CORRER, Filippo
Figlio di Paolo di Filippo, del ramo di Castello e di Daria di Filippo di Maffio Emo, nacque a Venezia nel 1414. Nel 1434 si sposò con Elisabetta di Giovanni di Antonio da Molin, da cui ebbe i figli Paolo, Giacomo, Elisabetta, Maria, Ginevra e Daria. La famiglia cui apparteneva era, in questo periodo, tra le più insigni del patriziato veneziano. Il padre, nipote di papa Gregorio XII, ricoprì le cariche politiche più prestigiose e si segnalò per la costanza e l'impegno con cui svolse i compiti affidatigli dalla Repubblica.
Nel 1432, all'età di diciotto anni, il C. fu presentato dal padre all'Avogaria di Comun per l'iscrizione alla Balla d'oro. Non conosciamo l'iniziale attività politica del C., la quale si svolse probabilmente all'interno di magistrature che un giovane patrizio era solito ricoprire, quale ad esempio il Saviato agli ordini. Nel 1451 e 1452 fu membro della Quarantia; nel 1454 entrò nel Consiglio dei pregadi; l'anno seguente fu nuovamente della Quarantia "de additione". Il 20 giugno 1454 venne inviato presso il sultano d'Egitto.
In quell'anno la situazione di relativa tranquillità esistente nel Mediterraneo orientale era improvvisamente precipitata a causa dell'attacco e depredamento condotti dal gran maestro di Rodi a danno di alcune navi veneziane. La Repubblica, già seriamente impegnata in Morea, aveva reagito con vigore inviando il proprio capitano generale da Mar ad assediare Rodi e, dopo uno scontro cruento, aveva ottenuto la liberazione dei mercanti e la restituzione delle merci depredate. Tale azione aveva però sortito l'effetto d'irritare il nuovo sultano d'Egitto, il quale, con sorpresa della Repubblica, aveva ordinato l'arresto del console veneziano d'Alessandria e di alcuni mercanti veneti ivi residenti, sequestrando loro una somma ingentissima di denaro. Il C., provvisto di lettere credenziali del Senato, venne inviato al Cairo con l'ordine tassativo di non trattenervisi più di quaranta giorni. Nella commissione affidatagli, il Senato lo incaricava di manifestare al sultano le ragioni che avevano indotto la Repubblica ad attaccare Rodi e il grande "dolor et displicentia" con cui essa aveva accolto la notizia dell'arresto dei propri mercanti. Il C. doveva chiedere la loro immediata liberazione e la restituzione del denaro sequestrato, manifestando altresì la volontà della Repubblica, e, nel caso in cui ciò non fosse stato ottenuto, di allontanare al più presto tutti i propri consoli e mercanti dalle zone d'influenza del sultano. Doveva inoltre chiedere la risoluzione di alcune questioni pendenti già da molti anni, tra cui il risarcimento dei danni e dei furti subiti in Alessandria e Damasco da alcuni mercanti veneziani.
Il C. svolse con destrezza ed abilità la missione affidatagli, ottenendo la liberazione dei sudditi veneti e la restituzione dei beni loro sequestrati. Rientrò nel novembre dello stesso anno, accompagnato da un ambasciatore turco, che doveva inoltrare al Seriato veneziano le richieste del sultano concernenti il pattuito accomodamento. Il C. portò con sé dei doni esotici ricevuti da quel sovrano, che i cronisti del tempo non mancarono di registrare con interesse: "una zucchetta di balsamo, muschi, zibetti, benzuar, legno aloè, zucari canditi...".
Nel gennaio del 1466 venne eletto podestà e capitano di Ravenna, ma non iniziò l'incarico che nel dicembre successivo. Non conosciamo l'attività che egli svolse nel suo anno di permanenza in città. Di certo dovette fronteggiare i numerosi problemi connessi allo stanziamento delle milizie di Bartolomeo Colleoni in Romagna. Nel giugno del 1467 riceveva da Venezia 1.000 "stara" di farina perché con quella provvedesse a fare del pane da inviare a quel condottiero. E fu forse proprio per questa sua diretta esperienza che, al termine del suo incarico, nel marzo del 1468 il Senato lo inviò presso il Colleoni in qualità di oratore.
