RUSUTI, Filippo
– È registrato in attività a Roma e in Francia tra gli ultimi decenni del XIII secolo e il primo quarto del Trecento. Non si conoscono né i luoghi né le date della nascita e della morte.
Si suppone, malgrado ciò, che nacque a Roma – dove rimane l’unica testimonianza certa del suo passaggio – da cui in seguito si allontanò per approdare in Francia, ove è documentato fino al 1317 (Toesca, 1936, p. 348; Gardner, 1987, p. 383). Permane un’ipotesi suggestiva quella secondo cui il pittore avrebbe prolungato il proprio soggiorno francese fino alla conclusione della vita (Romano, 2016, p. 108).
Ebbe un figlio di nome Giovanni, anch’egli pittore di professione, che lo accompagnò alla corte del re di Francia e che risulta nominato un’ultima volta in un documento del 1323 (Prost, 1887, p. 324; Gardner, 1987, p. 383), forse già allora defunto il padre.
Decisamente scarse le notizie documentarie che si possiedono sulla personalità di Rusuti, da annoverare, tuttavia, tra quelle di maggiore rilievo nelle vicende artistiche della Roma di fine Duecento.
Ancora più deludente il quadro offerto dal corpus delle opere che gli si attribuiscono, considerato che si è a conoscenza di un unico intervento a lui riconducibile, sebbene di scala monumentale.
Alla sua mano si ascrive, infatti, la decorazione musiva della facciata della basilica di S. Maria Maggiore a Roma, la sola opera da lui firmata, nel cui registro più alto, e segnatamente nella bordura inferiore del clipeo che circoscrive la figura del Cristo benedicente in trono, campeggia l’iscrizione dorata a lettere capitali: «Philipp[us] Rusuti fecit hoc o[p]us», in quella che deve considerarsi un’orgogliosa rivendicazione del proprio magistero da parte dell’artista.
Gli studi (ripercorsi da Tomei, 1999) hanno avanzato l’ipotesi che l’epigrafe attuale sia frutto di un’alterazione, conseguente a una delle operazioni di rifacimento condotte nel tempo sul mosaico; nel solco di tale interpretazione (De Rossi, 1899) fu pertanto riproposta la forma così emendata: PHLIPPs . RUSUTI. FECIT. HOC. OPs. Tale ipotesi appare confortata dall’impiego di un carattere diverso e dall’evidente risarcitura musiva operati nella parte conclusiva dell’iscrizione.
Per ritrovare ulteriori testimonianze di Rusuti, bisogna volgersi a un insieme di documenti della corte parigina, ove viene registrato un tale «Philippus Bizuti pictor regis», da individuarsi nel nostro artista, secondo un’ipotesi suggerita per tempo (Prost, 1887, p. 325) e poi accolta dalla critica prevalente (Toesca, 1927, p. 1035; Gardner, 1987, p. 381).
Oggi si tende ad accettare pacificamente una sua presenza alla corte di Francia, dove, tra il 1304 e il 1309, sono ricordati tre artisti romani: il nostro, per l’appunto, il figlio Giovanni, e un tale Niccolò, tutti e tre alle dipendenze di Filippo IV il Bello (1285-1314), e retribuiti con la qualifica di «pictores regi» (Gardner, 1987, p. 381).
Nel 1308 Rusuti è attestato nella campagna di interventi per il sovrano francese all’interno della ‘Grande Salle’ del Palazzo Reale di Poitiers (Prost, 1887, p. 324; Pace, 1996, p. 449; Romano, 2016, p. 107).
In un documento dell’anno seguente (Gardner, 1987, p. 381) riemerge il nome di «Philippus Bizuti de Roma», in compagnia di «Nicolaus Desmerz, de Roma, pictor». Documentazione posteriore, del 1316-17 e del 1322-23, riferisce che gli stessi pittori erano ancora al servizio della corona di Francia: sotto Luigi X (1314-16), regnante Filippo V (1316-22), e infine sotto Carlo IV (1322-28) (Moranvillé, 1887; Prost, 1887, p. 325; Gardner, 1987, pp. 381 s.).
