SERAFINI, Filippo
– Nacque a Preore (Trento) il 10 aprile 1831 da Domenico e da Antonia Cominotti di Pinzolo.
Erede, da parte paterna, di una illustre tradizione familiare di giudici, avvocati e docenti universitari in materie giuridiche, Serafini compì gli studi ginnasiali e liceali a Innsbruck, Brixen, Brescia e Rovereto; quelli universitari (in giurisprudenza) a Vienna, ma frequentando, anche successivamente, le facoltà di Innsbruck, Berlino e Heidelberg. In Italia ascoltò i corsi di Pietro Conticini a Siena (del quale curò poi le Lezioni di Pandette, apparse nel 1876) e di Alessandro Doveri a Pisa.
Al di là di ogni implicazione politica, in quanto Serafini aderì senz’altro agli ideali risorgimentali (condivisi con fratelli e cugini, che parteciparono attivamente alle guerre d’indipendenza), sul piano culturale si rivelò decisiva proprio la formazione in Austria e Germania, alla scuola di alcuni dei più noti cultori di diritto romano (e civile): soprattutto Ludwig Arndts, ma anche Karl Joseph Anton Mittermaier e Adolf Friedrich Rudorff. Quest’esperienza – essenziale per lui come per molti giuristi italiani di quella e della successiva generazione – ne segnò profondamente l’approccio scientifico, così come incise sulla scelta di dedicarsi, più tardi, ad alcune fortunate traduzioni, o personalmente compiute (dal Lehrbuch des Pandektenrechts di Arndts, corredata di «copiose note, appendici e confronti») o coordinate con Pietro Cogliolo (dall’Ausfürliche Erläuterung der Pandekten di Christhian Friedrich von Glück, parimenti arricchita di note, a cui collaborarono Lando Landucci, Carlo Fadda, Contardo Ferrini e Muzio Pampaloni).
L’apporto dei suoi maestri di area tedesca (i citati Arndts, Mittermaier e Rudorff nonché Friedrich Ludwig von Keller e Karl Adolph von Vangerow) fu decisivo anche per la prima tappa accademica di Serafini. Fu infatti su loro proposta – si era ancora nel Regno lombardo-veneto – che egli fu chiamato nel 1857 a Pavia sulla cattedra di diritto romano e storia del diritto, per divenirvi poi ordinario di istituzioni di diritto romano (con l’incarico anche di introduzione alle scienze giuridiche). Al periodo nell’ateneo lombardo – da cui passò a Bologna nel 1868, per rimanervi un triennio – risale l’apparizione di un manuale destinato a straordinario successo per oltre mezzo secolo (e che tuttora colpisce per rigore dell’impianto e chiarezza espositiva): gli Elementi di diritto romano (I, Storia della legislazione e II, Istituzioni civili, Pavia 1858-1859), che dall’edizione del 1870 assunsero il titolo di Istituzioni di diritto romano comparato al diritto civile patrio (secondo una visuale di serrato confronto fra disciplina antica e attuale, che tornava con evidenza anche nel Trattato delle obbligazioni giusta i principi del diritto romano, della giurisprudenza e delle moderne legislazioni, Pavia 1861), per contare complessivamente dieci edizioni, fino al 1921.
Nel corso dell’esperienza bolognese iniziò (1869) la sua direzione di una delle più influenti riviste di allora, fondata da Pietro Ellero l’anno precedente: l’Archivio giuridico (a cui fu poi legato proprio il nome di Serafini). Una direzione che proseguì sino alla morte, quando gli subentrò il figlio Enrico, e che costituì – assieme al manuale e al prestigio dei numerosi allievi (Biagio Brugi, Giovanni Baviera, Muzio Pampaloni, Luigi Moriani, Pietro Cogliolo, Landucci: gli ultimi due legati a Serafini anche sul piano familiare, in quanto ne sposarono ciascuno una figlia, rispettivamente Pierina e Adelina) – uno dei punti di forza della sua scuola, destinata a incidere sull’intera scienza giuridica italiana (per essere poi oscurata solo dal magistero di Vittorio Scialoja, con il quale i rapporti, di iniziale e non sporadica collaborazione, divennero via via meno semplici, e si incrinarono definitivamente in occasione del concorso per la chiamata romana del 1884, vinto da Scialoja contro Landucci e Cogliolo).
