince dall’arresto avvenuto in una notte d’agosto del 1598, nella sua casa «in Conduti dove si faceva gran ridotto de giovani con armi» (ibid., reg. 99, c. 279r).
Dedito (al contrario dei suoi fratelli Mario, Alessandro e Giovan Francesco) più alla vita del cortigiano che all’esercizio delle arme, Tomassoni fu tramite tra la M. e Caravaggio quando il pittore, tra il 1598 e il 1599, dipinse la S. Caterina d’Alessandria (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza), nel volto della quale raffigurò le fattezze della Melandroni. E forse proprio l’attività di modella, oltre a quella di organizzatrice di festini di piacere, la fece registrare alla vigilia dell’anno santo, come: «Filida Corteggiana scandalosa» (Roma, Arch. storico del Vicariato, S. Andrea delle Fratte, Stati delle anime, 33, c. 68r).
Nel dicembre 1600 la M. sorprese Tomassoni con tale Prudenza Zacchia e, accecata dalla gelosia e forse anche decisa a difendere il primato raggiunto nel giro delle cortigiane, la aggredì e la ferì.
Uscita dal carcere, riprese a esercitare il mestiere mettendo a profitto, in modo indipendente, le sue conoscenze con clienti altolocati.
Nel luglio 1601, recandosi di notte dal cardinale Benedetto Giustiniani scortata da Ulisse Masetti, spenditore a servizio dal porporato, fu arrestata e sottoposta, insieme con il suo accompagnatore, a stringenti interrogatori. Cercò di sfuggire all’accusa di aver traviato in Masetti un giovane sposo, inducendolo alla fuga dal tetto coniugale, e preservò il cardinale suo cliente. Dopo due giorni, non essendosi fatto avanti nessuno a tirarli fuori di prigione, Masetti venne rinviato a giudizio e la M. pagò la taxa maleficii di 50 scudi per uscire da Tor di Nona.
Carcerata per la terza volta e passata forse per la pubblica frusta, la M. tornò, come al tempo dei suoi primi anni romani, alla mercé di uomini in banda che gettavano sassi sulle finestre di casa sua e di lenoni che cercavano di approfittare del suo stato di emarginazione.
Priva di protezione, ricorse all’aiuto della famiglia e andò ad abitare al Babuino dalla zia Piera, che le faceva da ruffiana. Nel novembre 1602, dopo altre vicissitudini processuali, tornò sotto il controllo dei Tomassoni, stavolta nella persona di Giovan Francesco. Alla fine del 1603 riuscì a imprimere una nuova svolta alla sua vita.
La cortigiana «scandalosa» di qualche anno prima, inaspettatamente, entrò in rapporto con la parrocchia di S. Maria del Popolo, curò le pratiche devozionali e si dedicò a opere di carità. Nel 1604 adottò un esposto dell’ospedale di S. Spirito in Sassia, Giovanni, di quattro anni. Sembra che godesse nuovamente di una vita agiata visto che abitava in strada «Paulina verso Margutta», in una casa di proprietà del senese Tiberio Ceuli, e faceva da capofamiglia a un nucleo composto, oltre che dalla zia, dal fratello e dal bambino adottato, da un servitore, tale Ottavio, di quattordici anni, e da Geronima Ortensia, giovane cortigiana. Tale accelerato processo di integrazione e ascesa sociale, per cui si avvalse, come d’uso, anche del comparaggio, la vide madrina, nella prima metà del 1604, di ben tre neonati: Fillide, Giovanni Battista e Alessandro, che ebbe per padrino il cardinale Alessandro Damasceni Peretti Montalto.
L’impegno prodigato, tra il 1603 e il 1605, per raggiungere uno status di onorabilità coincise con l’inizio della relazione con il nobiluomo Giulio Strozzi (1583-1660). Di due anni più giovane, Strozzi, figlio illegittimo di Roberto, banchiere a Venezia, si era trasferito a Roma per intraprendere, secondo il volere del padre, la carriera ecclesiastica, ma l’amore per le lettere e per il teatro superò l’obbligo di attenersi alla strada segnata, facendo di lui uno dei personaggi di spicco della cultura accademica italiana del primo Seicento.
Tra il 1603 e il 1605, Strozzi commissionò a Caravaggio il ritratto della M., dando alla donna l’occasione di posare di nuovo per il famoso pittore e, questa volta, di darsi una nuova immagine di cortigiana onesta, effigiata in una donna di non eccelsa bellezza, di chiarissimo incarnato e con i capelli bruni raccolti in una montagna di riccioli inanellati, discretamente ornata di semplici gioielli (un bracciale di pasta vitrea e orecchini di perle a grappolo), ma dallo sguardo astuto e penetrante, che stringe al petto un fiore di bergamotto o forse di mirto, tradizionale attributo l’uno delle cortigiane, l’altro delle spose. La sottile ambiguità che l’artista affidò all’incerto rametto di fiori fu il tratto distintivo degli anni che la M. visse con Strozzi, tra un passato incancellabile e un futuro desiderabile.
Nove anni tranquilli e forse felici, accanto al poeta e commediografo che nel 1608 fondò l’Accademia degli Ordinati, in un pubblico ménage nel corso del quale la M. consolidò le sue condizioni economiche e aprì una nuova casa in via Frattina, dove visse con la serva cortigiana Ortensia Cassia e una nipote, tale Maddalena, di otto anni.