Di recente Serena Romano (2016, p. 107) ha suggerito di anticipare al 1301 l’anno della venuta in Francia di Rusuti e dei suoi aiuti, conferendo rilievo a un documento finora ignorato, dove si ricava che nell’ottobre del 1301 i «pictores romani» si trovavano già in carica presso Filippo il Bello.
La documentazione in nostro possesso, seppure estremamente lacunosa, permette di interpretare l’operato del pittore e dei suoi collaboratori come connotato di un certo prestigio, non essendo contemplata per essi una retribuzione occasionale, ma continuativa, che qualifica il maestro come un personaggio di stretta appartenenza al milieu della corte regia, in quello che costituisce uno dei primi riconoscimenti della figura d’artista che il Medioevo ci abbia lasciato, con netto anticipo sull’era moderna. I documenti parlano indubbiamente a favore di una legittimazione sociale dell’artista, che si fregiava degli appellativi di «magister» e «pictor regis», e a cui spettavano un salario annuo vitalizio, degli abiti confacenti al ruolo rivestito e una posizione riconosciuta all’interno della gerarchia regia (Prost, 1887, p. 324; Gardner, 1987, p. 382).
La fortuna critica di Rusuti è alquanto recente. Ignorato sia da Lorenzo Ghiberti sia da Giorgio Vasari, che attribuì il registro inferiore della facciata di S. Maria Maggiore alla mano di Gaddo Gaddi (Vasari, 1568, II, 1967, p. 83), il nome del maestro, corrotto in Rossuti, fa la sua prima apparizione presso il seicentesco Giulio Mancini (1617-1621, I, 1956, pp. 167-170). L’erudito lo considerò coetaneo di Jacopo Torriti, non però discepolo di questo più celebre maestro né suo collaboratore, bensì un artista a lui pari, attivo presso gli stessi committenti Colonna nel cantiere di S. Maria Maggiore. Un fugace cenno al nome del pittore e una breve descrizione del mosaico si ritrovano in Filippo Titi (1674) e poco dopo in Filippo Baldinucci (1681), che lo ritenne allievo di Gaddi.
L’intervento di Rusuti a S. Maria Maggiore s’inquadra nell’ambito della campagna di ammodernamento della basilica, promossa dal papa francescano Niccolò IV (1288-92). Al maestro fu affidata la decorazione musiva della facciata, una commissione di acclarato prestigio, che ne lascia intuire la stima goduta in vita.
Prima dell’operazione settecentesca di Ferdinando Fuga, che contribuì a conservare, ma allo stesso tempo occultò, la lettura dei brani duecenteschi, il programma musivo rivestiva l’intera superficie della facciata, la quale mostrava un’originaria terminazione a cavetto.
Nel programma decorativo della fronte della basilica i mosaici si distendono su due registri, concepiti secondo un’impaginazione diversa: quello superiore fu pensato come una fascia continua, dall’uniforme fondale aureo, su cui si stagliavano le imponenti figure dei santi e dove lo spazio maggiore fu riservato a esaltare la figura di Cristo; quello inferiore, invece, risultò frammentato, per via della presenza di tre rosoni, in una serie di quattro pannelli indipendenti, che furono tuttavia unificati tramite l’impiego di un finto telaio architettonico. Oltre ai diversi principi compositivi che informano le due partizioni, varia anche, da un registro all’altro, il sistema di incorniciatura. La fascia superiore appare, infatti, delimitata in alto da un’elegante cornice recante ricchi fogliami d’acanto che si dipartono da torsi di classici eroti, intervallati da clipei che racchiudono busti di angeli, con un esito stilistico e una scelta del repertorio di immagini che richiamano le coeve soluzioni adoperate da Torriti nel catino absidale della basilica.