Già l’organizzazione delle rubriche e il taglio degli articoli rivelavano un preciso progetto culturale, dal momento che veniva incentivata la partecipazione degli studiosi stranieri, soprattutto tedeschi (sino a fare della rivista uno dei luoghi editoriali privilegiati del dialogo fra i giuristi d’Italia e Germania); i contributi romanistici erano svolti con impostazione prevalentemente attualizzante e inseriti nelle sezioni di diritto civile.
L’apertura degli interessi di Serafini verso disposizioni e questioni giuridiche del proprio tempo fu testimoniata anche dalla co-direzione (avviata nel 1870) de La legge, e più tardi (dal 1883) del Diritto commerciale, oltre che da studi come quello dedicato al telegrafo (Il telegrafo in relazione alla giurisprudenza civile e commerciale, Pavia 1862, poi tradotto in francese, tedesco e danese), dalla partecipazione alle commissioni legislative di cui diremo e dallo svolgimento della professione di avvocato, sfociata nella redazione di memorie e ‘allegazioni’ (come allora si diceva) di efficacia argomentativa e dottrina non comuni.
La successiva esperienza accademica di Serafini rivestì un notevole significato, anche simbolico. All’indomani dell’annessione di Roma al Regno d’Italia egli fu infatti chiamato sulla cattedra della Sapienza in sostituzione di Ilario Alibrandi, venuto meno all’insegnamento proprio in conseguenza dei difficili rapporti fra governo e papato. La prolusione che vi tenne nel novembre 1871 (Del metodo degli studi giuridici in generale e del diritto romano in particolare, ora in Opere minori. Parte prima. Scritti varii, Modena 1901, pp. 201-219) rappresentò «una specie di solenne manifesto programmatico per la rinascita degli studi di diritto romano nella nuova Italia» (Schiavone, 1990, p. 279). Vi dominava la convinzione che il recente codice civile unitario (del 1865) non esaurisse affatto la complessità dell’esperienza giuridica (stimando «fisime di cervelli malati» e «pregiudizio volgare» l’idea che l’intero «diritto stia nei codici»), né avesse cancellato l’importanza della tradizione, sul cui studio, in forme rinnovate e mature (specie per quanto riguardava il diritto romano), si sarebbe dovuta anzi fondare un’autentica cultura giuridica nazionale.
Quella prolusione appare un documento paradigmatico tanto dello snodo storico in cui si trovava il neonato Stato italiano, quanto dell’intero disegno scientifico messo a punto da Serafini, e da lui sempre coerentemente perseguito. Ormai lontano dall’accostarsi (come ancora avveniva pochi decenni prima, nel contesto della diffusa decadenza universitaria del nostro Paese) al materiale giuridico romano quale a un mero repertorio di regole e brocardi di immediata spendibilità pratica – per svilupparne piuttosto un’autentica ricostruzione scientifica, che però non si chiudesse in erudizione antiquaria –, egli si discostava sensibilmente anche dagli orientamenti che tendevano a risolvere lo studio del diritto privato vigente nell’esame degli articoli del codice civile, senza respiro storico né altra prospettiva sistematica che non fosse quella della sequenza delle disposizioni di legge. Si apriva una nuova e feconda stagione nelle ricerche di diritto romano (ancora in grado di collocarsi, almeno fino agli anni Trenta del secolo successivo, al centro di un più ampio dibattito intellettuale, che implicava un variegato confronto con tutte le scienze sociali) e anche nel modo di concepire la disciplina dei rapporti giuridici fra privati, in cui l’approccio esegetico, di ascendenza francese, era destinato a lasciare il campo al modello tedesco – prima savignyano, con la convinzione della piena storicità del diritto (espressione, al pari della lingua, dello ‘spirito del popolo’), che spontaneamente si sviluppa e stratifica, tramite l’inventiva dei ‘dotti’ e i reiterati interventi dei consociati; poi pandettistico, con l’edificazione di un sapere sistematico, basato su alcune ampie categorie (soggetto di diritto, atto giuridico, negozio giuridico ecc.) e procedimenti di carattere deduttivo, (che si volevano) neutri e formali. Serafini fu – per unanime riconoscimento dei contemporanei – un autentico pioniere sul primo versante; ma non secondario fu il suo apporto anche sul secondo, per cui riuscì altrettanto essenziale la sua formazione in area germanica, sino a legare il proprio nome al complessivo rinnovamento della scienza giuridica italiana.
