CORSINI, Filippo
Nato a Firenze nel 1334 da Tommaso di Duccio e da Ghita di Filippo di Lando degli Albizzi, fu avviato, nell'ambito della lungimirante politica familiare del padre - che indirizzò figli e nipoti verso differenziate attività professionali - alla carriera giuridica, che cominciò ad esercitare intorno al 1365 - dopo aver terminato gli studi (non sappiamo se a Perugia o a Bologna) - ricoprendo l'insegnamento di diritto civile nello Studio fiorentino, della cui fondazione suo padre era stato il principale artefice. La sua fama di esperto giurista, unitamente alla ricchezza ed al prestigio del padre - una delle figure di maggior spicco della classe dirigente della Repubblica - gli consentirono un precoce ingresso nella vita pubblica ed una rapida ascesa a posizioni di responsabilità. Appena ventiseienne, nel 1360, iniziò, con una ambasceria a Siena, quella attività diplomatica a cui lo destinava la sua abilità oratoria e che avrebbe fatto di lui una delle figure centrali della politica estera fiorentina tre-quattrocentesca. Scopo della missione era quello di rinnovare l'alleanza che legava i due Comuni a Perugia. Quattro anni dopo, durante la guerra con Pisa nel 1364, gli venne affidato un incarico più delicato, quello di recarsi al campo dell'esercito fiorentino, tra Marti e Montopoli, per sedare una lite che ne divideva i condottieri e che rischiava di vanificare la campagna contro la città nemica. Poco più tardi, a nome di Firenze, ratificò in Pescia con Giovanni dell'Agnello, sindaco e commissario per i Pisani, la pace. Nel 1365 venne inviato ad Avignone per portare ad Urbano V l'obbediente ossequio della Repubblica e la richiesta del ritorno del papa alla sede romana. In questa occasione il C., tra l'altro, prospettò al pontefice l'utilità dell'elevazione al cardinalato del proprio fratello Pietro, allora vescovo di Firenze, ed ottenne alcuni privilegi per lo Studio fiorentino; Urbano, da parte sua, onorò l'ambasciatore concedendogli la dignità equestre.
Reduce da questa missione, che fu al contempo di politica estera fiorentina e di politica familiare, il C. tornò in patria. Tre anni dopo, nel 1368, gli venne affidata una importante ambasceria presso l'imperatore Carlo IV di Lussemburgo, probabilmente per trattare l'adesione di Firenze. Comprata l'amicizia dell'imperatore "che gli ambasciatori seppero acquetare offrendo dell'oro di cui l'avaro principe era avido oltre misura", come vuole il Passerini (p. 76), il C., rientrato in Firenze, venne chiamato a ricoprire la carica di gonfaloniere di Giustizia, e nell'esercizio di tale ufficio prese parte attiva ad una revisione delle leggi sulla moneta.
Continuava intanto l'insegnamento del diritto civile presso lo Studio fiorentino: la sua attività di docente è documentata con certezza per il periodo 1365-69. Nel 1369 fu incaricato di portare i rallegramenti della Repubblica ad Urbano V finalmente sceso in Italia ed allora a Viterbo.
Con ogni probabilità il C. approfittò di questa occasione per stabilire anche a livello personale buoni rapporti con la Curia, della quale sarebbe entrato a far parte l'anno successivo il fratello Pietro, elevato da Urbano alla dignità cardinalizia secondo le aspettative del C. e della Repubblica fiorentina. E del resto che egli utilizzasse il grande prestigio che gli derivava dall'aver partecipato ai più significativi negoziati del potente Comune fiorentino con altre potenze, in vista di un progressivo consolidamento del suo personale potere, è provato dai rapporti da lui instaurati anche con l'imperatore Carlo IV, dal quale nel 1371, forse durante un'altra ambasceria fiorentina presso di lui, ottenne per sé e per i suoi discendenti il titolo e le prerogative di conte palatino, che nel 1402 egli si sarebbe fatto ratificare e confermare dal nuovo imperatore Roberto di Baviera.
Nel 1371 fu eletto alla magistratura dei Dodici buonuomini. Due anni dopo, grazie alla posizione raggiunta dal fratello Pietro nella Curia del nuovo pontefice Gregorio XI, venne nominato pretore di Urbino e della Massa Trabaria.