Assai più moderno e complesso è, invece, il sistema di finta architettura elaborato per il registro in basso, che funziona da spartito divisorio dal superiore, e che è formato da pilastri sorreggenti un architrave, rivestiti di incrostazioni a mosaico con clipei e rombi entro cui si collocano angeli, colombe, fiori e croci, con mensole rese prospetticamente e cassettoni scorciati. Un’elegante bordatura a motivi perlinati e gemmati su fondo rosso raccorda e conferisce unità di visione ai due registri.
La figura principale della facciata è certamente il Cristo: con un grande nimbo crucisignato, la mano destra nel gesto di benedire e l’altra nell’atto di tenere il volume aperto, egli appare maestoso, assiso su un trono ligneo profilato con gemme e dallo schienale rivestito di un parato prezioso, racchiuso in una mandorla trapunta di stelle, in una soluzione iconografica che echeggia l’espediente di Torriti nel catino absidale.
Attorno alla mandorla divina si raccolgono gli angeli, due inginocchiati e recanti candelabri, i restanti due librantisi in aria, intenti a effondere incenso per mezzo di aurei turiboli. I due inginocchiati, prima dell’intervento nel Settecento, dovevano introdurre le figure in scala ridimensionata dei due committenti, i cardinali Giacomo e Pietro Colonna, la cui originaria presenza risulta oggi accertata sia da un disegno del XVII secolo alla National Gallery of Scotland di Edimburgo (Gardner, 1973b, pp. 584, 587) sia dalla descrizione tramandataci da Paolo De Angelis (1621, p. 60).
Ai lati del clipeo centrale, in numero di quattro per lato, si dispongono i monumentali Santi, sormontati dai Simboli degli Evangelisti: a sinistra del Cristo si riconoscono le figure della Vergine, di s. Paolo, di s. Giacomo e quella, occultata a seguito della creazione della loggia, di s. Girolamo; sul lato destro, invece, quelle del Battista, di s. Pietro, di s. Andrea e quella di s. Matteo, andata anch’essa distrutta.
La presenza degli esponenti della famiglia Colonna, cui si deve anche la committenza del mosaico absidale, e l’assenza del papa Niccolò IV, inducono correttamente a datare l’esecuzione dei mosaici in facciata all’indomani della morte del pontefice, forse già sotto il successivo pontificato di Bonifacio VIII (dal 1295), in un momento in cui i lavori dovevano essere svolti sotto la sola supervisione dei due cardinali.
Il patrocinio della famiglia baronale è non soltanto dichiarato dalle effigi dei due influenti prelati, ma solennemente ribadito dalla riproduzione attorno al rosone centrale, per ben quattro volte, dello stemma nobiliare, consistente in una colonna su fondo vermiglio, e affiancato da una mitria vescovile.
La fascia inferiore accoglie invece la rappresentazione degli episodi storici legati alla fondazione della basilica; partendo da sinistra si individuano: l’Apparizione della Vergine in sogno a papa Liberio e la Vergine che appare in sogno al patrizio Giovanni. A destra del rosone centrale, Il patrizio Giovanni narra il suo sogno a papa Liberio e infine il Miracolo della neve caduta in agosto all’Esquilino e papa Liberio che traccia sulla neve il perimetro della nuova basilica.
Il dibattito critico, assai animato intorno a quest’opera, si è concentrato principalmente su due aspetti: la datazione dell’intero ciclo musivo, da sempre considerato esito di una lunga gestazione (Righetti Tosti Croce, 1987, p. 158; Tomei, 1991, p. 361; Romano, 1992, p. 107; Thunø, 1996, p. 63), e l’eventuale riconoscimento della paternità a Rusuti, il cui operato potrebbe riferirsi esclusivamente alla porzione superiore della facciata. Non sono, infatti, sfuggite agli studiosi le forti e, secondo taluni, inconciliabili discrepanze tra i due registri, sia nella resa formale sia nella tecnica musiva.