Nonostante il rilievo della cattedra alla Sapienza (ove ricoprì anche la carica di rettore nel 1872-73), Serafini accettò nel 1873 la chiamata – quale successore di Conticini – a Pisa, sua ultima sede, evidentemente più confacente a un’indole riservata come la sua e a un’impostazione didattica che prevedeva una frequentazione assidua con gli studenti, ben al di là del canonico spazio delle lezioni, e che meglio poteva realizzarsi entro le dimensioni della città toscana. Qui tenne corsi di diritto romano (denominato a quel tempo Pandette), ma anche di diritto commerciale e di introduzione enciclopedica alle scienze giuridiche, e di nuovo divenne rettore, nel 1894-95. Risalgono a questi anni, oltre a un’intensa produzione scientifica, la fondazione (nel 1877, con Francesco Buonamici e Saverio Scolari) del Seminario storico-giuridico pisano (uno dei più riusciti fra i numerosi istituti di formazione giuridica avanzata dell’epoca, in cui erano soprattutto curate, sulla falsariga dei seminari nelle università tedesche, esercitazioni pratiche e casistiche); la partecipazione a varie commissioni legislative – come quella incaricata di redigere il codice federale svizzero delle obbligazioni (1881), quella relativa al codice di commercio italiano (1882) e alla legge federale svizzera sull’esecuzione e sul fallimento (1889) –; il conseguimento di prestigiosi riconoscimenti (fra le molte istituzioni culturali italiane e straniere in cui venne cooptato, fu socio nazionale, dal 1880, dell’Accademia dei Lincei e poi socio straniero della Juristische Gesellschaft di Berlino; nel 1892 per il trentacinquesimo anno del suo insegnamento fu onorato con solenni festeggiamenti e la pubblicazione degli Studi giuridici a lui dedicati; nello stesso anno fu nominato senatore del Regno).
Si spense a Pisa il 15 maggio 1897: il Consiglio comunale dispose all’unanimità la sua sepoltura nel cimitero monumentale della città.
Fonti e Bibl.: F. S., in Archivio giuridico, LVIII (1897), pp. 507-526; Necrologie - F. S., in Bullettino dell’Istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja”, XI (1898), pp. 38-43; B. Brugi, Le Opere minori di F. S., in Archivio giuridico, LXVIII (1902), pp. 159-165; L. Landucci, F. S., ibid., LXXXV (1921), pp. 9-31; M. Talamanca, Un secolo di «Bullettino», in Bullettino dell’Istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja”, XCI (1988), pp. XIV s., LXXXVI ss.; A. Schiavone, Un’identità perduta: la parabola del diritto romano in Italia, in Stato e cultura giuridica in Italia dall’unità alla repubblica, a cura di A. Schiavone, Roma-Bari 1990, pp. 278 ss.; M. Talamanca, La romanistica italiana fra Otto e Novecento, in Index, XXIII (1995), pp. 164 ss.; G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari 2000, pp. 150 ss.; P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano 2000, pp. 40 ss.; A. Mantello, Contardo Ferrini e la Pandettistica, in Contardo Ferrini nel I centenario della morte, a cura di D. Mantovani, Milano 2003, pp. 187 ss.; L. Passero, La facoltà giuridica pisana negli anni Ottanta dell’Ottocento, in Studi senesi, CXIX (2007), pp. 322 ss.; E. Stolfi, S., F., in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi et al., II, Bologna 2013, pp. 1850 s.; M. Brutti, I romanisti italiani in Europa, in Il diritto italiano in Europa (1861-2014). Scienza, giurisprudenza, legislazione, a cura di M. Bussani, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, V (2014), pp. 213, 216 s.; F. Furfaro, Recezione e traduzione della Pandettistica in Italia tra Otto e Novecento. Le note italiane al “Lehrbuch des Pandektenrechts” di B. Windscheid, Torino 2016, pp. 87 ss.; E. Stolfi, Studio e insegnamento del diritto romano dagli ultimi decenni dell’Ottocento alla prima guerra mondiale, in Storia del diritto e identità disciplinari: tradizioni e prospettive, a cura di I. Birocchi - M. Brutti, Torino 2016, pp. 31 ss.