Benché i rapporti fra il Comune di Firenze e la Sede apostolica si fossero andati deteriorando progressivamente negli anni successivi, tuttavia l'abile politica di equilibrio perseguita dalla sua famiglia consentì al C. di rimanere in buoni rapporti col pontefice. Quando nel 1375, in seguito alle rivolte che i Fiorentini andavano fomentando nei territori pontifici, anche Urbino e la Massa si sollevarono costringendo il C. alla fuga, il pontefice gli concesse l'autorizzazione a designare un successore. La benevolenza di Gregorio per lui si manifestò anche nell'esenzione dall'interdetto che il papa aveva fulminato, nel giugno 1377, contro i Fiorentini; esenzione che il pontefice estese ad un fratello del C., altro autorevole membro della casa, Giovanni. Nel luglio successivo, ad ogni modo, il C. doveva trovarsi ad Avignone se la Signoria gli indirizzava una lettera per richiedere la mediazione del fratello presso il papa per la nomina dell'abate di Montescalari.
Conclusa la guerra con Gregorio XI il C. tornò alla vita politica in una città il qui clima politico era tutt'altro che tranquillo: nel 1378 lo incontriamo infatti a rappresentare la Ferza di S. Spirito tra i 16 gonfalonieri di Compagnia. Scoppiato il tumulto dei Ciompi, fomentato e ben presto strumentalizzato dagli oppositori della Parte guelfa e degli Albizzi, che ne erano i principali esponenti, il C., più volte annoverato tra i capitani della Parte, figlio di una degli Albizzi e ad essi legato da vincoli consortili e politici, connivente col detestato Gregorio XI, fu tra i primi ad essere identificato, dalla folla inferocita, come uno dei più autorevoli esponenti del regime da sovvertire. Il fuoco fu appiccato alle sue case, il 21 luglio 1378, e di lì a poco anche nei suoi confronti vennero presi provvedimenti di interdizione dai pubblici incarichi che avrebbero dovuto riguardare per un decennio anche i suoi discendenti. Finché i Ciompi rimasero al potere il C. si tenne prudentemente alla larga dalla città mentre esponenti della famiglia più moderati e meno compromessi col passato regime, quali il cugino Matteo, entravano nel cosiddetto governo delle arti minori.
Abbattuto nel gennaio 1382 il governo dei Ciompi dalla rivolta capeggiata dall'arte della lana, revocati i provvedimenti da questo voluti, il C. fece ritorno in Firenze e fu, insieme col cugino Maso degli Albizzi, uno degli ispiratori del tumulto del 10 marzo 1382 in seguito al quale gli ex banditi ottennero il risarcimento dei danni subiti, la restituzione dei beni confiscati, ed altre gravi rappresaglie nei confronti del partito "democratico". Da questo momento il C. divenne uno degli esponenti più autorevoli nei Consigli della città: già nelle Consulte del marzo si qualificò come attivo portavoce della restaurazione, che voleva però condotta con metodi moderati, allo scopo di riportare al più presto la pace in città.
Il lungo intermezzo di disordini interni aveva avuto gravi ripercussioni sulla politica estera della Repubblica sia sul piano regionale, sia sul piano peninsulare. Rendevano più difficili i rapporti con le altre potenze, italiane e non italiane, la crisi provocata dal grande scisma e i contraccolpi del non ancora risolto problema della successione al trono di Napoli. Pur nella politica "della basculla" condotta da Firenze, che si avvaleva della mediazione di due cardìnali fiorentini, l'Acciaiuoli presso Urbano VI e il Corsini presso Clemente VII - rispettivamente il primo legato per la successione napoletana a Carlo di Durazzo, il secondo a Luigi I d'Angiò - la Repubblica doveva orientarsi verso i vicini Urbano e Carlo, e come sempre il gioco internazionale delle alleanze finiva con l'influenzare pesantemente la politica locale fiorentina. Nella Consulta del 21 luglio 1384 rimane la testimonianza dell'estrema cautela con cui il governo fiorentino, tenendo anche conto di eventuali ripercussioni interne, condusse il suo gioco diplomatico: in un primo tempo fu prospettata l'ipotesi di incaricare il C. di informarsi presso il fratello cardinale in Avignone delle reali intenzioni verso Firenze del condottiero Enguerrand de Coucy, di cui si conoscevano i preparativi per una discesa in Italia a sostegno dell'esercito di Luigi d'Angiò. Questa proposta, caldeggiata da Maso degli Albizzi, favorevole ad un accordo con l'Angioino, fu osteggiata dai suoi oppositori; la maggioranza, legata com'era alla politica di sostegno al Durazzo e al pontefice romano, si dichiarò ostile ad ogni ipotesi di trattativa con Clemente VII ed i sovrani francesi, bocciando così la proposta di Maso degli Albizzi. La seduta si chiuse con la decisione di mobilitare le difese dello Stato in attesa dell'attacco del de Coucy. Disceso in Toscana, il condottiero francese riuscì, il 29 sett. 1384, a strappare Arezzo a Carlo di Durazzo, troncando le trattative che questi stava allora conducendo con Firenze per cederle la città. Il 30 settembre i Consigli a Firenze decidevano di procedere contro Arezzo, ed il C. suggeriva di ricorrere ad alleanze con i signori dell'Italia settentrionale per poter arginare il pericolo angioino. L'improvvisa morte di Luigi d'Angiò, lasciando senza direttive il de Coucy, rimasto isolato in Toscana, consentì al governo fiorentino di conseguire l'annessione di Arezzo, comprando dal condottiero la città e dal Durazzo la rocca, che era rimasta fino ad allora nelle sue mani. Sembra che il C. abbia preso parte alla legazione inviata dalla Signoria nel Napoletano per discutere con Carlo di Durazzo i termini dell'affare; secondo il Passerini, sarebbe anche stato inviato ad Arezzo come capitano di Giustizia con l'incarico di riformare il governo della città.