In merito alla datazione, pressoché unanime è la cronologia ante 1297 per la porzione superiore (Gardner 1973a, p. 32; Id., 2013, p. 273; Tomei, 1991, p. 361; Id., 1999, p. 215; Thunø, 1996, p. 63; Pace, 2016, p. 319), allorché la famiglia Colonna fu messa al bando da Roma per volere di papa Bonifacio VIII, da sempre suo acerrimo nemico.
Maggiori difficoltà sono invece intervenute riguardo alla fascia inferiore, sia per la relativa datazione sia per l’attribuzione a Rusuti.
Con alcune significative eccezioni (Gardner, 1973b, pp. 32 s.; Id., 2013, pp. 276, 278; Bellosi, 1985, pp. 17-25, 117), secondo cui il mosaico sarebbe frutto di un’unica campagna decorativa, per altra parte degli studi (Tomei, 1991, p. 361; Id., 1999; Id., 2007, p. 617; Romano, 1992, p. 107; Thunø, 1996, p. 63; Pace, 2016, p. 319) la facciata sarebbe piuttosto l’esito di due fasi differenti, la superiore compiuta entro il 1297, e quella sottostante dopo la riammissione dei Colonna a Roma, avvenuta nel 1306 a opera di papa Clemente V: troverebbero così una ragione gli stemmi nobiliari orgogliosamente apposti, quasi a voler rimarcare l’avvenuta riabilitazione della famiglia nei suoi possessi. Quest’ultima lettura, tuttavia, solleva problemi per l’attribuzione a Rusuti, che in quegli anni è documentato in Francia al servizio del re e difficilmente si sarebbe potuto allontanare per altre commissioni (Gardner, 1987, p. 381).
Sono stati in ogni caso soprattutto gli aspetti formali del registro inferiore a procurare i maggiori nodi critici, laddove una matura concezione spaziale unita a un esteso gusto aneddotico per parati e stoffe, di ormai decisa marca gotica, informa i mosaici, che possono difficilmente giustificarsi a una data precedente ai cicli delle Storie di Isacco e di s. Francesco ad Assisi, sancendone pertanto una sicura dipendenza. Variamente datate tra il 1306 e il 1308 (Tomei, 1991, p. 364; Id., 1999, p. 215), o ancora più tardi, tra il 1318 e il 1319 (Bologna, 1969, pp. 132-135), o tra il 1306 e il 1326 (Thunø, 1996, p. 63), le Storie della fondazione della basilica liberiana mostrano in ogni caso indubbi prestiti dalle novità introdotte da Giotto nel cantiere assisiate (Thunø, 1996, p. 76; Tomei, 2007, p. 619). La collocazione degli episodi leggendari in spazi architettonici elaborati e un gusto decorativo che talvolta indugia nella resa di parati e vestimenti dei personaggi instaurano per questi mosaici un dialogo convincente con alcuni celebri brani visivi del Trecento, come, per esempio, gli affreschi martiniani della cappella di S. Martino nella basilica Inferiore ad Assisi, e li pone in una posizione di anticipo rispetto a soluzioni inaugurate nel palazzo di Avignone da Matteo Giovannetti qualche decennio più tardi.
Rimane, in conclusione, verosimile accogliere per essi una datazione più tarda al 1297, in quello che comunque dovette essere un cantiere di lunga gestazione, dove lo stesso Rusuti o altri mosaicisti, incaricati al suo posto, ripresero e terminarono i lavori, lasciati forse interrotti, aggiornandoli sulla base delle novità emergenti dal cantiere di Assisi.
Sebbene il corpus delle opere autografe di Rusuti sia oggi composto esclusivamente dalla decorazione della facciata della basilica liberiana, non è da escludere tuttavia una presenza di Rusuti ad Assisi, nella campagna di decorazione della basilica Superiore, anche se risulta difficile assegnargli porzioni specifiche e ben delimitate (Crowe - Cavalcaselle, 1875; Tomei, 1999).
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