FILIPPO da Messina
Nulla si conosce di F., cui il codice Laurenziano Rediano 9 attribuisce solo il sonetto "Oi Siri Deo, con forte fu lo punto", B1 412, preceduto dalla rubrica "Messer Filippo damessina", in cui la qualifica di "messere" risulta indicativa della sua condizione sociale elevata. Assai probabilmente siciliano, anche se "di Messina" fosse cognome come pensa lo Scandone (p. 358), e non indicazione della sua patria, fu forse contemporaneo di Giacomo da Lentini. L'unico componimento di sicura paternità trovasi in una sezione di sonetti in B 372-432, che ne contiene molti di Giacomo da Lentini, e, cosa più significativa, viene dopo i sonetti 408-411 attribuiti allo stesso Giacomo. Non si può essere sicuri che sia lo stesso "Philippus de Messana" che da un documento (Conto del giustiziere di Terra d'Otranto del 26 marzo 1270, in G. Del Giudice, Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d'Angiò, Napoli 1869, 11, pp. 331 ss.) risulta prigioniero come traditore di Carlo I d'Angiò, e poi affidato alla custodia di un castellano fra l'8 luglio 1268 ed il 15 ott. 1269; ma se fosse la stessa persona, si potrebbe sempre trattare, se non di un coetaneo, di un contemporaneo più giovane del Notaro.
"Oi Siri Deo, con forte fu lo punto" è l'unica composizione che il Panvini attribuisce con certezza a F. (I, p. 235). Secondo il Santangelo (pp. 160 s.) gli apparterrebbero anche "Si come il sol, che manda la sua spera", che A 334 (Vat. Lat. 3793) attribuisce a Giacomo da Lentini e "Voria c'al dio d'Amor, a cui son dato", in A 349 adespoto, che Trucchi (I, p. 144) e Nannucci (I, p. 217) attribuiscono a messer Migliore degli Abati. Secondo il Santangelo i componimenti farebbero parte di una tenzone dottrinale a più voci, composta da quattordici sonetti, intorno alla natura, alla genesi e alla dinamica del processo amoroso, secondo quel gusto del dibattito che dalla Provenza, proprio attraverso la scuola siciliana, giungerà allo stilnovo. Si tratta di un'ipotesi ardita, fondata essenzialmente su un lavoro di congettura e resa più precaria dal carattere altamente formalizzato della prima lirica siciliana che fa uso di un codice tematico e stilistico fortemente stereotipato e di per sé ripetitivo.
Argomento iniziale del sonetto "Oi Siri Deo" è il momento dell'innamoramento avvenuto guardando gli occhi di madonna; ad esso segue il motivo poetico convenzionale dell'abbandono all'amore, con le consuete dichiarazioni di alienazione amorosa. Sul filo di una tecnica caratterizzata da svariati artifici metrici, il discorso poetico si dipana con immagini di maniera ed espressioni tutte rispondenti al consueto repertorio tematico cortese, che il poeta impreziosisce di due riferimenti alla tradizione letteraria, classica (Elena e Paride) e medievale (Tristano e Isotta). Un isolato momento di felicità lirica a carattere popolareggiante, contrastante con la genericità di tono alto del lessico e delle formule degli altri versi, è costituito dal vocativo ornamentale di "oi rosa fresca che di magio apari" (v. 13), che richiama il celebre "Rosa fresca aulentissima" (ma l'immagine della rosa ricorre anche in Pietro Della Vigna, Rinaldo d'Aquino, Giacomino Pugliese). L'interiezione "oi" (v. 13), forma comunissima del siciliano antico, ed i dialettismi "corno" (v. 10) e "omo" (v. 6) sono spie dell'originaria veste linguistica del sonetto.
Il sonetto "Sicome il sol, che manda la sua spera" è stato assegnato a F. dal solo Santangelo, ma è sicuramente più attendibile una sua attribuzione a Giacomo da Lentini. La composizione, infatti, si serve del paragone con fenomeni naturali per descrivere la dinamica dell'innamoramento, praticando il consueto accostamento di stampo lentiniano della tematica naturalistica alla fenomenologia amorosa.
In "Voria c'al dio d'Amor", anch'esso di dubbia attribuzione, il poeta riconosce la signoria d'Amore, al quale rivolge una preghiera come ad una divinità, intervenendo, secondo quanto nota il Santangelo, nella disputa sulla divinità d'Amore con una posizione diversa da quella di Giacomo da Lentini, che crede amore un fatto puramente psicologico e critica tutti coloro che ne hanno fatto una persona ed un signore. Si tratta di un sonetto di stampo tradizionale, per il sapore arcaico-provenzale dei moduli e degli stilemi che riecheggiano il consueto linguaggio cortese, con scarsi acquisti personali, come pure è tipica della lirica d'Oltralpe la metafora del fiore per la donna amata ("fior di cortesia", v. 8), o il motivo del cuore separato dal corpo e custodito dalla dama (v. 14).
Il codice Vat. Lat. 3793 (A) della Biblioteca apost. Vaticana, in cui compaiono "Si come il sol" e "Voria c'al dio d'Amor", fu pubblicato in edizione interpretativa da A. D'Ancona - D. Comparetti, con annotazioni critiche di T. Casini, Le antiche rime volgari secondo la lezione del cod. Vat. 3793, Bologna 1875-88, IV, pp. 9, 24. Per il codice Rediano 9 (B) della Biblioteca Laurenziana di Firenze, si veda T. Casini, Ilcanzoniere Laurenziano Rediano 9, Bologna 1900, pp. 357 s. "Si come il sol" compare nelle più note antologie della prima lirica italiana, dalle più antiche alle più recenti, per le quali valgano le indicazioni di R. Antonelli in Giacomo da Lentini, Poesie, Roma 1979, p. 282.
Per l'edizione critica dei sonetti "Oi Siri Deo" e "Voria c'al dio d'Amor", oltre che all'edizione di S. Santangelo nel volume Le tenzoni poetiche nella letteratura italiana delle origini, Genève 1928, pp. 152-162, 165 s., 171 ss., 181 s.,si rimanda a quella a cura di B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, I, Firenze 1962,rispettivamente a pp. 235 e 587.
Fonti e Bibl.: F. Scandone, Notizie biografiche di rimatori della scuola poetica siciliana, in Studi di lett. ital., V (1903), p. 358 e ancora F. Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori, Prato 1846, I, p. 144; V.Nannucci, Manuale della letteratura del primo secolo della lingua italiana, Firenze 1856, I, p. 217; G.Bertoni, Il Duecento, Milano 1973, pp. 103, 129.