Secondo quanto era stato stabilito nel Consiglio del 29 giugno il C. venne inviato, insieme con Matteo Arrighi e due ambasciatori bolognesi, presso Gian Galeazzo Visconti, con cui stipulò, a nome del proprio governo, una lega della durata di cinque anni (lega di Lignano, 30 ag. 1384).
A partire da questo periodo l'attività diplomatica del C. divenne particolarmente intensa, non tanto per la sua esperienza ed abilità di oratore, quanto per il restringersi del governo della città entro un numero limitato di eminenti uomini del partito, oligarchico. Il 13 marzo 1386 il C. ricevette dai Dieci di balia l'incarico di recarsi presso Carlo Malatesta nell'ambasceria che si prefiggeva di far entrare il signore di Rimini come alleato di Firenze nella guerra che quest'ultima stava combattendo contro Antonio di Montefeltro conte di Urbino. Il fatto che Firenze aveva assoldato la compagnia di Astorre Manfredi, signore di Faenza, destò i sospetti dei Bolognesi, i quali erano stati sin'allora uniti alla città toscana da una coerente linea di intesa politica: per confermare i buoni rapporti con la città amica, e per ristabilire l'antico clima di fiducia reciproca, il C. venne inviato a Bologna (15 maggio 1386). Poiché non riusciva a vincere la forte diffidenza dei Bolognesi, il 10 giugno vennero inviati a Bologna, per affiancarlo, anche Donato Acciaiuoli e Lotto di Vanni Castellani. La pace con i Montefeltro, ratificata il 18 luglio, testimoniò l'importanza raggiunta dal C.: per essa, infatti, il conte di Urbino si impegnava, tra l'altro, a restituire all'uomo politico fiorentino i beni che gli erano stati confiscati e a risarcirlo dei danni subiti nel 1375, durante i tumulti scoppiati all'epoca in cui era pretore della città e della Massa Trabaria.
Il 26 settembre il C., Gherardo Buondelmonti e Vanni Castellani partivano per una ambasceria in Francia, che aveva lo scopo di preparare la pacificazione fra Angioini e Durazzeschi mediante il matrimonio di Luigi II d'Angiò con Giovanna di Napoli. La legazione fallì nel suo intento, ed era già di ritorno il 26 marzo. Gli ambasciatori "non feciono nulla" tranne il fermarsi ad Avignone presso l'antipapa, che cercò in ogni modo di trarli alla sua causa, osserva in proposito l'anonimo diarista. Il C. riprese il suo posto nei Consigli e in particolare come sostenitore della linea promossa da Maso degli Albizzi. Preoccupato per l'ambiguo atteggiamento assunto da Urbano VI nei confronti di Firenze, e per l'estendersi dell'influenza milanese in Italia, il C. sostenne una politica di prudente disponibilità nei confronti della Sede apostolica, di alleanze comuni tra le potenze dell'Italia centrale e della Romagna, nonché di decisa opposizione ai Visconti. Espresse il suo pensiero e il suo concetto politico con durezza nel novembre allorché, passata anche Padova, dopo Verona e Vicenza, sotto Gian Galeazzo, sollecitava in Consiglio: "Non perdatur tempus, sed uniatur civitas in se et cuni vicinis".