In questo periodo Milano, Firenze e Napoli erano collegate in un accordo che, sebbene apparentemente avesse il fine di contrastare le azioni di disturbo del Colleoni, il quale, non più al diretto servizio della Repubblica, ambiva ad acquistare una propria signoria, era impostato chiaramente in funzione antiveneziana. D'altronde la Repubblica non aveva cessato di mantenere stretti contatti con il condottiero e in più d'una occasione ne aveva finanziato le iniziative. La forte pressione dei Turchi ad Oriente induceva la Signoria a propendere per la pace in Italia, favorendo l'iniziativa del pontefice volta a questo fine. Ma poiché le mire degli Stati alleati non le apparivano chiare, essa decise infine di intervenire presso il Colleoni sollecitandolo a non disarmare le proprie milizie.
Il C. ricevette dal Senato l'incarico di comunicare al Colleoni come gli Stati della lega "male animate et disposite sint", esortandolo nel contempo a tenersi preparato alla guerra. Doveva inoltre verificare se il condottiero era disposto a passare al servizio della Repubblica, nonché accertare il numero di soldati e cavalli che aveva a sua disposizione. Giunto al campo del Colleoni e comunicategli le disposizioni del Senato, il C. constatava la sua predisposizione a porsi al servizio della Repubblica qualora ne fosse stata accolta la richiesta di essere stipendiato con una somma atta a mantenere i 7.000 cavalli e 2.000 fanti che aveva al suo servizio. La mediazione del C. si svolse positivamente: alla fine di marzo egli riferì che il Colleoni gli aveva comunicato l'intenzione di trasferirsi con tutte le sue truppe nel Padovano. Il Senato gli rispose però subito di indurre il Colleoni a desistere momentaneamente da ciò sino a che le trattative di pace, che si stavano conducendo a Roma, non avessero raggiunto un esito positivo. Infine il 28 maggio scriveva al C. di manifestare al Colleoni la volontà della Repubblica di riassumerlo al proprio servizio.
Ritornato a Venezia, nell'agosto del 1468 venne eletto consigliere. Nel 1469 fu savio di Terraferma. Nel luglio dello stesso anno venne inviato a Napoli in qualità di oratore presso il re Ferdinando.
In opposizione alla lega stipulata sin dal giugno del 1468 tra Milano, Firenze e Napoli, la Repubblica aveva concluso un accordo con il pontefice nel maggio 1469. A rompere il difficile equilibrio raggiunto sopraggiungeva la contesa tra i Malatesta e il papa per il possesso di Rimini. Venezia, alleata del papa e in pari tempo protettrice dei signori di Rimini, venne a trovarsi di fronte ad una scelta difficile. Temendo che la contesa potesse degenerare in guerra aperta con gli Stati della lega, la Repubblica decise di intervenire a Roma e Napoli per indurre quei sovrani al raggiungimento di un accordo. A tal fine essa inviò come suoi ambasciatori Francesco Giustinian presso il papa Paolo Il e il C. presso re Ferdinando di Napoli, protettore dei Malatesta. Nella commissione affidatagli il C. doveva indurre quel sovrano a comporre le divergenze che egli aveva con il pontefice, dichiarandogli la ferma volontà della Repubblica di non "discedere ad antiquo istituto nostro et non facere pro defensione status et rerum ecciesie id quod progenitores nostri facere sunt consueti".
Il C. si trattenne alcuni mesi a Napoli impegnandosi intensamente nella sua veste di mediatore. Nell'aprile del 1470 stabili un'alleanza tra la Repubblica e re Ferdinando, il cui testo venne però respinto in alcuni suoi capitoli dalla Signoria. Il 17 dello stesso mese il C. ricevette istruzioni di non accettare in alcun modo quei capitoli che erano in palese contraddizione con gli accordi precedentemente stipulati tra la Repubblica e il pontefice. Inspiegabilmente il C. rifiutò di seguire le istruzioni del Senato e concluse l'alleanza con il testo che solo pochi giorni prima la Signoria aveva respinto. Inoltre giustificò tale atto, come attesta il Malipiero, scrivendo a Venezia che egli aveva operato per il bene della Repubblica "per causa della guerra del Turco, onde se la vi sara grata me piasera, quando no, la è pur fatta, bisogna haver pacientia. Il Senato reagì immediatamente sostituendolo con Bernardo Giustinian e ordinandogli di partire da Napoli "et venire recta Venetias ad se presentandum in carceribus nostris".