Alla morte del padre, Strozzi entrò in possesso di una cospicua eredità e i parenti, per scongiurare il matrimonio cui sembrava accingersi, chiesero l’intervento di Paolo V. Nei primi giorni dell’aprile 1612 si diffuse la notizia che «all’improviso d’ordine del Papa è stata presa una tal Fillide famosa cortegiana et mandata fuori di Roma con ordine che non vi debba più tornare» (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, filza 4028, c. 365bis). Lo status sociale di cortigiana onesta, faticosamente perseguito e raggiunto, non riuscì per la M. a compiersi nel disegno di diventare una sposa. Strozzi si trasferì a Venezia, sua città natale, e la M. forse riparò a Siena, ma a due anni dal bando era di nuovo a Roma.
La M. morì a Roma il 3 luglio 1618 e fu seppellita, secondo le sue volontà, nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina.
L’8 ott. 1614, aveva dettato al notaio Tranquillo Pizzuti il testamento in cui, come succedeva di consueto, disponeva vari legati per la sua anima: alle chiese di S. Maria in Costantinopoli, di S. Anna del Carmine, di S. Martino ai Monti e all’ospedale dei poveri fanciulli letterati dell’Urbe. A Maddalena, sua «alunna», lasciò la cospicua cifra di 100 scudi per farsi la dote, e alla zia Piera 50 scudi. Al monastero delle Convertite assegnava, come d’obbligo per ogni cortigiana, la quinta parte della sua eredità. Per i restanti beni mobili e immobili nominava eredi universali Nicola e Giacomo Melandroni, figli del fratello Silvio nel frattempo deceduto, per conto dei quali venne steso l’inventario dei beni della M. il giorno stesso della sua morte. Quanto al suo ritratto: «dixit et declaravit se habere in eius domo unum quadrum seu retractum mani Michaelis Angeli de Caravagio quod spectat et pertinet ad ill. d. Julium Strozzium propterea voluit illud eidem ill.re Julio restitui et consignari» (cit. in Corradini, p. 112).
L’opera entrò in data imprecisata nella collezione del marchese Vincenzo Giustiniani, protettore e collezionista di Caravaggio, nonché fratello del cardinale Benedetto, che la conservò, fra molti capolavori, nella galleria del suo palazzo di S. Eustachio, nel cui inventario, redatto alla sua morte nel 1638, fu registrata come il «Ritratto di una Cortigiana chiamata Filide». Nel 1812 la collezione Giustiniani fu venduta alla ditta M.M. d’Est et Bonnemaison di Parigi, e nel novembre 1815 il ritratto della M. entrò a far parte della collezione di dipinti del re di Prussia Federico Guglielmo III. Esposto dal 1931 nella Gemäldegalerie del Kaiser-Friedrich Museum (attuale Bodemuseum) di Berlino, andò disperso nel maggio 1945 nel corso degli eventi bellici. Oggi, in assenza di copie, è noto solo grazie a una buona, ancorché datata, riproduzione a colori (cfr. Weisbach) che ha consentito di identificare nella M. la prima modella del Caravaggio.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Siena, Archivio della Biccherna, vol. 1138, Battezzati femmine, c. 251r; Arch. di Stato di Roma, Tribunale del Governatore di Roma, Investigazioni, regg. 267, cc. 145v-146r, 151; 283, cc. 77-78; 307, cc. 14r-16v; 317, cc. 173r-175r; 324, cc. 141v-142r; 328, c. 13r; Relazioni dei birri, reg. 98, cc. n.n. [ma 90v]; Costituti, regg. 504, cc. 26r-30r; 472, cc. 164-168, 184-186; Trenta notai capitolini, Uff. 19, vol. 108, cc. 444-446v, 451-453 (inventario dei beni della M., 3 luglio 1618); Roma, Arch. storico del Vicariato, S. Maria del Popolo, Stati delle anime, anno 1603, cc. 67, 128; anno 1605, c. 17; S. Lorenzo in Lucina, Libri dei battesimi …, 1603-13, cc. 11r, 27r, 28r; Stati delle anime, 1607, c. 14r; 1609, c. 14r; S. Corradini, Caravaggio. Materiali per un processo, Roma 1993 ad ind.; W. Weisbach, Die Kunst des Barock …, Berlin 1924, tav. XI; Ch. Norris, The disaster at Flakturm Friedrichshain, a cronicle and list of paintings, in The Burlington Magazine, XCIV (1952), 597, p. 339 n. 2; L. Salerno, The picture gallery of Vincenzo Giustiniani. Introduction and inventary, III, ibid., CII (1960), 685, p. 136 n. 12; F. Bellini, Dalla figura di una donna all’immagine interiore dell’artista. Per una ricerca sull’ombra, tesi di specializzazione, Università degli studi di Siena, a.a. 1990-91, Appendice documentaria, pp. 72-94; R. Bassani - F. Bellini, Caravaggio assassino: la carriera di un «valenthuomo» fazioso nella Roma della Controriforma, Roma 1994, ad ind.; H. Langdon, Caravaggio. Una vita, Palermo 2001, ad ind.; P. Robb, M. L’enigma Caravaggio, Milano 2001, ad indicem.
F. Bellini