In quest'ottica vanno visti e interpretati sia l'atteggiamento di benevola apertura nei confronti di Siena da lui propugnato, sia la lunga serie di alleanze che egli, come ambasciatore della Repubblica di Firenze, trattò e concluse nel corso del 1388. Scopo dichiarato di queste alleanze era quello di costituire un fronte comune contro le compagnie di ventura che - fossero o meno rimaste prive di ingaggi - desolavano la penisola e rappresentavano un elemento di grave turbativa nel già intricato ed instabile giuoco politico italiano. In realtà queste alleanze o leghe miravano piuttosto a costituire intorno a Firenze un blocco militare in funzione chiaramente antiviscontea, allo scopo di salvaguardarne l'indipendenza.
Prima di tali ambascerie fu quella che il C. amministrò nell'aprile del 1388, con Gherardo Buondelmonti, a Milano, per stringere una lega col conte di Virtù. Scopo primario della missione era, comunque, quello di rendersi conto della situazione politica della Lombardia. Nel giugno fu tra gli oratori inviati a Pisa per cercar di convincere Pietro Gambacorti, signore di quella città, ad allinearsi sulle posizioni di Firenze. Anche questa legazione si spiega se inserita nel quadro della stessa mimetizzata politica antiviscontea che avrebbe spinto Firenze, nel corso di quell'anno a cercare l'appoggio della vicina Lucca, della sempre pericolosa Siena, e delle potenze della Romagna.
Il 26 dicembre, nel contesto delle febbrili consultazioni subito avviate con i collegati dopo il passaggio di Padova sotto la signoria viscontea, il C. fu in missione a Bologna, insieme con Matteo Ardinghi. Quando, nell'estate successiva, la situazione si aggravò - Siena, per risolvere la questione di Montepulciano aveva chiesto l'aiuto militare del Visconti, provocando le immediate contromisure di Firenze, che aveva assoldato alcune tra le migliori bande di mercenari allora in campo, quelle di John Hawkwood e di Bernard de la Salle -, e Pietro Gambacorti si interpose come mediatore di pace tra i contendenti, il C., in rappresentanza del quartiere di Santo Spirito, fu tra i quattro auditori fiorentini designati il 21 giugno per trattare col signore di Pisa. Trasferitasi in questa città la sede dei negoziati, fu ancora il C., insieme con Stoldo Altoviti e con Guido di messer Tommaso, a portare avanti e a concludere le trattative in nome della Repubblica, firmando una lega generale comprendente, oltre a Firenze e a Milano, anche Bologna, Perugia, Lucca, Pisa, Ferrara, Mantova, Rimini, gli Ordelaffi e i da Montefeltro.
Le clausole della lega, che fu solennemente ratificata il 9 ottobre, impegnavano le parti contraenti a non interferire nelle rispettive zone di influenza: in particolare Firenze e il Visconti si obbligavano a non ingerirsi negli affari lombardi, la prima, nelle questioni toscane il secondo. Si trattava, a dispetto di quanto se ne disse allora, di una coalizione nata morta, come sta a dimostrare il fatto che il 10 ottobre, sempre a Pisa, i rappresentanti di Firenze, di Bologna, di Pisa, di Lucca e di Perugia stringevano un'alleanza particolare per il mantenimento della pace in Toscana, in Romagna e negli Stati pontifici.
Conclusi questi trattati, tuttavia, Firenze si volse a cercare fuori d'Italia aiuti contro il pericolo rappresentato da Milano. Sul finire del 1389 il C., che ancora nella Consulta dell'8 dicembre aveva parlato sottolineando l'imminenza e l'ineluttabilità di uno scontro armato con lo Stato visconteo, venne inviato, insieme con Cristofano Spini, a Parigi per trattare un'alleanza militare con Carlo VI.
Difficile l'ambiente in cui si trovarono ad operare il C. e lo Spini: larvatamente ostile la corte, divisa per i contrasti di interesse fra opposte fazioni, e non insensibile alle pressioni di Gian Galeazzo; critiche le condizioni di salute del re. Dopo mesi di contatti e di maneggi, sembra avessero ottenuto che la stessa regina interponesse i suoi buoni uffici; sebbene avessero prospettato allettanti ingrandimenti territoriali nella pianura padana per lui e per lo stesso conte di Savoia, i due oratori fiorentini non riuscirono a convincere il sovrano del pericolo rappresentato dall'espansionismo visconteo. Carlo VI rifiutò di stringere un'alleanza con la Repubblica, anche se autorizzò i due ambasciatori a rivolgersi presso qualcuno dei suoi vassalli per organizzare un attacco contro Milano - cosa che fu effettivamente fatta, prendendo contatto, per esempio con i conti d'Armagnac. Intanto in Italia la situazione precipitava: il 25 apr. 1390 Gian Galeazzo Visconti dichiarò guerra contro Firenze e gli alleati di quest'ultima, mentre i suoi eserciti entravano in territorio nemico, puntando su Bologna.