Non conosciamo i motivi che indussero il C. ad opporsi così apertamente alle istruzioni ricevute da Venezia. I capitoli da lui stipulati erano, poi, così palesemente antipapali che si può escludere con certezza che egli fosse incorso in un passo falso durante le trattative di mediazione. È forse probabile che con il suo atteggiamento egli sperasse di forzare la mano alla Signoria, facendo leva sull'appoggio diretto di un settore del patriziato incline ad un'alleanza più stretta con Napoli e deciso ad espandere la zona d'influenza veneziana sullo Stato pontificio. Giunto a Venezia, il C. venne processato dall'Avogaria di Comun e condannato a sei mesi di carcere. Inoltre fu privato della podesteria di Brescia cui era stato eletto, interdetto per un biennio da ogni consiglio segreto e in perpetuo da ogni ambasceria. Una condanna assai pesante che la sentenza degli avogadori, emessa nel luglio del 1470, motivava non solo con l'inosservanza da parte del C. delle istruzioni ricevute, ma anche per le lettere "detestabili" con cui egli aveva cercato di scusarsi gettando la colpa "in dominationem nostram".
Non conosciamo la data esatta della morte del C., che viene però a collocarsi nel periodo 1471-1475, poiché nell'aprile del 1475 la moglie testava e si faceva monaca.
I due figli maschi del C. morirono in tenera età. Delle figlie si sposarono Maria nel 1465 con Girolamo da Molin, Ginevra nel 1467 con Gentile Contarini e Daria nel 1472 con Zaccaria Barbarigo. Nel testamento redatto dal padre nel 1441, il C. era stato designato come unico erede di tutti i beni familiari, a condizione che essi si trasmettessero "de herede in herede mascoli in perpetuo" e non potessero mai essere alienati. Nel caso fossero mancati degli eredi maschi, il patrimonio doveva essere trasmesso ai maschi discendenti da linea femminile. Il C., nel testamento redatto il 24 ott. 1470, lasciava tutti i suoi beni alle quattro figlie. Ma di lì a non molti anni dalla sua morte, si accese tra gli credi delle figlie Maria e Ginevra una lunghissima lite per la suddivisione dei beni del C., la quale si sarebbe protratta sino al 1554. Il corpo del C. venne sepolto in S. Pietro di Castello nella tomba di famiglia.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di comun, Balla d'oro, reg. 162, c. 41v; Ibid., Avogaria di Comun, Cronaca matrimoni, reg. 107/2, c. 81r; Ibid., Avogaria di Comun, Raspe, reg. 3653/13, cc. 41v, 42r; Ibid., Segretario alle voci, Misti, reg. 3, cc. 131v, 134v, 139v, 144r; reg. 5, c. 5r; reg. 6, cc. 1r, 22v; Ibid., Senato, Deliberazioni segrete, reg. 22, cc. 95r-98r, 126r, 131v, 132r; reg. 23, cc. 30, 36v, 50v, 52v, 57v, 58r, 60r, 70v, 77v, 78r, 84v, 85r, 92r, 99r, 100v, 101v, 104, 105r, 106-109r, 110-111, 113, 114r, 115, 116r, 121, 122r, 128, 129r; reg. 23, cc. 89v, 99v, 100r, 103r, IIIV, 112; Ibid., Senato, Terra, reg. 5, c. 186r; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 82 (= 7767): Venetia cronici, c. 67r; Ibid., Mss. It., cl. VII, 198 (= 8383): Reggimenti della Repubblica veneta, secc. XV-XVII, c. 112r; Venezia, Bibl. d. Civico Museo Correr, Mss. Correr 1038: Indice dei manoscritti della bibl. Foscarini, cc. 311, 312; Ibid., Mss. Correr, 1465, c. 101, in cui si traccia un breve profilo del C.; Ibid., Mss. Correr, 1481, s. c.; Ibid., Mss. Correr 1489, s. c. che contiene il processo di lite per i beni di Paolo Correr; A. Navagero, Historia Veneta, in L. A., Muratori, Rer. Ital. Script., XXIII, Mediolani 1733, col. 1127; M. Fantuzzi, Monumenti ravennati, IV, Venezia 1802, pp. 491, 497; D. Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500, a cura di F. Longo- A. Sagredo, in Arch. stor. ital., VII (1843), 1, pp. 228, 235 s.; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1903, p. 96; Anonimo Veronese, Cronaca 1446-1488, a cura di G. Soranzo, Venezia 1915, pp. 252, 261, 269, 273, 274, 277; G. Zabarella, Il Corelio, Padova 1664, p. 69; G. Soranzo, Lorenzo il Magnifico alla morte del padre, in Arch. stor. ital., CXI (1953), p. 63.