Quando il C. rientrò in patria (9 giugno 1390), la guerra si profilava lunga e dura. Nelle Consulte che si tennero nei mesi seguenti, il C. levò più volte la sua voce, esortando il governo fiorentino a non palesare segni di stanchezza e a seguire con cura particolare l'evolversi della situazione politica in Siena per impedire che questa, porta naturale per un'invasione del territorio fiorentino, passasse - come invece avvenne - sotto il controllo del nemico. Nel bimestre marzo-aprile del 1391 resse la suprema dignità di gonfaloniere di Giustizia, ma non ricoprì cariche ufficiali nei mesi successivi, che videro la sanguinosa disfatta dell'armata francese del conte d'Armagnac (25 luglio 1391), il moltiplicarsi dei successi viscontei, le convulse manovre fiorentine per ristabilire la pace, e, da ultimo, il lodo di Genova del 20 genn. 1392, con cui per la Toscana si tornava allo status quo precedente all'apertura delle ostilità e si ristabiliva il trattato di Pisa del 1389 per quanto atteneva alle zone d'influenza. Fautore della politica delle leghe, con cui si cercava di strappare simpatie ed alleati al Visconti, dopo l'avvento al potere in Pisa di Iacopo Appiani (25 ott. 1392) ed il passaggio di questo al campo avverso, il C. sollecitò ripetutamente la Signoria perché con nuove prestanze procedesse all'arruolamento di un contingente di almeno 4.000 lance per fronteggiare la nuova minaccia. Secondo il Passerini - che però non adduce referenze - il C. sarebbe stato inviato di nuovo presso il conte di Virtù, per avviare trattative di pace; ma la missione avrebbe avuto esito negativo. Certo è, ad ogni modo, che il nome del C. non viene fatto dalle fonti a proposito degli avvenimenti che, all'interno di Firenze, stroncarono la potenza degli Alberti e consolidarono la posizione di Maso degli Albizzi come massimo esponente della vita politica cittadina. Ambasciatore a Genova con Filippo Adimari nel tentativo di indurre quella Repubblica a far lega con Firenze (marzo 1394), in una situazione generale di estrema fluidità, il 22 ag. 1395 fu inviato a Bologna col compito di sedare le preoccupazioni colà destate dall'annessione del castello di Castrocaro, da poco passato sotto il dominio fiorentino. Qualche mese dopo, nell'ottobre, ritornava nella città emiliana, questa volta con Filippo Alamanni. I due oratori dovevano non solo cercare di risolvere i problemi sollevati dall'annessione di Castrocaro, ma offrire anche la mediazione fiorentina, per il ristabilimento dell'ordine in Romagna. L'11 genn. 1396 fu eletto fra i Dodici di balia incaricati di giudicare Dotiato Acciaiuoli, dopo il fallimento della congiura da questo ordita per conquistare il potere. Il 23 maggio fu nominato, insieme con Ludovico Albergotti, sindaco del Comune per firmare l'adesione di Firenze ad un nuovo trattato con il Visconti: una lega per la comune difesa contro le compagnie di ventura, che mascherava in realtà una sospensione temporanea della guerra aperta.
La lega fu solennemente sottoscritta il 18 di maggio dai rappresentanti di Firenze, Bologna, Mantova, Padova, Ferrara e Lucca, da un lato; da Pisa, Siena, Perugia e i Visconti, dall'altro.
Probabilmente a causa dei rapporti personali che aveva avuto modo di instaurare in questa occasione, il C. venne subito incaricato, al suo rientro in patria, di una nuova missione, che amministrò insieme a Palmiero Altoviti. Fu così a Bologna, a Ferrara, a Mantova, a Padova, a Venezia per riprendere le fila delle trattative e degli accordi, con lo scopo, come ben risulta dalla sua relazione ai Dieci di balia, di convincere quegli Stati dei propositi egemonici del Visconti, camuffati sotto l'apparente distensione della lega generale. Gli ambasciatori rientravano il 26 settembre 1396 dopo aver consolidato i rapporti con quelle potenze. Il 29 settembre venne infatti conclusa con Bologna e con i signori di Ferrara, di Padova e di Modena, una lega in funzione antiviscontea, nella quale si volle attirare anche il re di Francia con l'offerta della signoria su Genova. Nel quadro delle trattative avviate con Carlo VI, il C. fu mandato a Parigi insieme con Bonaccorso Pitti e Vanni Castellani.
Il Pitti, che nella sua cronaca ricorda l'avvenimento, ed i mesi trascorsi dagli ambasciatori a Parigi in attesa che Carlo VI si rimettesse da una delle sue crisi, ha consegnato alla storia il ricordo della magniloquenza oratoria del C. vanificata dalla ignoranza del re di Francia; infatti sebbene il C. "altamente" e "per grammatica e bene e strettamente" avesse "fatta la richiesta" non riuscì a farsi comprendere dal re, al quale lo stesso Pitti dovette semplicemente. ed in lingua "francesca" riportare le istruzioni della Repubblica, ottenendo al contempo gli aiuti sperati e la sua personale soddisfazione per aver minimizzato il celebre giurista suo collega. Per far divenire esecutive le promesse del re e per far muovere il capitano ingaggiato, Bernard d'Armagnac, il C. ed il Castellani si trattennero a Parigi ancora per circa due anni pressati dalle continue richieste di denaro del condottiero francese.
Rientrato in patria nell'estate del 1399, come risulta dai suoi interventi nelle Consulte, il 7 agosto il C. veniva inviato in missione segreta insieme a Jacopo Guasconi nella montagna pistoiese per un incontro con gli ambasciatori bolognesi, per confermare le antiche alleanze in un momento in cui anche la città amica sembrava propensa a cedere dinnanzi alla insidia viscontea. Il 29 dicembre partì, insieme con Cristofano Spini, per una nuova ambasceria: gli era stato affidato il delicato compito di ostacolare la defezione di Cortona e di Perugia sotto il pretesto di offrire la mediazione fiorentina per il ristabilimento della concordia interna in quelle città.
Nelle relazioni del 18 genn. 1400 i due ambasciatori dichiaravano di non aver potuto convincere Perugia a firmare una lega, e prospettavano l'opportunità di una nuova legazione dopo che anche gli ambasciatori pontifici avessero riferito il consiglio del papa di non cedere al Visconti. Il 22 gennaio essi, dopo essere rientrati in Firenze, fecero ritorno in Perugia, dove trovarono radicalmente mutata la situazione politica, perché la città nel frattempo si era data in signoria al duca di Milano. Costretti a fuggire, solo quando furono di nuovo a Firenze vennero informati che anche Lucca, dopo Assisi, Spoleto e Norcia, si era dichiarata dalla parte di Gian Galeazzo. Firenze, ormai isolata, era costretta ad accedere alla pace di Pavia del 21 marzo 1400.
Sul finire dell'anno il C., insieme con Matteo Vanni, fu inviato a Lucca per prendere contatti con Paolo Guinigi, assurto al governo di quella città con il titolo di capitano e difensore del Popolo dapprima (14 ottobre), e poi con quello di signore (21 novembre). I due oratori rientravano il 24 dicembre riportando le profferte di amicizia del signore lucchese. Nei primi mesi del 1401 il C. venne inviato, accanto a Manetto Davanzati, a Bologna in un estremo tentativo di impedire che anche quell'ultimo baluardo del sistema fiorentino di alleanze cedesse. La missione ebbe un felice esito anche per l'avvento al potere di Giovanni Bentivoglio (24 febbraio), il quale non esitò ad accettare l'alleanza che Firenze gli offriva. In giugno il C. partì per la Germania insieme con alcuni fra i più alti esponenti dell'oligarchia: Maso degli Albizzi, Rinaldo Gianfigliazzi, Tommaso Sacchetti. Gli ambasciatori avevano l'incarico di sollecitare la discesa in Italia del nuovo re dei Romani, Roberto di Baviera.
Durante i colloqui venne confermato l'impegno di Firenze a versare i 200.000 fiorini previsti dall'accordo di cooperazione militare. Inoltre, allo scopo di accelerare l'attuazione dell'impresa, gli oratori promisero che Firenze avrebbe concesso al sovrano un ulteriore contributo di 200.000 fiorini, se avesse passato le Alpi prima di settembre. Per parte sua, Roberto confermò alla Repubblica tutti i territori toscani e romagnoli che erano allora sotto dominio fiorentino, ed investì gli ambasciatori delle funzioni di vicari imperiali.
Roberto scese dalla Germania con un esercito poco numeroso sperando di ricevere l'aiuto fiorentino e quello carrarese. Ma fu sufficiente un modesto insuccesso presso Brescia (24 ottobre) per indurre i suoi due maggiori feudatari - l'arcivescovo di Colonia e il duca d'Austria - ad abbandonarlo, costringendolo a rinunziare all'impresa. Il Pitti ricorda il querimonioso incontro, avvenuto a Padova poco tempo dopo la sconfitta, tra il C., accompagnato dai suoi tre colleghi, ed il re dei Romani. Questi, che l'Ammirato paragona ad un "caporale di Compagnia", pretendeva dal governo della Repubblica 90.000 fiorini, quanto gli rimaneva da avere della somma prevista dal trattato. Gli oratori si rifiutavano di acconsentire alle pretese del sovrano, adducendo l'infelice esito dell'impresa, dovuto all'esiguità delle forze del re. Non riuscendo a raggiungere un accordo, Roberto partì per Venezia, con l'intenzione di chiedere a quel governo l'appoggio contro la città toscana. Anche il C. ed i suoi colleghi si trasferirono a Venezia, dove ripresero le trattative. Il governo della Serenissima, che ora si vedeva minacciato dalla espansione viscontea, faceva pressioni sugli ambasciatori perché si accordassero con il sovrano. Infine, grazie soprattutto alla mediazione veneziana, si giunse ad un compromesso: il re avrebbe contìnuato la campagna iniziata e Firenze avrebbe versato al sovrano solo 65.000 fiorini, a saldo di quanto doveva ancora dare, perché - come sosteneva - aveva impiegato la differenza per assoldare armati sotto le insegne del re.
Il C., insieme con gli altri esponenti del governo fiorentino, fu impegnato sino al marzo dell'anno seguente nelle trattative col re dei Romani per la ripresa della guerra contro i Visconti. Quando il sovrano, non riuscendo a ottenere quanto voleva, abbandonò l'Italia e il duca di Milano poté riprendere indisturbato la sua politica espansionistica occupando Bologna (30 giugno), il C. era dei Dieci di balia per la guerra contro il Visconti e provvedeva febbrilmente, insieme con i colleghi, ad armare e a fortificare Firenze. Scomparso improvvisamente Gian Galeazzo, morto di peste nel castello di Marignano (3 settembre), la Repubblica cercò di consolidare le sue posizioni. In tale contesto politico, il C., commissario generale dei Castelli della montagna pistoiese ribellatisi alla politica fiscale di Pistoia (1403), fu inviato ambasciatore a Genova nel giugno 1404. Scopo immediato della missione era quello di ottenere la restituzione delle merci fiorentine che il maresciallo de Boucicault, luogotenente del re di Francia, aveva fatto sequestrare per rappresaglia in seguito alle incursioni fiorentine nel contado di Pisa, la cui causa egli appoggiava. Il C., tuttavia, doveva anche porre le basi per un eventuale acquisto della città, senza tuttavia raggiungere lo scopo. L'anno successivo, dopo un breve soggiorno ad Avignone, fu inviato ambasciatore presso Carlo VI di Francia assieme a Iacopo Salviati; doveva presentare al sovrano le rimostranze fiorentine per l'appoggio dato ai Pisani dal suo luogotenente in Italia. La legazione ottenne i risultati sperati: Carlo VI non solo vietò al Boucicault dì prestare qualunque soccorso ai Pisani, ma dette al C. un segno della sua particolare stima ascrivendolo, con diploma regio, tra i suoi consiglieri e concedendogli il privilegio di inserire nel proprio stemma i fiordalisi di Francia. Nel 1406 egli era di nuovo ad Avignone; nel 1407 era degli Otto di guardia e balia, e nel marzo di quello stesso anno amministrò un'altra ambasceria presso l'antipapa Benedetto XIII, allora a Nizza.
Secondo il Passerini si deve principalmente alla sua attività l'inizio dei lavori del concilio convocato a Pisa per il 25 marzo 1409 dai cardinali delegati da Gregorio XII e da Benedetto XIII per risolvere il problema dello scisma. Ma al di là di questo poco documentabile merito, con certezza sappiamo solo che nel 1408 egli coprì per la terza volta l'incarico di gonfaloniere di Giustizia, e che l'anno seguente, nel marzo 1409, veniva inviato ambasciatore al concilio, per esortare i cardinali a non prendere posizione contro Ladislao, a cui rifiutavano il riconoscimento di legittimo re di Napoli. Questa attività mediatrice del C. è testimoniata anche dai suoi interventi nelle Consulte. Nel 1410 egli era ancora attivamente impegnato nella vita pubblica fiorentina: uno dei sedici gonfalonieri di Compagnia per S. Spirito, dove si trovavano le sue case, nello stesso anno compare tra i Dodici buonuomini. Nuovamente gonfaloniere di Giustizia, nel 1412 riaprì lo Studio fiorentino, la cui attività era stata interrotta durante tutto il periodo della guerra contro i Visconti. L'anno successivo fu ambasciatore a Siena, dove si trovava Giovanni XXIII, per pregarlo di non avvicinarsi al territorio fiorentino.
È questo l'ultimo significativo episodio dell'attività diplomatica del C.: capitano di Giustizia in Volterra nel 1416, nel 1417 fu per la quinta volta gonfaloniere di Giustizia in Firenze. Nel 1419 era vicario del Valdamo superiore e, nel primo semestre del 1421, vicario di Anghiari.
Morì a Firenze il 24 ott. 1421.
Molto più tardi l'Ammirato lo avrebbe ricordato con queste parole "cittadino molto chiaro e stimato nella Repubblica sì per la dottrina come per le altre buone qualità, il suo mortorio fu onorato dal pubblico di targa e pennone con l'arme del popolo, come ancora di sopravveste d'huomo e coperta di cavallo".
Di quest'uomo politico di grande spessore culturale e politico, figura centrale del periodo del governo oligarchico fiorentino, poche sono le notizie riguardanti la vita privata. Ebbe due mogli: Lisa di messer Barna de' Rossi, che morì prima del 1387; e Tessa di messer Bertoldo Guazzalotri, appartenente a una eminente famiglia pratese, che sposò nel 1387 e che gli sopravvisse. Dai matrimoni ebbe sette figli, di cui si ricorda qui Amerigo, primo arcivescovo fiorentino. Nessuno di loro avrebbe eguagliato il padre come qualità e quantità di impegno nella vita della Repubblica. Da alcune astiose annotazioni del cugino Matteo affidate alle Ricordanze domestiche sappiamo che il C. esercitò con estrema fermezza le funzioni di capo del gruppo familiare dei Corsini, non rinunciando mai neppure al primato economico su di esso. "Mantenne il traffico di lana già cominciato dai suoi maggiori e lasciò i figli colla reputazione dì essere uno dei più ricchi tra i ricchissimi mercanti della città di Firenze", sottolinea il Passerini (p. 90). Delle sue orazioni rimangono alcune testimonianze nella biblioteca Corsini a Roma, come vuole il Passerini, e nelle biblioteche fiorentine che conservano anche alcuni suoi responsi giuridici. Pare che a lui si debba attribuire anche un trattato Responsa ad legistas oggi perduto.
Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl. nazionale, Mss. Magliabechiani, VI,134, n. 2 (cinque orazioni); Mss. Magliabechiani, XXIX,117, 118, 171, 172, 173, 193 (consultazioni giuridiche); Ibid., Bibl. Riccardiana, Mss. 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Istruz. e lettere. Missive, reg. 1 cc. 22r-23r, 1386, 13 marzo; 32r, 15 maggio; 73v-75r, 1388, aprile; 106r, 1388, 17 giugno; 159r-160v, 26 dicembre; 205r, 1389, 2 agosto; reg. 2, cc. 46v-48r, 19 ag.; Ibid., Dieci di Balia, Carteggi, Relaz. di ambasciatori, reg. 1, cc. 1v-2v, 1395, 10 agosto; 5rv, 5-26 ottobre; 28rv, 1396, 22 agosto-26 settembre; Ibid., Dieci di Balia, Missive, legaz. e commissarie, reg. 3, cc. 66v, 1404, 14 giugno; 67v-68r, 23 giugno; 69r, 24 giugno; 69rv, 25 giugno; 70v, 26 luglio; Ibid., Signori, Carteggi, missive, legazioni e commiss., reg. 1, cc. 2r-3r, 1394, 4 marzo; 3r, 9 aprile; reg. 2, cc. 7v-8r, 1399, 7 ottobre; 21r-22r, 24 dicembre; 25rv, 1400, 20 gennaio; 35r, 6 dicembre; 42r-44r, 1401, 4 marzo; Ibid., Signori, Carteggi, rapporti e relaz. di oratori, reg. 1, cc. 34rv, 1399, 14 ottobre; 35v, 1400, 18 gennaio; 37v, 24 dicembre; 38v, 1401, 24 marzo; 40v, 1402, 20 marzo; Ibid., Signori, Carteggi, legazioni e commissarie, Elezioni e istruzioni a oratori, reg. 3, cc. 40rv, 1405, 4 genn.; 59v, 12 aprile; reg. 4, cc. 14v-15r, 18v, 1407, 22 marzo; 26v-27v, 26 ag.; 91v-93r, 1409, 8 marzo; reg. 6, cc. 31v-32r, 1413, 10 giugno; Ibid., Signori e Collegi, Giornale di deliberaz., reg. 4, c. 138v, 1418, 16 aprile; S. 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